Le avventure in musica di Sounds & Grooves continuano con il 20° Episodio della 12° Stagione di RadioRock.to The Original
Un podcast che scava nel passato senza dimenticare il presente
La Radio Rock in FM come la intendiamo noi è sparita da due decenni, ma in questi 12 anni stiamo tenendo accesa una fiammella, cercando di raddoppiarla, moltiplicarla, farla diventare un faro di emozioni e qualità musicale con tutta la passione e la voglia di fare radio che nonostante tutto non ci è mai passata.
Questa è la spinta che ha sempre animato noi di radiorock.to, che per celebrare la 12° stagione abbiamo messo in campo alcune novità. A partire dall’atteso restyling del sito, al nuovo hashtag #everydaypodcast che ci caratterizza, per finire (last but not least) alla qualità della musica e del parlato che speriamo sempre sia all’altezza della situazione e soprattutto delle vostre aspettative.
Tra le suggestioni dell’opera folk di Micah P. Hinson, le meraviglie italiche dei Dead Cat In A Bag, la magia del post rock di Labradford e Bark Psychosis, il ritorno di Bill Fay e molto altro si snodano i quasi 90 minuti di questo podcast.
Download, listen, enjoy!!!
Prima di partire con questo viaggio in musica potete effettuare il download del podcast anche nella versione a 320 kb/s semplicemente cliccando sul banner qui sotto.
Iniziamo il podcast con una band che è passata dall’assolata California alla Grande Mela per incidere nei fantastici studi analogici della Daptone Records, l’etichetta che ha rilanciato in grande stile la musica soul. The Mystery Lights sono la prima band messa sotto contratto dalla Wick Records, la sussidiaria rock della Daptone, che promette di fare la stessa cosa e di ottenere i medesimi obiettivi. I Lights’ si sono gettati a cuore aperto sull’attitudine psichedelica e garage del passato rivivendola con intensa passionalità. Il gruppo capitanato da Mike Brandon sa come citare gli espliciti riferimenti senza essere mai derivativo, togliendo la polvere dallo scrigno dei ricordi con grande onestà intellettuale. Se amate le band garage degli anni ’60 e se certi fuzz chitarristici ed aperture di organo ancora vi fanno palpitare il cuore non perdeteli assolutamente. Il suono immediato e viscerale di una delle prime canzone incise dalla band,“21 & Counting”, ci trascina in un vortice temporale che fa venire inevitabilmente in mente quei gruppi degli anni ’60 e ’70 che hanno saputo unire l’istintività garage alla dilatazione psichedelica.
Nel 2012 quattro giovani musicisti incrociano le proprie strade nella prestigiosa CalArts (California Institute of the Arts) seguendo i programmi musicali di jazz e musica africana e mettendo a frutto i loro talenti ed istinti musicali sia individualmente che come quartetto. Steven Van Betten (chitarra e voce), Gregory Uhlmann (chitarra e voce), Patrick Kelly (basso) e Tim Carr (batteria e voce) crescono quindi in un ambiente di grande creatività e libertà espressiva formando i Fell Runner. Il loro album di esordio è arrivato come un lampo proprio mentre stavo compilando la classifica del 2015, sconvolgendola letteralmente. Uno dei brani più rappresentativi del disco (uscito nella sola versione in CD per la piccola etichetta Orenda Records e acquistabile esclusivamente online qui) è senza dubbio “CA-14”. Una ballata quasi tradizionale con gli strumenti che vengono quasi accarezzati fino ad un’esplosione finale estremamente emozionale. Una canzone apparentemente semplice e melodica, ma che, ad un ascolto più attento, riflette l’abilità del quartetto e spezzare il ritmo per poi ricomporlo, mentre le frasi chitarristiche sono arabeschi nervosi e frammentati di grande effetto. La complessità ritmica e compositiva di questo e di molti altri brani, fanno effettivamente ricordare, in maniera semplificata ed smussata, quanto fatto dal 1997 al 2000 dagli Storm&Stress. Il loro essere tanto lineari quanto magicamente sghembi fanno pensare proprio alla svolta sonora dei Wilco descritta in precedenza.
La songwriter australiana Courtney Barnett aveva già convinto con The Double EP: A Sea of Split Peas, ma è con il primo lavoro sulla lunga distanza Sometimes I Sit And Think…che si è confermata come artista dal grande talento compositivo, capace di esplorare sentimenti diversi con la sua voce e la sua chitarra, ora scanzonata ora dolente. Uno splendido talento melodico. Inutile dire che erano altissime le aspettative per il nuovo album, che si è materializzato da poco sugli scaffali dei negozi e che si intitola Tell Me How You Really Feel. Il disco è sincero, schietto e convincente, forse un po’ sotto al meraviglioso disco di debutto. Ma brani come “City Looks Pretty” mostrano un talento ed una scrittura notevolmente superiori alla media. Brava Courtney.
Una ventina di anni fa i The Chills non solo erano uno dei gruppi di punta del rock della Nuova Zelanda, ma avevano anche scatenato un movimento estremamente interessante di gruppi ed etichette. Martin Phillipps, leader della band dalla chitarra planante e voce cristallina decide di tornare dopo ben 19 anni di silenzio. Silver Bullets è un album che ce lo restituisce in grandissima forma. Ascoltando “Underwater Wasteland” molte band dovrebbero prendere appunti su come è possibile costruire canzoni dalle melodie e dinamiche perfette. Il 14 settembre uscirà il nuovo album dei The Chills, intitolato Snow Bound. Lo scorso anno, tramite la piattaforma Kickstarter, è stato pubblicato un documentario intitolato Martin Phillipps and the Chills, in cui si ripercorre la carriera di Phillipps e la sua battaglia contro la depressione.
Voi malcapitati che seguite i miei podcast su Radio Rock The Original conoscete bene la mia predilezione per i Flaming Lips da Oklahoma City. Wayne Coyne, Steven Drozd e Michael Ivins non hanno mai smesso di sperimentare, di cambiare pelle, di giocare a modo loro sia con il pentagramma che con tutto quello che gli ruota attorno. Questa è sempre stata (forse) la loro dannazione e (sicuramente) la nostra benedizione. Un calderone istrionico che abbracciava all’inizio la psichedelia pura, ma che non ha mai disdegnato di confrontarsi con diversi altri stili musicali. Dai giochi sul palcoscenico con le mani giganti (recentemente rubate e poi ritrovate), il supermegafono, la bolla di plastica dentro la quale Wayne Coyne si muove sul pubblico, i giochi pirotecnici, i milioni di coriandoli, fino alle sperimentazioni sul suono stesso della band con i famosi “parking lot experiments”, ovverosia 40 cassette create dal gruppo che dovevano essere suonate contemporaneamente all’interno di un parcheggio. La cosa ha talmente incuriosito Coyne (ogni volta che veniva suonata la canzone aveva una diversa riuscita, vista l’impossibilità di suonare in sincrono le cassette), da tentarla anche su disco nel 1997 con Zaireeka composto da 4 CD che dovevano essere suonati insieme.
Ultimamente l’ispirazione di Wayne Coyne e compagni sembra leggermente appannata, ma visto quante cose belle ci hanno fatto ascoltare nel corso degli anni direi che possiamo perdonargli un ultimo album non proprio all’altezza. Allora sono voluto tornare indietro fino al 1987, quando usciva il loro secondo album, e primo capolavoro: Oh My Gawd!!!…The Flaming Lips. L’album mostra un’alternanza tra garage e psichedelia, guidata con mani sapienti. Il riff trascinante ed anthemico di “Everything’s Explodin'” apre il disco come meglio non si potrebbe, con energia e fantasia, introducendoci nel loro fantastico mondo.
I The Replacements sono stati una band fondamentale nel traghettare l’hardcore verso un autentico e viscerale power rock alternativo. Nati a Minneapolis durante i primi anni ’80, hanno inscenato un meraviglioso derby cittadino a colpi di spartiti con i concittadini Hüsker Dü. Dalla loro i Replacements avevano una innata empatia capace di colpire al cuore un’intera generazione, ed il sensazionale talento melodico e la capacità di scrittura del cantante Paul Westerberg. Spavaldi e grezzi, hanno avuto l’abilità nel corso degli anni di smussare i propri angoli e di affinare il loro sound, fino a pubblicare un “uno due” micidiale che ha marchiato la storia del rock americano degli anni ’80: Let It Be (1984) e Tim (1985). Pleased To Meet Me ha l’unico torto di arrivare dopo questi due capolavori (1987), e se è meno graffiante dei due predecessori, probabilmente è un album forse più maturo nella scrittura, come dimostra il trascinante inno di “The Ledge”. Dissidi interni provocati dalla leadership sempre più marcata di Westerberg porteranno la band al collasso di li a poco, ma le loro melodie e la loro arte nello scrivere anthem trascinanti li pongono senza dubbio tra gli immortali del rock.
L’ex Pussy Galore e Royal Trux Neil Michael Hagerty insieme ai riformati The Howling Hex riprende i suoi canovacci garage e folk modellandoli come sempre in maniera geniale. Il suo album del 2016 intitolato Denver risulta essere piacevolmente conciso (appena 27 minuti) e ancora più meravigliosamente eseguito, in un unico flusso di abbandono creativo che da tempo non gli riusciva. Tra garage, psichedelia e una sorta di felice country-hardcore la chitarra di Hagerty si esibisce in un vittorioso rodeo. Il gran finale del disco è affidato a “300 Days Of Sunshine”, brano che unisce e completa tutti toni ed i suoni espressi nei 22 minuti precedenti con una precisione ed una bellezza suprema. L’album risulta piacevolmente conciso e meravigliosamente eseguito. Impossibile non amare questo pazzo scriteriato e le sue folli e geniali idee.
Grant-Lee Phillips non ha mai davvero inseguito la popolarità, ma la sua passione e visione musicale ispirata, almeno agli inizi, dal Paisley Underground e dal post punk. Insieme al socio Jeffrey Clark (entrambi provenienti da Stockton, California) hanno creato verso la metà degli anni ’80, una band chiamata Shiva Burlesque. Uno dei gruppi di culto di quel periodo, un gruppo sottovalutato e rimasto sempre nell’ombra senza mai avere avuto almeno un briciolo della popolarità avuta dai Dream Syndicate o dai Rain Parade. Una volta sciolta la band, i Grant Lee Buffalo sono stati la sua consacrazione in parte anche commerciale del suo talento di musicista. Fuzzy, l’album di esordio del trio formato insieme a Paul Kimble (basso) e Joey Peters (batteria), è uno splendido affresco di come il suo suono abbia abbandonato in parte la matrice Paisley per andare a pescare nella tradizione folk e country. Tra ballad elettriche, melodie impetuose come questa “Jupiter And Teardrop” e piccoli gioielli come la title track, l’esordio della band si rivela come un piccolo grande capolavoro, non scevro da aperte denunce politiche. Un affascinante viaggio sulle strade blu americane.
Terry Lee Hale è un grande artista underground. Nato in Texas, poi stabilitosi a Seattle negli anni Ottanta, oggi vive in Europa, e precisamente a Marsiglia. Vero outsider, capace di una carriera discografica tanto poco visibile quanto pregevole per qualità. Lui ha sempre cercato e trovato una sua via personale ed autentica, che scorre parallela alle classiche strade blu americane. Il suo ultimo album del 2016, Bound, Chained, Fettered, è stato registrato a Forlì sotto la produzione di Antonio Gramentieri, che suona anche la chitarra e la lap steel, e con la partecipazione di altri musicisti, che come Gramentieri fanno parte del “giro” Sacri Cuori, come Christian Ravaglioli alle tastiere, Diego Sapignoli alle percussioni, e Franco Neddei al synth. Basta ascoltare la title track ed il suo incedere calmo ma passionale per lasciarsi conquistare.
E se il disco di Terry Lee Hale è stato registrato in Italia, restiamo per un attimo nel nostro bistrattato stivale, teatro di ignobili atrocità politiche, sociali e musicali, ma capace di inaspettate e seducenti meraviglie. Il percorso dei Dead Cat In A Bag di Luca Swanz Andriolo giunge con Sad Dolls And Furious Flowers al suo terzo capitolo. Possiamo tranquillamente dire che la band, adesso un trio che vede insieme al leader il violinista André (Andrea Bertola) e il polistrumentista Scardanelli, ha raggiunto la completa maturità compositiva. Il disco è un viaggio nell’oscurità attraversando diverse latitudini, passando con maestria e facilità dal folk al rock, dalla musica di frontiera alle tradizioni balcaniche. I tre, insieme a numerosi e splendidi collaboratori, si destreggiano facendo l’occhiolino a Tom Waits e Calexico, ma mantenendo la propria personalità compositiva. Con la sola eccezione dell’unica cover presente in scaletta (peraltro riuscita) di “Venus In Furs” dei Velvet Underground. Per raccontare e rappresentare questo riuscito lavoro ho scelto la splendida “Promises In The Evening Breeze”, magnetica ed evocativa nel suo scuro andamento languido, raccontato perfettamente dalla voce cavernosa ed emozionale di Swanz.
Micah P. Hinson, folksinger nato a Memphis ma texano d’adozione, è ormai da anni una delle voci più interessanti del songwriting americano. Le sue liriche autobiografiche, sarcastiche e profonde, si sposano perfettamente con la sua visione cinematica e il suo modo dolcemente violento di interpretare la tradizione americana. Micah si è sempre confermato anche live come grande intrattenitore, raccontando storie della sua vita personale e della grande periferia americana, quella dove il massimo della vita è andarsi a sbronzare al bar o trangugiare un six pack davanti alla tv.
Stavolta per il suo nuovo Micah P.Hinson presents The Holy Strangers, il songwriter ha voluto creare una «moderna opera folk» dove raccontare la storia di una famiglia in tempo di guerra, andando a scandagliare i vari momenti dei vari componenti, dalla nascita ai primi amori, passando per matrimoni, figli, conflitti, morte e suicidi. «Viviamo con loro e moriamo con loro» ha aggiunto in un comunicato stampa, «seguendone le decisioni, gli errori e le bellezze attraverso tutti gli strani e gloriosi luoghi in cui la vita ci porta». Una storia ambiziosa ma raccontata quasi come fosse una colonna sonora con splendidi affreschi sonori in gran parte strumentali, che ci fanno visualizzare perfettamente la storia tra ballate country e suggestioni folk, raccontati da Micah con la sua inconfondibile voce bassa ed emozionale. L’accoppiata iniziale “The Temptation / The Great Void” è da brividi.
Un silenzio durato 30 anni. Un oblio in cui il cantautore inglese Bill Fay era caduto dal 1971, anno in cui veniva pubblicato il suo secondo album, Time Of The Last Persecution, stroncato dalla critica che di fatto relegherà il già depresso artista al di fuori del music business. Anche nel silenzio, Fay resterà nel corso degli anni artista di culto, citato spesso da personaggi come David Tibet (Current 93), Jim O’Rourke e Jeff Tweedy dei Wilco, che ha spesso cantato on stage “Be Not So Fearful”, inserendola anche nel film documentario I Am Trying to Break Your Heart: A Film About Wilco. Un giorno il produttore statunitense Joshua Henry prende il coraggio a due mani, telefona al quasi settantenne Fay, gli racconta di come grazie al papà si è innamorato della sua musica, e lo invita a registrare nuova musica.
Bill Fay si convince della bontà del progetto, accetta, ed il risultato è questo Life Is People, album che ferma il tempo, lo congela in una dimensione dove esiste solo il pianoforte e la voce forte e calda del ritrovato protagonista, accompagnato da splendidi musicisti tra ci proprio Jeff Tweedy. Fay lo ringrazia da par suo con una commovente interpretazione del classico dei Wilco “Jesus, Etc.”. Arrangiamenti raffinati, voce emozionante, poesia autentica, “This World” racconta tutta la bellezza di un ritrovamento prodigioso.
Gli incubi e sogni dei Bark Psychosis hanno ispirato il critico Simon Reynolds a coniare uno dei termini più abusati in musica negli anni ’90, “post-rock”. E se la mente quando si parla della band di Graham Sutton, va sempre a vagare nella notte dei sobborghi londinesi descritta in capitoli cinematici di rara suggestione onirica in quel tesoro nascosto chiamato Hex (1994), o ai meravigliosi singoli che lo avevano preceduti. In pochi ricordano l’inaspettato ritorno della band sul luogo del delitto 10 anni più tardi con Codename: Dustsucker’. Certo, il paragone con il predecessore era ingombrante e davvero troppo pesante, ma ecco tornare nelle foto del libretto di copertina, i paesaggi industriali urbani, desolanti e crepuscolari che avevano ispirato l’artwork di Hex. La lineup prevede un solo altro membro originario, Mark Simnett, oltre a Sutton, ma dietro ai tamburi siede Lee Harris (Talk Talk e O’Rang), altro pezzo grosso di cotanta musica immaginifica. Ascoltando “The Black Meat”, il suo arpeggio di chitarra accompagnato dal piano, e i contrappunti percussivi di Harris, è come se venissero azzerati i 10 anni di distanza, e una lacrimuccia si fa strada tremante, tratteggiando un paesaggio sonoro che provoca la catarsi dell’anima.
Un duo di Richmond composto da Carter Brown (tastiere) e Mark Nelson (chitarre, nastri e voce) chiamato Labradford ha inaugurato nel 1993 con un album meraviglioso come Prazision LP la stagione della Kranky, etichetta di culto e riferimento del genere tra elettronica e post-rock. C’è molto nei gruppi della Kranky dell’estetica post-rock codificata da Simon Reynolds e di cui abbiamo già parlato: il recupero del krautrock tedesco, del folk britannico, della psichedelia più chitarristica, dell’elettroacustica, e, più di tutto, dell’elettronica analogica e del minimalismo. I droni elettronici di Brown e Nelson sono lenti ma inesorabili, le chitarre spesso mandate in loop, i riferimenti ai Tangerine Dream molto chiari, con pochissimo rumorismo e molto ambient.
Nel successivo A Stable Reference c’è in aggiunta il basso di Robert Donne a rendere il sound più corposo e nel loro Labradford del 1998 c’è anche una drum machine, il suono che si fa più solido e la voce che non si limita a bisbigliare. La loro trance si sublima in “Midrange”, con una voce che sussurra in sottofondo, una scura linea di basso, un malinconico organo e un flauto sintetizzato che evoca paesaggi malinconici o spettrali come quello della copertina. Mark Nelson abbandonerà il progetto Labradford nel 2000 proseguendo però fino ai giorni nostri la strada inaugurata nel 1998 sotto il nome di Pan•American.
Spero abbiate gradito l’atteso restyling del sito, per questo e molto altro, un grazie speciale va sempre a Franz Andreani. A cambiare non è solo la veste grafica, ma anche la “filosofia” della podradio, con le rubriche che vanno ad integrarsi nella programmazione regolare sotto l’hashtag #everydaypodcast. Tutte le novità le trovate sempre aggiornate in tempo reale sulla nostra pagina Facebook.
Nel prossimo episodio di Sounds & Grooves parleremo di una pietra miliare del post rock americano degli anni ’90 come l’album di esordio degli Squirrel Bait. Inoltre troverete lo slow core dei Codeine, un tributo a Paul Weller, i These New Puritans, Sophia e molto altro…
Intanto se volete potete sfruttare la parte riservata ai commenti qui sotto per darmi suggerimenti, criticare (perché no), o proporre nuove storie musicali. Mi farebbe estremamente piacere riuscire a coinvolgervi nella programmazione e nello sviluppo del mio sito web.
Se volete ascoltare o scaricare il podcast, potete farlo anche dal sito della stessa PodRadio cliccando sulla barra qui sotto. Buon Ascolto
TRACKLIST
01. THE MYSTERY LIGHTS: 21 & Counting da ‘The Mystery Lights’ (Wick Records – 2016)
02. FELL RUNNER: CA-14 da ‘Fell Runner’ (Orenda Records – 2015)
03. COURTNEY BARNETT: City Looks Pretty da ‘Tell Me How You Really Feel’ (Marathon Artists – 2018)
04. THE CHILLS: Underwater Wasteland da ‘Silver Bullets’ (Fire Records – 2015)
05. THE FLAMING LIPS: Everything’s Explodin’ da ‘Oh My Gawd!!!…The Flaming Lips’ (Restless Records – 1987)
06. THE REPLACEMENTS: The Ledge da ‘Pleased To Meet Me’ (Sire – 1987)
07. NEIL MICHAEL HAGERTY & THE HOWLING HEX: 300 Days of Sunshine da ‘Denver’ (Drag City – 2016)
08. GRANT LEE BUFFALO: Jupiter And Teardrop da ‘Fuzzy’ (Slash – 1993)
09. TERRY LEE HALE: Bound, Chained, Fettered da ‘Bound, Chained, Fettered’ (Glitterhouse Records – 1977)
10. DEAD CAT IN A BAG: Promises In The Evening Breeze da ‘Sad Dolls And Furious Flowers’ (Gusstaff Records – 2018)
11. MICAH P. HINSON: The Great Void da ‘Micah P. Hinson Presents The Holy Strangers’ (Full Time Hobby – 2017)
12. BILL FAY: This World da ‘Life Is People’ (Dead Oceans – 2012)
13. BARK PSYCHOSIS: The Black Meat da ‘Codename: Dustsucker’ (Fire Records – 2004)
14. LABRADFORD: Midrange da ‘Labradford’ (Kranky / Blast First – 1996)