Eccoci arrivati al momento tanto amato ed odiato allo stesso tempo, quello in cui si cerca di incasellare gli ascolti preferiti degli ultimi 12 mesi. Compilare una classifica diventa sempre ogni anno più difficile visto il numero di uscite sempre maggiore ed una frammentazione incredibile del mercato discografico. Se pensate che le classifiche non abbiano senso, beh, è davvero difficile darvi torto visto che da una parte sono legate a doppio filo alla nostra sensibilità, dall’altra è una pratica spesso egocentrica e soggetta a continue revisioni. Però, c’è anche da dire che, opinione personale, è sempre stimolante e divertente sia redigerle che leggerle.
La mia personale opinione è che le classifiche di fine anno andrebbero prese sempre e comunque come stimolo per la nostra curiosità di famelici ascoltatori-consumatori di musica. Come detto, è sempre complicato mettere in un qualunque ordine le proprie preferenze. Gli ascolti sono diversi e diversificati e se alcuni album possono essere ascoltati con una certa “leggerezza”, altri hanno bisogno di uno stato d’animo particolare o di un diverso momento della giornata per essere assaporati a pieno, momenti che non sempre possiamo avere a disposizione nella nostra frenetica quotidianità.
Per giunta, come ormai è chiaro da qualche anno, le modalità di ascolto della musica sono cambiate in maniera drastica: adesso abbiamo la possibilità di trovare letteralmente tutto a disposizione, in qualsiasi momento ed in qualsiasi modo. I servizi di streaming hanno giorno dopo giorno soppiantato sia la vendita dei cd-lp che quella del download della musica “liquida”, lasciando la vendita del supporto fisico ai (quasi) soli appassionati, che sempre più spesso prediligono il caro vecchio vinile, anche se nell’ultimo anno il prezzo di questo supporto è aumentato in maniera assolutamente sconsiderata, in relazione anche alla qualità della stampa.
Fare una classifica dei migliori album dell’anno, visto il numero gigantesco di uscite annuali, è un’impresa al limite del fantascientifico. Probabilmente a ragione, qualcuno lo considera anche un inutile esercizio di stile: difficile stabilire gerarchie, e soprattutto, fissare i “giusti” parametri da usare. Quali sarebbero? In base a cosa?
Come detto in precedenza è letteralmente impossibile solo cercare di ascoltare tutto: troppe le pubblicazioni e troppo poco il tempo quotidiano a disposizione per ascoltare nuova musica con l’attenzione che spesso meriterebbe. Anche quest’anno ci saranno sicuramente alcuni album che trovate nei piani bassi della classifica solo perché hanno avuto la sfortuna di avere meno ascolti a disposizione e meno possibilità di essere apprezzati. Prendete la classifica per quello che è, visto che la realtà di Sounds & Grooves è davvero pochissima cosa (visto che sono l’unico a gestirla nella sua totalità) se paragonata a corazzate del mondo delle webzines musicali come OndaRock (con cui collaboro da qualche anno), SentireAscoltare dello stimatissimo Stefano Pifferi, Distorsioni (solo per citarne alcune), o gli splendidi blog personali di autentici giornalisti professionisti ed enormi conoscitori di musica come Eddy Cilìa, Federico Guglielmi o Carlo Bordone, tanto per citare i primi che mi vengono in mente.
In questo spazio, come quasi ogni anno, ho voluto semplicemente buttare giù, come appuntandoli su un taccuino, gli album che negli ultimi 12 mesi ho ascoltato di più, e che sono riusciti maggiormente a coinvolgermi, pero poi condividere con voi la mia interpretazione, il mio modo di sentire. Nonostante ci siano un milione di classifiche sparse nel web, credo che da ognuna di queste ci sia sempre da qualcosa da imparare, uno o più nomi da annotare per poi approfondire con curiosità.
In calce ai 50 album che più hanno segnato la mia annata musicale, troverete un’altra lista composta da outsiders, album che non sono entrati nella Top 50, sfiorando la mia personale eccellenza, ma che per molti di voi potrebbero invece essere (giustamente) degni della portata principale. Nei titoli che formano questa lunga lista, ce n’è per tutti i gusti. C’è sempre un oceano di musica da scoprire, e molti (me compreso) non sono riusciti a rinunciare al fascino irresistibile dei tesori (o presunti tali) sommersi, avendo come risultato un’enorme varietà di nomi all’interno delle singole playlist.
Discorso a parte meritano le ristampe e quelle etichette (Light In The Attic, Superior Viaduct, Numero Group, Cherry Red tanto per citarne alcune) che hanno riportato alla luce o ampliato in maniera scintillante autentici capolavori, alcuni ripescati dall’oblio, altri semplicemente tirati a lucido. Ho compilato una piccolissima classifica anche delle mie preferenze in tal senso.
Ogni classifica dei migliori album dell’anno porta una scintilla per rinvigorire quella fiamma appassionata dentro ognuno di noi. Da parte mia un abbraccio speciale, consentitemelo, va sempre a quella che è la mia “famiglia” da sempre, prima in FM e poi sul web, ovverosia quella splendida podradio chiamata Radiorock.TO The Original.
#everydaypodcast
#1
LANKUM False Lankum (Rough Trade)
Quest’anno ho voluto premiare con la prima posizione della mia classifica un gruppo che sta rivitalizzando un genere storico come il folk cambiando in corsa le regole del gioco. Il 2023 ha visto il ritorno dei dublinesi Lankum con il loro quarto album intitolato False Lankum, atteso seguito di quel The Livelong Day che nel 2019 gli ha permesso di vincere il RTE Choice Music Prize (equivalente irlandese dei Grammy). Partendo da canzoni folk tradizionali, i Lankum (nome preso dal protagonista della scura folk ballad intitolata proprio “False Lankum” scritta da John Reilly) hanno impresso il loro marchio personale facendo leva su pesanti droni e distorsioni che conferiscono nuova intensità e bellezza a ogni brano. Con questo album il quartetto ha consolidato il suo distacco dal genere folk classico, creando una musica audace e contemporanea che nasce, come detto, da elementi tradizionali ma che suona decisamente nuova. False Lankum contiene anche due brani originali, “Netta Perseus” e “The Turn“, entrambi scritti da Daragh Lynch (voce, chitarra e piano). Il loro quarto disco (il terzo su Rough Trade), è stato pensato fin dall’inizio come un’opera completa, una progressione e un viaggio per l’ascoltatore, spiegandolo così: “Volevamo creare un maggiore contrasto nel disco, in modo che le parti leggere risultassero quasi spirituali e le parti scure fossero incredibilmente cupe, addirittura horror“.
Nelle 12 tracce dell’album il quartetto irlandese ha utilizzato una nuova tavolozza per colorare il proprio suono in modo sempre più sperimentale, grazie anche all’ausilio del produttore di lunga data John ‘Spud’ Murphy. Solo dopo la registrazione il gruppo si è reso conto che quasi tutte le canzoni dell’album, raccolte o scritte, avevano una sorta di riferimento al mare. Qualche forza sconosciuta li aveva attirati verso il più grande e prolifico raccoglitore di canzoni che sia mai esistito, capace di trasportare storie da centinaia di anni. Il brano di apertura dell’album, “Go Dig My Grave”, viene da alcuni versi originariamente composti come strofe di diverse ballate, come “A Forlorn Lover’s Complaint” di Robert Johnson (che risale al 1611), passando per la registrazione di Jean Ritchie nel 1963 per poi approdare sulle coste irlandesi. Il brano, condotto dalla voce di Radie Peat, è affilato come un rasoio, crudo e sferragliante, suonato con un’energia straordinaria. Un disco che troviamo meritatamente in alto su molte classifiche annuali.
Ascolta: Go Dig My Grave
#2
FIRE! ORCHESTRA Echoes (Rune Grammofon)
Chi segue i miei podcast sa benissimo che i Fire!, trio avant-jazz che vede dietro i tamburi Andreas Werliin, metà dei Wildbirds & Peacedrums, e gli stessi W&P, appaiono abbastanza regolarmente nelle mie scalette per il loro approccio in perfetto equilibrio tra jazz, psichedelia, attitudine garage, e primitivismo folk-blues spogliato da ogni orpello. Nel corso del 2013 i Fire! (Mats Gustafsson: sassofoni, Fender Rhodes e elettronica, Johan Berthling: basso e Andreas Werliin: batteria) sono riusciti a riunire decine di altri musicisti della scena improv-alt-jazz-rock svedese (tra cui la moglie di Werliin e metà dei W&P Mariam Wallentin) allargando l’ensemble e dando vita, sotto il nome di Fire! Orchestra, ad un baccanale orgiastico dove suggestioni di jazz astrale (con Sun Ra come nume tutelare ed esplicito riferimento), kraut-rock, psichedelia, improvvisazioni, accelerazioni soul riescono ad incastrarsi perfettamente. Nell’aprile 2023 hanno pubblicato un nuovo, incredibile lavoro a quattro anni dal precedente Arrival. Nelle quasi due ore di registrazione del nuovo album della Fire! Orchestra intitolato Echoes convivono, in maniera incredibile, jazz, rock, folk, musica elettronica, classica e contemporanea, con un uso di archi, fiati ed elettronica assolutamente sublime. Alla produzione del nuovo album della band di Mats Gustafson ha partecipato anche Jim O’Rourke, cui è stata data assoluta libertà in sede di missaggio. Qui sotto, a rappresentare un disco che occupa meritatamente la piazza d’onore della mia playlist annuale, potete ascoltare “Echoes: To Gather It All. Once.”, una sorta di lungo e lento soul-jazz condotto con maestria proprio dalla voce della già citata Mariam Wallentin, che nel corso del disco si alterna alla voce con David Sandström e con il sassofonista Joe McPhee. Il collettivo scandinavo, stavolta addirittura composto da 43 elementi, si conferma per l’ennesima volta come assoluto punto di riferimento della scena musicale odierna.
Ascolta: ECHOES: To gather it all. Once.
#3
MELANIE DE BIASIO Il Viaggio (Pias)
Sei anni fa, le atmosfere malinconiche e rarefatte di un album intitolato Lilies mi aveva colpito al cuore confermando Melanie De Biasio come una delle migliori e più ispirate interpreti contemporanee. Il dosaggio sapiente di pochi strumenti e la magia della sua voce avevano reso i suoi microcosmi perfetti sia musicalmente che liricamente. Non che l’italo-belga, madre belga e padre italiano, sia mai stata particolarmente prolifica (spesso e volentieri si è voluta prendere il suo tempo per catturare le proprie idee e trovare la giusta direzione sonora), ma stavolta al suo lento modus operandi si è aggiunta la pandemia che non ha certo accelerato le cose. La scintilla per la gestazione di un nuovo lavoro è stato l’invito a partecipare a Europalia, festival culturale di arti audiovisive, il cui tema del 2021-22 è stato “TRAINS & TRACKS”, un approfondimento sull’impatto del treno sulla società. In particolare, alla De Biasio era stata richiesta un’installazione audio-video che rappresentasse la migrazione in treno degli italiani verso il Belgio e le sue miniere nel secondo dopoguerra. L’occasione per ripercorrere al contrario il viaggio intrapreso dai nonni paterni si è trasformata in una grande opportunità compositiva, facendo fortunatamente interrompere il silenzio della De Biasio che, a metà ottobre, ha pubblicato un doppio album intitolato Il Viaggio. Nel disco, per la prima volta, l’artista canta anche nella nostra lingua, un modo per rafforzare un legame ideale e affettivo con la sua terra di origine: “Sentivo che quello che dovevo esprimere in questo progetto doveva essere cantato in italiano, per avvicinarmi alle mie radici.” Il treno del viaggio di Melanie è una sorta di vecchio convoglio locale che scorre lento catturando ogni suono, immaginazione e sensazione che passa attraverso il vetro. Una richiesta di tempo e attenzione non certo semplice in questi tempi inquieti e frenetici. L’italo-belga negli oltre 80 minuti de Il Viaggio è riuscita a reinventarsi ancora, allontanandosi dalla forma canzone classica e avvolgendo insieme jazz, folk e ambient in canzoni capaci di coinvolgere e commuovere. Come dice la stessa autrice, siamo tutti dei nomadi in un viaggio solitario: “Spero che questo mio viaggio vi aiuti ad accompagnarvi nel vostro. Spero che vi porti altrove, in un luogo che non visitate spesso, ma che vi appartenga davvero”.
Ascolta: Now Is Narrow
#4
THE CLIENTELE I Am Not There Anymore (Merge Records)
Dopo sei anni di silenzio e per suggellare i 25 anni di attività, sono tornati a far sentire la loro voce i londinesi Alasdair MacLean (voce, chitarra, organo), James Hornsey (basso, piano) e Mark Keen (batterie e percussioni) uniti nella ragione sociale The Clientele. Ed è stato, diciamola tutta, un ritorno favoloso che non poteva far altro che portare il gruppo così in alto nella mia personale classifica. A sei anni di distanza da Music For The Age of Miracles ecco di nuovo ad allietare le nostre orecchie il pop da camera del trio londinese, che stavolta ci prende per mano portandoci in un lungo e meraviglioso viaggio nella memoria, un percorso intimista, profondo e melodico intitolato I Am Not There Anymore. Mantenendo un’importante coerenza artistica, i londinesi proseguono il loro viaggio nella loro personale declinazione del pop, in bilico tra Love e Sarah Records. Stavolta sono riusciti ad introdurre nel calderone anche i battiti digitali del computer e altre suggestioni jazz e folk, capaci di arricchire la loro tavolozza sonora e riuscendo a creare più di un’ora mai stucchevole di assoluta magia. Una maturità pop che abbaglia e lascia sbalorditi man mano che si sfogliano le 19 tracce di cui è composto il lavoro, impreziosito talvolta da una ricca sezioni di archi e fiati. Difficile scegliere solo una carta dal mazzo, perché il disco, nella sua interezza, non ha colpito solo me, ma è entrato di diritto in moltissime classifiche di fine anno.
Ascolta: Blue Over Blue
#5
PERE UBU Trouble On Big Beat Street (Cherry Red)
Che storia incredibile quella dei Pere Ubu. Nati a Cleveland in piena crisi economica, David Thomas e compagni presero il nome dalla pièce teatrale “Ubu Roi” dello scrittore francese Alfred Jarry convertendo il gusto per la satira, l’amore per il grottesco, l’anarchia e la sfrenata verbosità dell’opera in un post-punk che di fatto, con le sue nevrosi urbane ed industriali, andrà a creare la new wave. Chi meglio di un personaggio come David Thomas poteva portare in musica il Teatro dell’Assurdo di Jarry? Critico musicale e frontman della band proto-punk Rocket From The Tombs, amava nascondersi dietro al nome di Crocus Behemoth, prima di creare insieme al chitarrista degli stessi Tombs, Peter Laughner (morto prematuramente nel 1977 a soli 24 devastato da una pancreatite dovuta dall’abuso di alcool e stupefacenti), la sua nuova creatura. Nel 2019 The Last Goodbye avrebbe dovuto essere l’ultimo capitolo di una storia incredibile, ma Thomas è riuscito a sorprenderci ancora, facendo risorgere di nuovo la sua amata sigla e pubblicando a fine maggio il diciannovesimo album della storica band intitolato Trouble On Big Beat Street. A distanza di così tanti anni dall’esordio, ascoltare i Pere Ubu è ancora un’esperienza appagante e viva. La formazione odierna comprende, oltre allo schizofrenico leader, i due Pale Boys Keith Molinè (chitarra) e Andy Diagram (tromba), oltre a Gagarin (synth ed elettronica), Alex Ward (chitarra e clarinetto), Michele Temple (basso e piano) e Jack Jones (theremin). Il suono? Esattamente come ve lo aspettereste: schizofrenico, destrutturato, intransigente, perfettamente conforme a quello con cui ci hanno deliziato da mezzo secolo. Immortali! Nota a margine: il CD ha ben sette brani in più rispetto al vinile, non è roba da poco.
Ascolta: Love Is Like Gravity
#6
JAIMIE BRANCH Fly or Die Fly or Die Fly or Die ((world war)) (International Anthem)
Raramente ho assistito ad un cordoglio così diffuso e così sentito per un’artista che, decisamente, non faceva parte del mondo musicale mainstream. E’ stato davvero un brutto colpo quello della scomparsa nell’agosto del 2022 della trombettista Jaimie Branch, non solo per la sua giovane età (39 anni) ma per il vuoto che ha lasciato in una comunità jazz, e in generale di splendida umanità, che si è creata a Chicago intorno ad un’etichetta meravigliosa come la International Anthem, incredibile fucina di nuovi e vecchi artisti che stanno dando nuova linfa al jazz. Il suo fraseggio così intenso, dovuto dalla sua esperienza su un’ampia gamma di progetti, non solo nel jazz ma anche in ambito post punk, noise, indie rock, musica elettronica e hip-hop ha sempre colpito nel segno, sia con il suo quartetto che con gli Anteloper, duo creato con il batterista/beatmaker/producer Jason Nazary. La Branch aveva appena fatto in tempo ad elaborare negli studi dell’International Anthem a Chicago il materiale registrato in aprile con il suo quartetto denominato proprio Fly Or Die (composto dal violoncellista Lester St. Louis, dal contrabbassista Jason Ajemian e dal batterista Chad Taylor) nel corso di una residenza al Bemis Center for Contemporary Arts di Omaha, in Nebraska. Fly or Die Fly or Die Fly or Die ((world war)), terzo (e purtroppo ultimo) lavoro in studio pubblicato pochi mesi fa, mostra proprio il risultato di quelle sessioni, rifinito nei dettagli dalla sorella Kate insieme agli altri musicisti coinvolti nel progetto. Nelle note di copertina c’è scritto: “Jaimie voleva che fosse un album rigoglioso, potente e pieno di vita”, ed effettivamente la visione musicale di “Breezy” risulta sempre estremamente vitale, con i ritmi latineggianti ed un uso maggiore della voce a porsi come primo passo di un cambiamento di cui, purtroppo, non avremo testimonianze. La sua passione continuerà a guidarci e a scorrere ogni volta che ascolteremo la sua straordinaria vitalità musicale. Non ci sono dubbi: Jaimie Branch ci mancherà moltissimo.
Ascolta: Take Over The World
#7
PJ HARVEY I Inside The Old Year Dying (Partisan Records)
Pochi artisti riescono ad attraversare tre decadi in maniera sempre importante reinventandosi ogni volta, mutando pelle e sconfiggendo il tempo. PJ Harvey è una di queste rare eccezioni, capace di convincere critica e pubblico ogni volta, album dopo album. Dall’esordio di Dry nel 1991 all’ultimo I Inside The Old Year Dying (che troviamo al #7) pubblicato a luglio 2023, l’artista di Bridport, nel Dorset, è stata capace di costruire un percorso netto, in crescendo. Sette anni dopo The Hope Six Demolition Project, album profondamente politico registrato alla Somerset House di Londra in varie sessioni aperte al pubblico, Polly Jean si è rimessa a nudo, con la sua voce in primo piano come non mai, al servizio di arrangiamenti scarni e oscuri, in una sorta di folk “sporco” capace di incantare e convincere. Il disco è una sorta di trasposizione in musica, tra luci ed ombre, del suo secondo libro intitolato “Orlam”, scritto grazie all’aiuto del poeta scozzese Don Paterson, ed è stato parzialmente improvvisato insieme ai produttori Flood e John Parish. Secondo PJ il cuore del disco è “la ricerca dell’intensità del primo amore e ricerca di un significato”, definendolo poi come “uno spazio di riposo, una consolazione, un conforto, un balsamo, che sembra opportuno per i tempi in cui ci troviamo”. Riferimenti letterari, luci ed ombre, ambiguità, tutto contribuisce a rendere questo album uno dei più importanti dell’anno appena trascorso, disco che abbiamo trovato non solo nella Top 10, ma spessissimo anche sul podio, di innumerevoli classifiche annuali. E per un’artista sulla breccia dell’onda da oltre 30 anni è una sorta di vero e proprio sigillo su una carriera straordinaria.
Ascolta: Prayer At The Gate
#8
RADIAN Distorted Rooms (Thrill Jockey)
Vienna, città bellissima, austera e rigorosa nella sua classicità. La capitale austriaca è la casa da quasi 25 anni dei Radian, trio formato da Martin Brandlmayr (batteria, elettronica), Martin Siewert (chitarra, elettronica) e John Norman (basso) che torna a far sentire la propria voce dopo sette anni di assenza. Il loro approccio ha marchiato a fuoco la scena europea tra elettronica e post-rock sin dalla fine degli anni ’90, grazie ad un suono che ha fatto scuola: spigoloso, cupo, definito nei minimi particolari, ricco di tensioni e silenzi. Un approccio visionario e fantasioso, quello perseguito e realizzato dai tre, che è giunto con questo nuovo Distorted Rooms ad un personale vertice compositivo. Il secondo album che vede la presenza di Siewert (e sesto in assoluto), è uno di quei dischi che va ascoltato prestando la massima attenzione perché dai solchi escono suoni spesso minimi, dal rumore dei plettri al sibilo latente di un amplificatore che i tre ristrutturano ed elaborano trasformandoli e manipolandoli a volte in modo discreto, spesso in modo più drastico. Il trio si conferma maestro nel manipolare la tensione dinamica, colpendo emotivamente pur giocando in maniera “fredda” con gli strumenti e le dinamiche dello studio di registrazione, come, ad esempio, posizionando i microfoni in maniera creativa e non convenzionale. Distorted Rooms ci consegna i Radian al massimo delle loro possibilità, un lavoro affascinante, elegante e futuristico, dove i tre, senza aver perso nemmeno un grammo di entusiasmo per la loro sperimentazione dopo quasi 30 anni di carriera, ci portano alla scoperta di nuovi universi sonori raggiungendo il meritatissimo #8 della mia playlist annuale.
Ascolta: Skyskryp12
#9
JOHN BENCE Archangels (Thrill Jockey)
Un uomo tormentato John Bence, un uomo che utilizza la musica come potente espressione emozionale e cinematografica, creando un mondo sonoro viscerale e spirituale. Compositore britannico cresciuto nella dinamica scena della musica elettronica underground di Bristol e diplomato al Royal Birmingham Conservatoire, Bence ha esordito nel 2015 con Disquiet, un 12″ pubblicato dalla Other People di Nicholas Jaar. Le emozioni suscitate da Bence erano state talmente potenti da risuonare nella sede della Thrill Jockey, pronta a metterlo sotto contratto e a pubblicare nel 2020 un ennesimo mini album intitolato Love, dove il compositore si era principalmente concentrato sul suo vissuto, ripercorrendo la difficile strada della dipendenza dall’alcolismo fino al completo (speriamo) recupero. Il suo minimalismo rigoroso, in equilibrio tra staticità e profondità emotiva, si è finalmente potuto esprimere nel corso del 2023 senza più dover agire dentro gli stretti paletti di un mini album. Il nuovo Archangels infatti, uscito a fine febbraio, trova Bence, a due anni dalla sua riabilitazione, pronto a scaricare tutto il suo arsenale sonoro per evocare uno spazio spirituale e contemplativo di enorme intensità emotiva. Una pratica compositiva edificata su note di pianoforte, ambientazioni minimaliste, arrangiamenti orchestrali, synth oscillanti, field recordings e canti gregoriani che in qualche modo si è intrecciata strettamente con quella spirituale, attraverso la quale il compositore britannico ha cercato di esprimere i suoi concetti religiosi e filosofici usando gli arcangeli come tramite verso il divino. Il risultato è un album chiaroscurale, conturbante, a tratti disturbante, da ascoltare in religioso silenzio per poter espandere il suo profondo fascino inquieto. Un disco che mi ha talmente coinvolto da inserirlo al #9, meritatamente in Top 10.
Ascolta: Sandalphon, Archangel of Malkuth
#10
ROB MAZUREK – EXPLODING STAR ORCHESTRA Lightning Dreamers (International Anthem)
Come abbiamo già detto in precedenza, non c’è dubbio che l’etichetta International Anthem di Chicago sia diventata nel corso degli ultimi anni una straordinaria fucina di nuovi talenti capaci di rivoltare come un guanto la materia jazz e rivestirla (quasi) a nuovo. Chicago è nota per essere uno dei luoghi di nascita del jazz sperimentale, d’avanguardia e creativo ma anche del post-rock negli anni ’90, ed è anche l’attuale residenza del compositore, cornettista e artista visuale Rob Mazurek che nel corso del 2023, non contento di aver pubblicato un album splendido insieme a Damon Locks come New Future City Radio, è tornato a far sentire la voce della sua Exploding Star Orchestra. Attualmente composta da Jeff Parker (chitarra), Craig Taborn (wurlitzer e synth moog), Angelica Sanchez (pianoforte), Damon Locks (voce), Gerald Cleaver (batteria), Mauricio Takara (percussioni, con Mazurek anche negli straordinari São Paulo Underground) e Nicole Mitchell (flauto), l’orchestra è stata creata da Mazurek nel 2005 per indagare sulle tradizioni musicali d’avanguardia della città. Il nuovo Lighning Dreamers, che troviamo al #10, conferma Mazurek come artista sensazionale, capace di cercare percorsi diversi e liberi di ricerca al confine di generi diversi senza dimenticare mai la tradizione, sia essa di un Coltrane d’annata o di un Miles elettrico. L’album è stato registrato nel settembre 2021 ai Sonic Ranch Studios in Texas ed è stato ispirato dai tre anni che Mazurek ha passato sul grande Rio Negro a Manaus, Brasile, dove s’incontrano i fiumi Nero e Bianco: “Laggiù è consuetudine prendere una barca fino alla linea di separazione di questi due fiumi e tuffarsi, come una sorta di affermazione del semplice fondamento che tutti noi, originari di qualche parte ‘altra’, proveniamo dallo stesso luogo… le stelle”. Tuffarsi in questo album è semplicemente un meraviglioso godimento sensoriale tra passato e futuro.
Ascolta: Future Shaman
#11
JOHN CALE Mercy (Domino)
Il gallese John Cale, noto ai più per essere stato membro fondatore di un gruppo storico come The Velvet Underground, ha sviluppato negli anni una carriera solista che lo ha portato a sperimentare con una vasta gamma di stili musicali. Vera icona, artista a tutto tondo, mirabile suonatore di viola, produttore importante (tra gli altri Nico, Happy Mondays, Stooges, Patti Smith, Squeeze, Modern Lovers, Siouxsie & The Banshees), Cale a 81 anni suonati si è messo di nuovo in discussione, mostrandosi ascoltatore interessato del suono odierno e pubblicando, ad inizio 2023, un nuovo album intitolato Mercy a sette anni dal precedente e a ben undici anni dal suo ultimo album di musica originale. A mostrare l’interesse di Cale per la musica “contemporanea” ci sono, all’interno di Mercy, le collaborazioni con Laurel Halo, Weyes Blood, Avey Tare e Panda Bear degli Animal Collective e Fat White Family. La pubblicazione del disco ha subito ritardi importanti a causa della pandemia, ed è stato ispirato da eventi attuali come la presidenza di Donald Trump, la Brexit, il COVID-19, il cambiamento climatico, i diritti civili e l’estremismo di destra. Difficile districarsi in questa ora abbondante di musica affascinante, densa e scura, proveniente dalla mente e dallo sguardo di un avanguardista navigato. Un grande ritorno che troviamo al #11.
Ascolta: Story Of Blood
#12
REVEREND KRISTIN MICHAEL HAYTER Saved! (Perpetual Flame Ministries)
In alcuni casi è normale chiedersi quanto possa influire l’esperienza personale nell’arte espressa da alcuni musicisti e quanto sia corretto scindere l’essere umano dall’artista. Kristin Hayter è un’artista poliedrica originaria di San Diego, in California, e ora residente nel New England, capace di portare in musica le proprie esperienze passate di abusi, violenza e disperazione che hanno segnato la sua esistenza nel suo progetto Lingua Ignota. Quattro album all’attivo tra il 2017 ed il 2021 in cui la Hayter ha esposto le sue ferite con un’intensità indicibile: un prolungato grido di dolore tra scorie industrial e noise di grande originalità e coinvolgimento. Già due anni fa, nell’ultimo lavoro a nome Lingua Ignota intitolato Sinner Get Ready, si intravedeva un piccolo spiraglio di luce, un’apertura verso una sorta di afflato spirituale. Questo amore per la musica sacra, per le radici musicali della sua terra insieme ad una ricerca di una sorta di redenzione attraverso i principi del cristianesimo carismatico ha portato la Hayter ad abbandonare la ragione sociale che l’ha portata al successo e a costruirsi una nuova vita personale ed artistica, rivendicando il suo nome completo e ribattezzandosi Reverend Kristin Michael Hayter. Al #12 troviamo dunque il suo “esordio” con il nuovo nome intitolato SAVED!, un accorato tentativo di raggiungere la salvezza allontanandosi dal dolore e avvicinandosi a forme musicali antiche e devozionali come spiritual, gospel, country e prewar folk. Proprio per dare un senso di antichità musicologica, la Hayter ha ridotto all’osso la strumentazione e ha volutamente degradato l’audio. Undici episodi intensi (e talvolta strazianti) di una dolorosa redenzione.
Ascolta: I Will Be With You Always
#13
ANOHNI & THE JOHNSONS My Back Was A Bridge For You To Cross (Rough Trade)
Ammetto spudoratamente che dopo l’inizio della sua carriera, ormai ben 20 anni fa, il mio entusiasmo per la musica prodotta da Antoni/Anohni si era progressivamente spento, tanto da farmi avvicinare in netto ritardo a questo lavoro a nome Anohni & The Johnsons nonostante la cantautrice newyorkese non facesse sentire la propria voce da più di 10 anni. Ritardo di cui mi sono pentito quasi subito, perché un ascolto più attento di My Back Was A Bridge For You To Cross, che troviamo al #13 della mia personale classifica, mi ha fatto ritornare in parte a I Am A Bird Now, disco che mi aveva conquistato ben 18 anni fa nel 2005. Composto ed interpretato insieme al chitarrista e produttore Jimmy Hogarth, l’album ha un approccio soul estremamente elegante, al quale Anohni affida il suo messaggio che parla di diritti civili, discriminazioni, transizioni climatiche e fisiche, in maniera diretta e intima allo stesso tempo. Messaggio chiaro sin dalla copertina, che ritrae l’iconica attivista Marsha P. Johnson. Il disco è riuscito a coinvolgermi per la sua densità e potenza emotiva, non priva di momenti sperimentali. Dieci tracce intense e vitali, un ritorno inaspettatamente convincente.
Ascolta: Scapegoat
#14
HOLY TONGUE Deliverance And Spiritual Warfare (Amidah Records)
Dopo tre EP che hanno riscosso un certo favore di critica e pubblico, gli Holy Tongue sono arrivati, a cinque anni dalla formazione, a pubblicare il primo lavoro sulla lunga distanza intitolato Deliverance And Spiritual Warfare, Il progetto è nato dall’unione tra il produttore e musicista Al Wootton e la percussionista Valentina Magaletti, italiana residente da tempo a Londra che ha all’attivo molti progetti di notevole qualità come Vanishing Twin, Moin, V/Z. Per questo lavoro ai due si sono aggiunti Susumu Mukai al basso (già sodale della Magaletti nei Vanishing Twin), Steve Beresford al pianoforte preparato e Abraham Parker e David Wootton agli ottoni. Il loro personale tentativo di unire dub e jazz suonando con un’urgenza post-punk ha colpito clamorosamente nel segno, tra gorghi ritmici, influenze funk, e venature psichedeliche e misticheggianti. Un disco ricercato e visionario (che raggiunge meritatamente la posizione #14) dove il dub viene rivestito a nuovo confermando Valentina Magaletti come una delle musiciste più preparate e ricercate in assoluto degli ultimi anni. Unica nota dolente: il formato fisico è di difficilissima reperibilità.
Ascolta: Where The Wood Is the Water Is Not
#15
THE GOD IN HACKNEY The World In Air Quotes (Junior Aspirin)
“Questo è il nostro terzo album. È un disco che risponde alle ansie del momento: ecologia, isolamento, estinzione, tecnologia, l’appiattimento della storia, la morsa sclerotica di una cultura impantanata in citazioni, riferimenti e immaginazione svuotata.” Così i The God In Hackney hanno provato a raccontare in breve The World In Air Quotes, disco (purtroppo) quasi ignorato dalle nostre parti (nonostante abbiano fan dal nome altisonante come Mike Watt o Thurston Moore) ma che ho trovato sorprendentemente interessante e coinvolgente. Il gruppo è composto dal nucleo centrale Andy Cooke, Dan Fox, Ashley Marlowe e Nathaniel Mellors, cha hanno poi ampliato la formazione includendo i polistrumentisti e compositori americani Eve Essex (Eve Essex & The Fabulous Truth, Das Audit, Peter Gordon & Love of Life Orchestra, Peter Zummo, Liturgy) e Kelly Pratt (Father John Misty, David Byrne/St Vincent, Beirut e Lonnie Holley tra i tanti). Dan Fox, Nathaniel Mellors e Andy Cooke si sono conosciuti alla scuola d’arte di Oxford, a metà degli anni Novanta, senza però all’epoca fare musica insieme. Di fatto il gruppo esiste da ben 25 anni, nato inizialmente come progetto parallelo dei Socrates That Practices Music, gruppo fondato da Cooke nel 1998 a Londra. The God In Hackney è un progetto ad ampio respiro, che pur partendo da basi art rock che ricordano a tratti alcuni gruppi progressive del passato, ingloba diversi generi musicali, dal jazz al rock, risultando eclettico e mai banale, e riuscendo a non sfociare mai nell’onanismo strumentale, anzi, intrigando con gli intrecci di voci, fiati, ritmi. Dice Dan Fox: “Lavorare con Eve e Kelly ha ampliato il nostro senso di ciò che è musicalmente possibile con The God in Hackney. Un’abilità che abbiamo acquisito alla scuola d’arte è stata quella di rimanere aperti a qualcosa di inaspettato durante il processo di scrittura, piuttosto che cercare di controllarne ogni aspetto. Fare arte è più eccitante quando non si sa con precisione cosa succederà”. Ed è proprio l’inaspettato ad essere senza dubbio uno dei segreti di questo album intrigante che troviamo al #15.
Ascolta: In This Room
#16
JULIE BYRNE The Greater Wings ( Ghostly International)
Sveliamo ora la posizione #16. In un mondo musicale che sembra girare ad una velocità vorticosa, la cantautrice di Buffalo (New York) Julie Byrne si è presa un lungo tempo per comporre e registrare il suo terzo lavoro. Se il precedente Not Even Happiness nel 2017 era piaciuto a molti, sono sicuro che lo stesso succederà con questo The Greater Wings che appare anche più saldo e maturo del già ottimo predecessore. Il suo folk psichedelico e orchestrale aggiunge un tocco atmosferico di synth al suo riconoscibile fingerpicking, per rendere ancora più maturo un lavoro che colpisce per la profondità degli arrangiamenti e le splendenti aperture melodiche. La scomparsa del suo fedele produttore e collaboratore di sempre Eric Littmann a soli 31 anni, ha contribuito a dilatare i tempi di uscita del disco, anche se l’unica canzone composta dopo la prematura scomparsa del compagno è la conclusiva e struggente “Death Is The Diamond”. Una malinconia di fondo che avvolge come una rinfrescante brezza marina, ma capace di trasformarsi in luce di accecante bellezza come nella “Summer Glass” che potete ascoltare qui sotto. Con questo album la Byrne ci offre la sua versione più convincente e coinvolgente, mostrando un cantautorato maturo e personale.
Ascolta: Summer Glass
#17
MATANA ROBERTS Coin Coin Chapter Five: In the Garden (Constellation)
Quanto prodotto negli ultimi anni dalla sassofonista e compositrice Matana Roberts è estremamente importante non solo musicalmente ma anche dal pinto di vista culturale e sociale. La sua visione musicale è estremamente affascinante ed è incredibile la quantità di idee messe in mezzo dall’artista nella saga Coin Coin, pubblicata dalla Constellation e arrivata quest’anno al suo quinto capitolo. La sassofonista di Chicago con i suoi fidi e numerosi collaboratori (tra cui doveva esserci anche la compianta Jaimie Branch di cui abbiamo parlato in precedenza e citata nelle note di copertina), ha messo in piedi una potente visione sonora che attinge a piene mani non solo dalla storia della sua famiglia, ma in generale dalla storia della schiavitù degli afroamericani, riscoprendola e mettendola in primo piano. Il suo viaggio antropologico-musicale prosegue con l’uso sapiente del sax, della voce e dei synth analogici, in sedici tracce che alternano jazz più classico ad esplosioni free, spoken word e cori antichi, improvvisazioni noise e bordate elettroniche mettendo di nuovo una donna al centro della narrazione e confermandosi ancora una volta (pur nella non facile fruizione del disco), come uno dei personaggi cardine della musica di avanguardia contemporanea. Ascoltate qui sotto il trittico “We Said / Different Rings / Unbeknownst” che apre Coin Coin Chapter Five: In The Garden, e non faticherete a capire perché il disco merita la posizione #17.
Ascolta: we said / different rings / unbeknownst
#18
THE NECKS Travel (Northern Spy)
Al #18 troviamo gli australiani Lloyd Swanton (basso), Chris Abrahams (piano e tastiere) e Tony Buck (batteria). I tre sono tornati ad inebriarci con un nuovo (stavolta doppio) album a nome The Necks. Un album come sempre splendido intitolato Travel e formato da quattro lunghe tracce. Una vertigine, un saliscendi emotivo, un abbandonarsi al flusso musicale inscenato dai tre, tra mimimalismo e jazz, improvvisazione e rapimento emotivo, con inserimenti di battiti elettronici per aumentare la tensione. I brani sono stati registrati durante le loro consuete improvvisazioni live in studio alternando piano e Hammond, suggestioni elettroniche e pause ad effetto, un flusso sonoro che non aggiunge altro a quello già prodotto dal trio ma che allo stesso tempo non smette di emozionare e coinvolgere. I quattro lunghi brani di cui è composto il disco vorremmo che non finissero mai, portandoci davvero a fare un viaggio in un’altra dimensione, e lasciandoci, una volta terminato l’ascolto, con il desiderio di ripartire al più presto.
Ascolta: Bloodstream
#19
ME LOST ME RPG (Upset The Rhythm)
C’è un sottile filo che unisce la musica di Jayne Dent aka Me Lost Me a quella di Richard Dawson. Non è solo l’aria condivisa di Newcastle Upon Tyne, ma un modo curioso, giocoso ed in qualche modo distopico di declinare la musica folk, substrato comune ai due. Nato come progetto solista nel 2017, dopo due album in crowdfunding, Arcana (2018) e The Good Noise (2020), e l’EP The Circle Dance (2021), Me Lost Me è diventato una sorta di collettivo che prevede la collaborazione regolare dei musicisti jazz Faye MacCalman al clarinetto e John Pope al contrabbasso. Dai club folk di Sheffield all’università di belle arti a Newcastle, Jayne Dent ha costruito, grazie alla sua curiosità e al suo talento, una modalità compositiva capace di unire la tecnologia di studio e l’elettronica al songwriting tradizionale. Una combinazione di folk tradizionale, field recordings, effetti elettronici, art pop, improvvisazione, che colpisce nel segno, soprattutto in questo album intitolato RPG, che porta la musica tradizionale a cavallo del tempo dalle tradizioni arcaiche dei racconti popolari fino al futuro, senza paura ma con una giocosa curiosità. Il disco è stata una delle più piacevoli scoperte dell’anno, capace di far innamorare sia chi ama la tradizione sia chi preferisce la sperimentazione: una serie di paesaggi sonori metà strada tra antico e moderno, con la una magistrale miscela di radici folk, elettronica e arrangiamenti intriganti, resa ancora più solida e convincente da una voce ricca e piena di sfumature che, anche a livello lirico, riesce a bilanciare elementi ambientali surreali e fantastici con ambienti ordinari e quotidiani. Ascoltate lo splendido loop di synth arricchito da clarinetto, registrazioni di uccelli che cinguettano e percussività rotolante di una “Heat!” che a tratti ricorda la migliore Björk, Una splendida sorpresa e un disco di tale profondità sonora da renderlo di difficile collocazione all’interno di un genere definito ma perfetto per occupare la posizione #19.
Ascolta: Heat!
#20
THE DWARFS OF EAST AGOUZA High Tide in The Lowlands (Sub Rosa)
Maurice Louca: compositore egiziano, manipolatore di beats e tastierista, appassionato di musica mediorientale e free jazz. Sam Shalabi: chitarrista canadese compositore di moltissime colonne sonore di film indipendenti e membro fondatore dei Shalabi Effect e Land Of Kush. Alan Bishop: contrabbassista e sassofonista americano, appassionato di tradizioni mediorientali e fondatore dei Sun City Girls. Nel 2012 ad Agouza, distretto di Giza, periferia del Cairo, questi tre musicisti si sono trovati a condividere lo stesso appartamento, decidendo di unire le proprie forze creando un nuovo progetto che potesse sposare in qualche modo la tradizione musicale del medio oriente, con la psichedelia e l’improvvisazione. Così sono nati i The Dwarfs Of East Agouza, che già dal loro album di esordio intitolato Bes ci hanno preso per mano portandoci in un viaggio tra dune desertiche ed asteroidi siderali, una sorta di psichedelia etnica che lascia molto all’improvvisazione e al flusso emozionale dei musicisti, come nella miglior tradizione del genere. Nel quarto album del trio intitolato High Tide In The Lowlands che troviamo al #20, i musicisti in due lunghe tracce continuano e completano questo viaggio incredibile mescolando tradizioni mediorientali, jazz, psichedelia, folk, con una capacità di improvvisazione che non ha eguali. L’ennesimo flusso lisergico ed estatico, un’esperienza magica ed immaginifica da vivere aprendo mente ed orecchie.
Ascolta: The Sprouting of the 7th Entertainment
#21
MEG BAIRD Furling (Drag City)
Al #21 troviamo una delle voci più belle, eleganti ed incontaminate del panorama musicale odierno. Una voce malinconica, inebriante e ipnotizzante quella di Meg Baird, che molti (spero) possano ricordare come membro di un gruppo di folk psichedelico chiamato Espers. Ma la californiana ha anche collaborato con successo con l’arpista Mary Lattimore ed è batterista (!) e cantante nell’interessante progetto Heron Oblivion. Come solista, la Baird ha interrotto ad inizio anno un silenzio che durava da ben otto anni (il precedente Don’t Weigh Down The Light risale al 2015) facendo uscire un nuovo album intitolato Furling. Il disco, pubblicato dalla Drag City, mostra l’unica superstite del progetto Espers (Greg Weeks ormai è un professore d’inglese a tempo pieno mentre di Brooke Sietinson si sono perse le tracce) cambiare leggermente registro, mettendo il pianoforte al centro delle sue composizioni. La Baird espande la sua tavolozza e distribuisce le sue molteplici sfaccettature in uno dei suoi lavori più ricchi, co-producendo e registrando l’album con Charlie Saufley, suo partner e compagno di band negli Heron Oblivion. Il folk si tinge ora di psichedelia, ora di jazz, ammaliando e convincendo grazie ad un suono più corposo. Anche a distanza di quasi un anno, visto che è stato pubblicato a gennaio, Furling è rimasto uno degli album più convincenti di questo 2023. Ascoltate “Will You Follow Me Home?” per credere.
Ascolta: Will You Follow Me Home?
#22
SHIRLEY COLLINS Archangel Hill (Domino)
Continuiamo la nostra classifica arrivando al #22, posizione che ci consente un’immersione nello splendido mondo sonoro del folk britannico. nello specifico incontriamo una delle figure cardine del movimento folk revival inglese degli anni ’60 come Shirley Collins. La sua voce ipnotica è tornata a farsi sentire nel 2016 ed il suo ritorno sulle scene è stato una specie di miracolo. L’allora 81enne aveva registrato in maniera diretta, tra le mura della sua residenza nel Sussex, canzoni della tradizione britannica, americana e cajun, interpretate con la sua perizia ed il suo carisma. Nel 2023, al compimento del suo 88° anno di età, la Collins è ancora una ragazzina quando si trova accanto alle canzoni che canta, come l’intensa “High And Away” scritta dal suo collaboratore di lunga data Pip Barnes. Canzoni di cui è stata custode nel corso di una vita luminosa come quella descritta da una qualsiasi delle sue ballate. Gli antenati di molte delle sue canzoni erano per lo più coetanei quando furono portati alla ribalta e registrati negli anni Cinquanta e Sessanta, e Shirley rivendica ora lo status di anziana e portatrice di tradizione come quando le fecero da mentori quando era una ragazza del Sussex dagli occhi vispi e dai capelli ricci. Ma l’incantesimo di Shirley non è solo quello di evocare canzoni, è anche quello di evocare la terra. C’è una musa tranquilla nel nuovo Archangel Hill (titolo scelto in onore del patrigno di Shirley, che così aveva chiamato Mount Caburn, un punto di riferimento vicino alla casa dei Collins a Lewes), che profuma del gesso delle South Downs, il paesaggio che si è saldato nelle ossa di ogni generazione dei Collins, quella catena di colline calcaree nel sud dell’Inghilterra che si estendono dall’Hampshire, attraversano il Sussex e culminano nelle scoscese scogliere della Beachy Head. Il disco è un insegnamento crepuscolare, un promemoria della fine dei tempi da parte di Shirley, che ci ricorda quanto sia importante rendere omaggio alle generazioni precedenti.
Ascolta: High And Away
#23
ANNA B SAVAGE in|FLUX (City Slang)
La londinese Anna B Savage nello straordinario esordio intitolato A Common Turn aveva messo a nudo le vulnerabilità di ognuno di noi, più o meno nascoste, e le aveva espresse con sussurri e potenza in 10 tracce composte da disarmante sincerità, tensioni e rilasci, ansie e catarsi. La recensione che ho avuto il privilegio di scrivere per OndaRock terminava così: “Non possiamo sapere come proseguirà la sua carriera, fare previsioni in campo musicale è sempre estremamente difficile e spesso si va incontro a brutte figure, ma questo è senza dubbio un esordio ammaliante”. C’era dunque una giustificata e alta aspettativa per il secondo lavoro della cantautrice britannica dopo l’uscita lo scorso anno di un EP intitolato These Dreams. Fortunatamente i dubbi della vigilia sono stati dissipati dalla pubblicazione di in|FLUX, che troviamo al #23. L’atteso ritorno della Savage ha confermato tutto quello che di buono si era detto sul suo conto. Stavolta a dare man forte alla songwriter c’è Mike Lindsay (Tunng) che la porta per mano come e più della precedente collaborazione con William Doyle ad un uso sapiente dell’elettronica. Anche qui, come nell’esordio, troviamo una disarmante sincerità, una vulnerabilità che si trasforma in una evidente e subitanea empatia. Troviamo di nuovo, ancora più consapevole, quel cambio di passo all’interno delle canzoni capace di stupire, l’alternanza tra momenti di quiete e quelli di intensità emotiva assoluta. In più c’è una nuova consapevolezza di artista e di essere umano che colpisce e convince. Una straordinaria conferma.
Ascolta: The Ghost
#24
YO LA TENGO This Stupid World (Matador)
Il 2023 è stato l’anno che ha visto un grandissimo e gradito ritorno. Il tempo passa ma gli Yo La Tengo, che hanno corso contro il tempo per quasi quattro decenni, continuano clamorosamente a resistere al ticchettio dell’orologio. L’ultima vittoria del trio si chiama This Stupid World, un’incantevole serie di canzoni riflessive che sono state prodotte in proprio, visto che il giudizio di Ira Kaplan, Georgia Hubley e James McNew è abbastanza solido e collaudato da mantenere alti gli standard della band e abbastanza agile da poter creare cose nuove. Alla base di quasi tutti i brani del nuovo album c’è il trio che riesce a suonare quasi in presa diretta, dando al tutto un’impressione di immediatezza, mantenendo i loro classici ritmi ipnotici. Il tempo continua a scorrere e noi continuiamo a cercare di fare qualcosa per evitarlo, una dichiarazione provocatoria ma chiara che suggerisce la volontà di combattere contro le avversità. Questo realismo porta al risoluto ottimismo del brano di chiusura di This Stupid World, “Miles Away”, che vede il passare del tempo e le variabili impazzite della vita come cose da affrontare piuttosto che come motivi per disperarsi. “You feel alone / Friends are all gone,” canta dolcemente la Hubley, “Keep wiping the dust from your eyes”. Un grande ritorno di una delle band più amate dell’indie rock a stelle e strisce che sorprendentemente è arrivato addirittura in cima alla classifica annuale di un magazine dedicato alla musica di avanguardia come il britannico The Wire. Per noi è stato in ogni caso uno splendido ascolto che si posiziona al #24.
Ascolta: Miles Away
#25
THE MURDER CAPITAL Gigi’s Recovery (Human Season)
Ormai non c’è dubbio che se si parla di una certa (nuova) scena chiamata post punk (ma sarebbe quasi più centrato chiamarla post-post-punk) associata all’Irlanda, il primo nome che viene a mente è quello dei Fontaines D.C. E non potrebbe essere altrimenti visto il successo e la qualità mostrata dai ragazzi di Dublino nei loro tre album pubblicati. Ma con l’uscita del secondo lavoro i The Murder Capital capitanati dal cantante James McGovern hanno dimostrato che in quanto a profondità ed emotività non vogliono rimanere affatto sullo sfondo della scena irlandese. Già dall’esordio When I Have Fears nel 2019 avevano tracciato delle coordinate ben precise: chitarre lancinanti e più abrasive dei concittadini alternate a momenti riflessivi e drammatici. Al posto di inflazionare il mercato, i dublinesi si sono presi qualche anno di pausa per lasciar sedimentare nuove suggestioni sonore e iniziare un percorso che dall’oscurità dell’esordio potesse passare verso nuove tracce meno urgenti e più profonde e consapevoli. Una specie di percorso di “guarigione” evidente già dal titolo del nuovo lavoro: Gigi’s Recovery che trovate al #25. Un disco più introspettivo, ma senza dimenticare la capacità di sfornare ritornelli da cantare a squarciagola. Le canzoni hanno una notevole profondità emotiva, e un fascino profondo che possiamo trovare anche negli elementi sghembi che amano inserire anche nei momenti apparentemente più lineari. Bravissimi.
Ascolta: A Thousand Lives
#26
P.G. SIX Murmurs & Whispers (Drag City)
Qualche mese fa la Amish Records, etichetta discografica di Brooklyn che opera dal 1996 in diversi ambiti musicali, dall’avant rock all’outsider folk, dal free jazz all’elettronica sperimentale, ha ristampato Parlor Tricks And Porch Favorites, album che nel 2001 aveva rivelato al pubblico il talento di Pat Gubler, nascosto dietro al moniker di P.G. Six. Un folk psichedelico che si inseriva perfettamente in una sorta di revival dell’epoca (che portò alla ribalta artisti come Devendra Banhart), e che si affacciava spesso e volentieri sulle coste britanniche (Fairport Convention, Bert Jansch, Anne Briggs). Quasi inaspettatamente. ben 12 anni dopo il suo ultimo lavoro solista, ecco che il polistrumentista ritira fuori la sigla P.G. Six che appare in bella vista sulla bucolica copertina di un nuovo album intitolato Murmurs & Whispers, uscito il 1 settembre per la benemerita Drag City. I mormorii e sussurri di un artista tornato in punta di piedi, che apre le danze suonando un’arpa celtica Triplett 34 corde modello fine anni ’80 con un’ intensa sensibilità, facendoci capire già dalle prime note che stiamo per entrare in un luogo completamente fuori dal tempo. Dopo gli arrangiamenti elettrici dei precedenti album, Gubler fortunatamente ha deciso di tornare a comporre quello che gli riesce meglio: canzoni capaci di contenere silenzi evocativi, come dimostra la commovente e suggestiva “I Have A House” che potete ascoltare qui sotto. Il disco, registrato in un ambiente bucolico nelle campagne a nord di New York da Mike Fellows, ci fa ritrovare a distanza di tanti anni il talento speciale di Pat Gubler nel creare suoni terreni con aspirazioni trascendenti. Murmurs & Whispers è un album breve ma di grande intensità emotiva, così empatico e fuori da ogni rotta commerciale da risultare (paradossalmente) incredibilmente attuale e da meritare la posizione #26.
Ascolta: I Have A House
#27
SPARKLEHORSE Bird Machine (Anti-)
Incredibile pensare che sono passati ormai tredici anni da quando Mark Linkous ha deciso di andarsene definitivamente da un mondo nel quale stava sempre più scomodo. Il testamento sonoro che ci ha lasciato Mark, nascosto dietro al moniker di Sparklehorse, è però di inestimabile valore. A partire dall’album di esordio, un caleidoscopio sonoro dalla copertina apparentemente gioiosa ma in realtà un po’ inquietante chiamato Vivadixiesubmarinetransmissionplot, un nome tanto improponibile quanto (quasi) impronunciabile: 16 brani diversi per lunghezza e ispirazione, ma tutti permeati di quella malinconia di fondo che segnerà l’opera omnia di Linkous. Fragilità e oscurità sono state spesso considerate sinonimi di Sparklehorse e, con un po’ di frustrazione da parte di Mark, la storia di come il suo cuore si sia brevemente fermato dopo un’overdose accidentale durante il tour del 1996 è diventata parte della sua mistica dell’abisso. Il fratello minore di Mark, Matt, insieme alla moglie Melissa ha setacciato scatole di nastri e CD per catalogare e conservare alcune registrazioni inedite e dare vita ad album postumo, intitolato Bird Machine. Mark aveva già deciso sia il titolo che la lista dei brani, che il fratello ha ritrovato in appunti scritti a mano. Alcune canzoni erano prossime al completamento, mentre altre avevano bisogno solo di un attenta e mai invasiva correzione, l’aggiunta di una sottile strumentazione e di voci di accompagnamento in alcuni casi, un altro attento mixaggio in altri, per prendere il volo. Qualcuno ha messo il disco nel calderone delle ristampe, ma ho voluto inserirlo al #27 tra gli album del 2023 per la qualità delle tracce e per la felicità di aver ritrovato quel mix di ironia, meraviglia e depressione che il suo talento ci ha saputo donare.
Ascolta: Falling Down
#28
UPPER WILDS Jupiter (Thrill Jockey)
Non è mai facile mescolare rumore e melodia. Bisogna conoscere bene i materiali di partenza e miscelarli con grandissima cura nelle dosi corrette perché il rischio che il risultato finale possa esplodere in malo modo è sempre altissimo. Ma quando l’alchimia funziona è sempre un piacere incredibile per le orecchie, come possono dimostrare le discografie di Hüsker Dü, Sugar o Dinosaur Jr. Dan Friel, cantante, chitarrista e compositore elettronico di Brooklyn, ha passato molti anni ad affinare le sue capacità chimiche, prima con i Parts & Labor poi come solista, per poi creare gli Upper Wilds, progetto che condivide con il bassista Jason Binnick e il batterista Jeff Ottenbacher. Se il noise pop e in generale il perfetto equilibrio tra cataclismi sonori e orecchiabilità è la vostra cup of tea, il consiglio è di non perdere assolutamente il quarto album degli Upper Wilds intitolato Jupiter, disco breve ma estremamente intenso che tra melodie post hardcore ed effetti di chitarra densi e selvaggi si fa strada sempre più a fondo nella nostra galassia arrivando al #28 della nostra classifica. Il concept, se vogliamo chiamarlo così, poteva anche dare luogo a banalità clamorose: grandiose narrazioni interstellari e le storie di varia umanità che sembrano quasi sparire di fronte a un universo che sembra in continua espansione. Invece la chitarra trascinante e la voce melodica di Dan Friel, il basso roboante di Jason Binnick e la batteria incessante di Jeff Ottenbacher hanno dato vita ad una piccola epopea memorabile.
Ascolta: 10’9″
#29
BIG | BRAVE Nature Morte (Thrill Jockey)
Dopo le ultime sperimentazioni in ambito dark folk insieme ai compagni di etichetta The Body, nel corso del 2023 sono tornate le sonorità ossessive, pesanti e distorte dei Big|Brave, trio composto da Robin Wattie (chitarra e voce), Mathieu Ball (chitarra) e la nuova arrivata Tasy Hudson (batteria). Loro si collocano in quel nebuloso spazio tra il metal e la sperimentazione, alternando una schiacciante e drammatica pesantezza con una leggerezza eterea e meditativa, in una modalità che pochi dei loro colleghi riescono a percorrere con successo. A fine febbraio è uscito il loro sesto lavoro in studio intitolato Nature Morte, il primo dopo il passaggio dalla Southern Lord alla Thrill Jockey. I tre sono riusciti a colorare di inquietudine le canzoni della loro natura morta, creando una sensazione di bellezza in decadimento, accompagnata da accordi sospesi in una quiete contemplativa. L’album, che troviamo al #29, esplora la follia della speranza, le conseguenze del trauma e spesso si concentra sulla sottomissione della femminilità in tutte le sue pluralità. Robin Wattie ha parlato così del disco: “È violento e terribile. È schiacciante e allarmante. È catastrofico e scoraggiante”. Le sei tracce in scaletta sono dilatate ed esplorano il pericoloso crocevia tra ambient, metal sperimentale e avant-rock, evolvendosi in un mondo dove l’elettricità si sparge in bordate improvvise. La voce straziante di Wattie è tagliente, spettrale, ottundente, ma l’aggressività riesce talvolta a placarsi in lussureggianti oasi meditative. Un centro pieno quello del trio canadese.
Ascolta: Carvers, Farriers And Knaves
#30
GOLD DIME No More Blue Skies (No Gold)
Qualche anno fa avevamo già parlato della batterista e cantante Andrya Ambro e del suo interessante e scorbutico approccio alla no wave che l’aveva portata alla formazione del duo Talk Normal insieme alla chitarrista Sarah Register. Le due avevano fatto in tempo ad incidere un paio di album prima di sciogliersi definitivamente. Con la creazione di un nuovo progetto chiamato Gold Dime, la Ambro aveva deciso di portare avanti quanto prodotto con Talk Normal, riducendo leggermente l’aggressività della proposta ma aumentandone l’approccio scuro ed industriale già dall’ottimo debutto intitolato Nerves. Con No More Blue Skies la ragione sociale Gold Dime è approdata al terzo capitolo dove, insieme all’intensa forza percussiva e vocale della Ambro, troviamo il basso di Ian Douglas-Moore, la chitarra di Brendan Winick, il sax contralto di Jeff Tobias, quello alto di Kate Mohanty e la viola e violino di Jessica Pavone. Un gruppo affiatato nel riprendere i tipici canovacci del noise-rock di stanza nella Grande Mela, riducendo la potenza rispetto al precedente My House ma ampliandone la tavolozza sonora e mantenendo intatta una sorta di energia primordiale che è la forza propulsiva delle sette tracce di cui è composto un album inaugura la mia classifica al #30. Con questo nuovo album Andrya Ambro è rimasta fedele a un suono ormai definito e consolidato, spingendosi allo stesso tempo verso un ampliamento della propria tavolozza sonora, completata da testi astratti ma emozionanti. Se non vi siete avvicinati ancora alla musica di Gold Dime questo è il momento giusto per farlo, se invece già siete entrati nel suo scuro mondo, No More Blue Skies non potrà che appagare i vostri padiglioni auricolari.
Ascolta: We Lose Again
#31 - #50
31. CERAMIC DOG: Connection (Yellowbird)
32. WEDNESDAY: Raw Sat Good (Dead Oceans)
33. VANISHING TWIN: Afternoon X (Fire Records)
34. KY: Power Is The Pharmacy (Constellation)
35. AROOJ AFTAB, VIJAY IYER, SHAHZAD ISMAILY: Love In Exile (Verve)
36. SWANS: The Beggar (Mute)
37. THE BLACK DELTA MOVEMENT: Recovery Effect (Fuzz Club)
38. MATS GUSTAFSSON: Hidros 9 Mirrors (Trost)
39. AKSAK MABOUL: Une Aventure De VV (Songspiel) (Crammed Disc/Made To Measure)
40. SQUID: O Monolith (Warp)
41. WATER FROM YOUR EYES: Everyone’s Crushed (Matador)
42. LONNIE HOLLEY: Oh Me Oh My (Jagjaguwar)
43. ELEPHANTINE: Moonshine (Northern Spy)
44. EMMA TRICCA: Aspirin Sun (Bella Union)
45. SUFJAN STEVENS: Javelin (Asthmatic Kitty)
46. THE WAEVE: The Waeve (Transgressive)
47. VONNEUMANN: Johnniac (Ammiratore Omonimo)
48. BEX BURCH: There Is Only Love And Fear (International Anthem)
49. WILCO: Cousin (dBpm)
50. ROBERT FORSTER: The Candle And The Flame (Tapete)
OUTSIDERS:
- B.C. CAMPLIGHT: The Last Rotation Of Earth (Bella Union)
- SLEAFORD MODS: UK Grim (Rough Trade)
- KALI MALONE featuring Stephen O’Malley & Lucy Railton: Does Spring Hide Its Joy (Ideologic Organ)
- KRISTIN HERSH: Clear Pond Road (Fire Records)
- DOROTHY MOSKOWITZ & THE UNITED STATES OF ALCHEMY: Under An Endless Sky (Tompkins Square)
- THIS IS THE KIT: Careful Of Your Keepers (Rough Trade)
- MIKE COOPER: Black Flamingo (Room40)
- ZÖJ: Fil O Fenjoon (Bleemo Music)
- ALGIERS: Shook (Matador)
- JOANNA STERNBERG: I’ve Got Me (Fat Possum)
- DAMON LOCKS & ROB MAZUREK: New Future City Radio (International Anthem)
- GRIAN CHATTEN: Chaos For The Fly (Partisan Records)
- BRIGID MAE POWER: Dream From The Deep Well (Fire Records)
- GLYDERS: Maria’s Hunt (Drag City)
- NATALIE MERCHANT: Keep Your Courage (Nonesuch)
- PROTOMARTYR: Formal Growth In The Desert (Domino)
- GINA BIRCH: I Play My Bass Loud (Third Man Records)
- SALLY ANNE MORGAN: Carrying (Thrill Jockey)
- SLOWDIVE: Everything Is Alive (Dead Oceans)
- DANIEL BLUMBERG: Gut (Mute)
- HALF JAPANESE: Jump Into Love (Fire Records)
- ANDREA BELFI: Eternally Frozen (Maple Death)
- DANIELA PES: Spira (Tanca)
- BLUR: The Ballad Of Darren (Parlophone)
- BLOOD QUARTET: Root 7 (Foehn Records)
- AYA METWALLI & CALAMITA: Al Saher (Zehra)
- ROOTS MAGIC SEXTET: Long Old Road (Clean Feed)
- MARIA W HORN & MATS ERLANDSSON: Celestial Shores (B.A.A.D.M.)
- DUDU TASSA & JONNY GREENWOOD: Jarak Qaribak – جرك قريباك (World Circuit / BMG)
- JASON ISBELL AND THE 400 UNIT: Weathervanes (Southeastern)
- BLACK PUMAS: Chronicles Of A Diamond (ATO)
- MARTA SALOGNI, TOM RELLEEN: Music For Open Spaces (Hands In The Dark)
- BLONDE REDHEAD: Sit Down For Dinner (Section1)
- MODERN NATURE: No Fixed Point In Space (Bella Union)
- MITSKI: The Land Is Inhospitable And So Are We (Dead Oceans)
- BONNIE PRINCE BILLY: Keeping Secrets Will Destroy You (Domino)
- ALASDAIR ROBERTS: Grief In The Kitchen and Mirth In The Hall (Drag City)
- THE MEN: New York City (Fuzz Club)
- RAIN PARADE: Last Rays Of A Dying Sun (Flatiron)
- JONO HEYES: Beehive (Asphalt Tango)
- EVERYTHING BUT THE GIRL: Fuse (Virgin)
- billy woods & KENNY SEGAL: Maps (Backwoodz Studioz)
- AMP: Echoesfromtheholocene (Ampbase)
- SPARKS: The Girl Is Crying In Her Latte (Island)
- GOAT: Medicine (Rocket Recordings)
- DIVIDE AND DISSOLVE: Systemic (Invada)
- GLEN HANSARD: All That Was East Is West Of Me Now (Anti-)
- LONG HAIR IN THREE STAGES: The Oak Within The Acorn (NoiseWave)
- H. HAWKLINE: Milk For Flowers (Heavenly Recordings)
- KING KRULE: Space Heavy (XL Recordings)
RISTAMPE & ANTOLOGIE:
- MOONSHAKE: Eva Luna (2 LP) (Too Pure – Beggars Arkive)
- JOHN FAHEY: Proofs & Refutations (Drag City)
- AA.VV.: The Complete Obscure Records Collection (10 CD-LP) (Dialogo)
- THE DREAM SYNDICATE: History Kinda Pales When It And You Are Aligned (The Days Of Wine And Roses 40th Anniversary Edition) (2 CD) (Fire Records)
- SONIC YOUTH: Live In Brooklyn 2011 (Nugs.Net)
- DANIEL JOHNSTON: Songs Of Pain (Dan Johnston 1980-81) (2 LP) (Eternal Yip Eye Music)
- KEITH & JULIE TIPPETT: Couple In Spirit (Sound On Stone) (Discus)
- PAULINE ANNA STROM: Echoes, Spaces, Lines (4 LP-CD) (RVNG Intl.)
- THE CHILLS: Kaleidoscope World (2 LP-CD) (Fire Records)
- THE REPLACEMENTS: Tim (Let It Bleed Edition) (4 CD) (Sire – Rhino Records)