Ecco il diciannovesimo podcast di Sounds & Grooves per la 18° stagione di RadioRock.TO The Original
In questa nuova avventura in musica troverete un ricordo di Steve Albini ripercorrendo la sua storia di sound engineer
Eccoci puntuali con l’appuntamento quindicinale di Sounds & Grooves che per il 18° anno consecutivo impreziosisce (mi piace pensarlo) lo straordinario palinsesto di www.radiorock.to. 18 anni…siamo diventati maggiorenni!!!! A pensarci è incredibile che sia passato già così tanto tempo da quando abbiamo iniziato questa folle ma fantastica avventura. Come (credo) sappiate, la nostra podradio è nata per dare un segnale di continuità con quella meravigliosa radio del passato che molti custodiscono nel cuore e a cui ho provato a dare un piccolo contributo dal 1991 al 2000.
Sappiamo tutti benissimo che la Radio Rock in FM come la intendevamo noi è sparita da tanto tempo, ma in tutti questi anni di podcast sul web abbiamo cercato di tenere accesa quella fiammella per poi tentare di moltiplicarla, facendola diventare un faro di emozioni e qualità musicale. Perché la passione e la voglia di fare radio, la voglia di ascoltare e di condividere la musica di qualità, nonostante tutto, non ci è mai passata.
Questa creatura continua orgogliosamente a remare controcorrente, cercando quella libertà in musica che nell’etere è ormai diventata una mosca bianca, ed esprimendo con forza la passione per la condivisione, per la ricerca, per l’approfondimento. Non dobbiamo aderire ad una cieca linea editoriale che ormai spinge esclusivamente il pulsante play dei servizi di streaming, ma ci lasciamo guidare semplicemente dal nostro cuore e dalla nostra passione. Fulvio Savagnone, Marco Artico, Giampiero Crisanti, Franz Andreani, Flavia Cardinali, Francesco Cauli, Ivan Di Maro, Massimo Santori aka Moonchild, Maurizio Nagni ed io proviamo ogni giorno a coinvolgervi con i nostri podcast regolari e con le rubriche tematiche di approfondimento, sperando di farvi sentire sempre di più parte di questa fantastica avventura.
Triste che su un certo tipo di stampa si sia parlato di Albini solo in relazione alle sue produzioni di In Utero dei Nirvana o di Surfer Rosa dei Pixies. Con una storia produttiva come la sua (più di 1500 album), che comprende anche un gruppo simbolo del noise rock italiano come gli Uzeda, è il sintomo di una competenza giornalistica musicale al minimo storico. Visto che sull’Albini musicista ci siamo soffermati pochi episodi fa, in questo podcast volevo celebrare la carriera di Steve Albini come ingegnere del suono, proponendo dischi più e meno conosciuti. Il tutto, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
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E così il 7 maggio Steve Albini ci ha lasciato improvvisamente a 61 anni, appena dieci giorni prima della pubblicazione di To All Trains, il nuovo attesissimo album degli Shellac. Una botta che ha lasciato un vuoto gigantesco per tutti gli amanti del rock alternativo. Albini è stato personaggio fondamentale sia come musicista che dietro alla consolle in veste di produttore, anche se non amava definirsi così, visto che riteneva che l’uomo dietro al mixer non dovesse influenzare il lavoro creativo degli artisti. Albini, di chiara origine italiana, aveva iniziato nel 1981 a creare il suo suono tanto claustrofobico quanto dirompente con i Big Black, per continuare qualche anno più tardi con i Rapeman. Dopo lo scioglimento di questi ultimi, Albini nel 1989 decise di protestare platealmente contro l’industria discografica delle major, colpevole, secondo lui, di ingannare e sfruttare finanziariamente i propri artisti. Pur bloccandosi come musicista per qualche anno, non aveva mai smesso di regalare il suo tocco abrasivo a moltissimi artisti che lo avevano ingaggiato come sound engineer.
È quasi impossibile quantificare il suo impatto sulla musica underground come musicista e come produttore: un uomo che ha messo il suo marchio inconfondibile su una lista infinita di dischi che amiamo, grande esempio di indipendenza e una delle menti più lucide in circolazione. Di Albini ricordiamo, oltre alle meraviglie suonate e registrate, la voglia di essere totalmente indipendente, il suo rifiuto per le imposizioni e un modo di pensare estremamente tanto coerente quanto spigoloso. Molte le sue idee controverse, come quella, per esempio, che la registrazione di un disco non dovesse superare una settimana di durata.
Personaggio pressoché unico nella storia della musica rock/alternativa, pietra angolare del noise rock, era famosa la sua maniacale predilezione per la registrazione analogica (tanto da aver inserito il CD senza alcunché scritto sopra, quasi per sfregio, all’interno del vinile di 1000 Hurts dei suoi Shellac) nei suoi mitici Studio Electrical Audio di Chicago, e il famoso rifiuto di incassare le royalties sulle vendite dei dischi su cui aveva lavorato, pretendendo solo una tariffa base più alta per le major e più bassa per le etichette indipendenti. Spesso e volentieri chiedeva ai gruppi di non far comparire il suo nome nelle note di copertina dei dischi e, quando accadeva, pretendeva quasi che ci fosse scritto engineered e non produced by Steve Albini.

Paradossalmente iniziamo il podcast con un gruppo non registrato da Steve Albini (non sarebbe potuto succedere per un motivo squisitamente temporale) ma che il nostro ha amato molto visto che sono diverse le foto che lo ritraggono sul palco con indosso una loro maglietta. Sto parlando di una band di Bloomington, Indiana che sul finire degli anni ’70 si era trasferita a San Francisco venendo a contatto con un’istituzione della scena sperimentale e underground: i The Residents. Nonostante il mezzo passo falso del debutto Hard Attack (che nel 1977 aveva venduto sì e no un centinaio di copie costringendo la Island a licenziarli), i MX-80 Sound vennero accolti dalla Ralph Records di proprietà degli stessi Residents andando a formare con i signori dell’occulto, i Chrome e i Tuxedomoon il cosiddetto “quadrato di San Francisco”, formato dai quattro gruppi più importanti della scena musicale locale dell’epoca.
Bruce Anderson e i suoi compagni d’avventura pubblicarono nel 1980 questo Out Of Tunnel. L’impatto sarà molto più grande di quello dell’esordio, visto che l’album diventerà presto un disco di culto. Un vorticoso art-punk graffiato da geniali intuizioni rumoriste e dalle scorribande del sassofono suonato dal secondo chitarrista Rich Stim. In “Follow That Car” vengono fuori le influenze del gruppo (Pere Ubu su tutti) filtrate da una sensibilità e capacità di scrittura che la rendono una traccia inarrestabile, tumultuosa ed entusiasmante. Un disco ed una band importantissimi per molto alternative rock e hardcore americano negli anni a venire, come dimostrerà proprio Albini nel corso della sua carriera.

Restiamo con il piede pesante sul pedale dell’acceleratore e sempre in orbita Touch And Go. I Jesus Lizard sono stati, insieme ai Fugazi, una delle band cardine dell’hardcore negli anni ’90. Le loro nevrosi e tensioni, la loro musica sghemba, deforme, singhiozzante, rumorosa e spasmodica ha davvero coinvolto un’intera generazione. La band è nata dalle ceneri di due formazioni: i Rapeman di Steve Albini e gli Scratch Acid di David Yow. La sezione ritmica di questi ultimi, formata da David Sims (basso) e Rey Waysham (batteria), confluì proprio nei Rapeman prima di riunirsi di nuovo a Yow formando nel 1988 i Jesus Lizard con Duane Denison alla chitarra, e una drum-machine al posto di Waysham prima dell’arrivo dietro ai tamburi di Mac McNeill.
Goat è il secondo album della band, un monolite che ha fatto breccia nei cuori di moltissimi amanti di un post-hardcore al confine con il noise che non fa prigionieri. I ritmi tribali, l’energia inesauribile, i deliri vocali di Yow che compensa la sua ugola non propriamente dotata con dei feroci sproloqui che faranno tendenza rendono anche questo lavoro assolutamente importante. In “Monkey Trick” la band invoca un ritmo quasi doom sprofondando in un inferno inquietante e coinvolgente. Il disco è stato registrato naturalmente da Steve Albini che, come spesso accade, non appare nelle note di copertina dell’originale mentre come per incanto il suo nome è presente nella versione rimasterizzata uscita lo scorso anno.

I Don Caballero sono un trio creato nel 1991 a Pittsburgh, Pennsylvania dall’unione tra il chitarrista Mike Bandfield, il bassista Pat Morris e il batterista Damon Che Fitzgerald, autori di una scura e pesante via strumentale al post-punk. Con questa formazione la band ha inciso un paio di singoli prima dell’arrivo di Ian Williams alla seconda chitarra. E con questo fondamentale innesto il suono del gruppo è diventato davvero più nervoso ed agile, già dall’esordio For Respect, pubblicato nell’ottobre del 1993 con Pat Morris. Il bassista della formazione originale si prenderà una pausa per il secondo album ma tornerà qualche anno dopo per What Burns Never Returns che chiuderà la prima era della band. Naturalmente c’è Steve Albini a produrre il disco (di nuovo non accreditato nelle note di copertina) come dimostra il suono sempre incredibilmente potente.
La straripante ipertecnica batteria di Damon Che distrugge tutto quello che incontra, la lezione dei King Crimson di Red è stata assimilata ed amplificata all’ennesima potenza e Ian Wiliams è in grado di destreggiarsi sia in mezzo alle atmosfere più calme sia quando il clima sonoro intorno a lui si fa più caldo di una giungla anche se il suo apporto compositivo all’interno del disco è pressoché nullo visto che era entrato in formazione da pochissimo al momento della registrazione. Gli incastri perfetti, la potenza abbinata alla melodia dei Don Caballero saranno portati avanti dallo stesso Williams in maniera completamente differente prima con gli Storm And Stress (che ascolteremo più tardi), poi con i Battles. La title track è solo il prima traccia dell’album, perfetta per mostrare l’energia cinetica prodotta dal math-rock del quartetto.

Il podcast prosegue con un gruppo tra i meno conosciuti di quelli proposti in questi 86 minuti di musica. Buffo pensare che, pur non suonando noise rock nell’accezione più comune del termine, i Frontier fossero uno dei gruppi preferiti di Steve Albini. Non stupisce però pensare che la fusione tra dub, trance e post-rock proposta dalle chitarre di Nate Bayless e Stephen Wessley, dal basso di Kevin Ireland e dalla batteria di Michael Tsoulos abbia fatto breccia nel cuore solo apparentemente duro del nostro. Dopo un esordio autointitolato composto da una sola lunghissima traccia, il quartetto di Chicago ha pubblicato nel 1997 il suo secondo lavoro intitolato Heater. La confezione non è propriamente consueta: un’ edizione numerata confezionata in una custodia serigrafata in cartoncino apribile tenuta insieme da un bullone metallico.
Il giornalista Tom Ridge del magazine The Wire li recensì così: “Il suono è più compresso, anche se include una performance vocale, e si fa maggiore affidamento sugli effetti dub da studio. All’interno di questi confini, però, i risultati sono davvero sorprendenti”. Ed effettivamente il disco ha una sua omogeneità ed è estremamente interessante e stimolante nella sua diversità come dimostra la splendida “Now” inserita in scaletta. Naturalmente nelle scarne note di copertina non c’è traccia di Albini, e mai come in questo caso ha perfettamente senso. Il gruppo proverà più tardi la strada nella musica ambient, perdendosi però dopo un paio di anni.

C’è un altro gruppo cui sono molto legato che si è sorprendentemente riunito, anche se (per adesso) solo per una tournee culminata con una data nella loro città natale: Dayton, Ohio. I Brainiac sono stati una band fuori dagli schemi e dall’immenso potenziale che sfortunatamente non ha mai fatto in tempo ad esplodere in tutto il suo goliardico genio. Come troppo spesso accade, è stata una tragedia a porre fine alla loro storia nel momento in cui stavano raccogliendo i frutti di un duro lavoro per diventare una stella del firmamento musicale. Dopo aver limato il loro suono nei primi due lavori facendo viaggiare i brani con un’alternanza di pause e accelerazioni ricca di pathos e di tensione emotiva, la firma con la prestigiosa Touch And Go aveva dato finalmente alla band di Dayton, Ohio, la visibilità che meritava. La struttura delle canzoni di Hissing Prigs in Static Couture è isterica e psicotica, le tracce sembrano respirare e contorcersi vivendo di vita propria, abbandonando quasi completamente la tradizionale struttura almeno per una buona metà dell’album.
Lo stridulo falsetto di Tim Taylor sbraita raddoppiandosi, le nevrotiche linee di synth lanciano la chitarra in orbita, il basso pulsa vigoroso. Il disco vede tracce dalla grande tensione garage come “Nothing Ever Changes”, brano che ho scelto per essere stato registrato proprio da Steve Albini. Purtroppo il loro quarto album non vedrà mai la luce. La notte del 23 maggio 1997 Tim Taylor perse la vita in un incidente automobilistico mentre stava tornando a casa dallo studio di registrazione. I Brainiac si sciolsero con effetto immediato. Auto-ironici, stravaganti, geniali. Chissà cosa sarebbe successo se la loro storia non si fosse così drammaticamente interrotta. L’attuale formazione vede i tre membri superstiti, John Schmersal (chitarra e adesso anche voce), Juan Monasterio al basso e Tyler Trent alla batteria, con l’ausilio del chitarrista Tim Krug.

Prendendo il nome da una delle porte di Catania, la loro città natale (la porta Uzeda che collega piazza Duomo a via Dusmet, nel cuore della Catania settecentesca), i chitarristi Agostino Tilotta e Giovanni Nicosia, il bassista Raffaele Gulisano, il batterista Davide Oliveri e la cantante Giovanna Cacciola, hanno iniziato nel 1987 uno straordinario percorso artistico. Nel 1992, subito dopo la pubblicazione del primo lavoro, la strada del quintetto siciliano ha incrociato quella di Steve Albini che, attratto dalle potenzialità del gruppo, diventerà non solo amico ma anche produttore di tutti i loro lavori, fino all’ultimo Quocumque Jeceris Stabit uscito nel 2019. Nell’autunno del 1994, la band ha ricevuto l’invito a suonare nello storico programma di John Peel, negli studi radiofonici della BBC, diventando non solo l’unica band italiana (insieme alla PFM) ad aver mai preso parte alla trasmissione ma anche la prima in assoluto a vedere pubblicate le proprie Peel Sessions.
Nell’agosto del 2006, dopo un lungo periodo di silenzio e dopo l’uscita di Giovanni Nicosia, che ha ridotto il gruppo a quartetto, è uscito l’album intitolato Stella, prodotto da Albini e licenziato dalla Touch And Go, che ha confermato i siciliani come uno dei gruppi più importanti della scena rock italica, grazie al loro suono abrasivo e riconoscibile che, come purtroppo spesso accade, li ha resi più famosi all’estero che in patria nonostante i 30 anni di carriera alle spalle. Quattro musicisti capaci di costruire un’estetica sonora straordinaria e credibile tra post-hardcore e noise. Ascoltate “From The Book Of Skies” ed immergetevi nella lava dell’Etna che sovrasta la loro città natale. Agostino Tilotta ha voluto ricordare Albini così: “Il nostro rapporto con Steve è stato un incontro fra persone diverse con storie diverse da raccontare e ciascuno con la voglia e il piacere di ascoltare. E così ci siamo trovati ad avere delle cose in comune, come la passione per il suono e tante altre cose. Da Waters in poi è stato sempre lui il nostro ingegnere del suono. Per noi è una mancanza infinita. Vogliamo ricordarlo per la sua linearità, per la sua generosità ed il suo essere così unico”.

«Sfortunatamente ‘Spiderland’ è il canto del cigno degli Slint, che come tanti gruppi non hanno saputo resistere alle pressioni interne tipiche della vita di ogni band. Ma è un disco fantastico, che chiunque sappia ancora farsi coinvolgere dalla musica rock non dovrebbe perdere. Tra dieci anni sarà una pietra miliare e bisognerà fare a botte per comprarne una copia. Battete tutti sul tempo». Così scriveva profeticamente proprio Steve Albini sul Melody Maker (il più antico magazine musicale del mondo, che dal 2000 in poi si è diventato una pubblicazione esclusivamente online unendosi con il NME), parlando di uno dei dischi più importanti e influenti pubblicati negli anni novanta: Spiderland degli Slint. L’album saprà essere a suo modo estremamente influente nei suoni a venire, per il suo modo di scardinare tutti i dogmi del rock così come era conosciuto fino a quel momento: dall’abbattimento della strofa-ritornello al cantato recitativo apparentemente privo di emozione. I timbri armonici della chitarra di David Pajo, il contrappunto dell’altra chitarra di Brian McMahan (ex Squirrel Bait), la batteria ottundente e matematica di Britt Walford, l’ipnotico basso di Todd Brashear e la voce dello stesso McMahan a cucire il tutto, ora recitativa, ora isterica.
Il gruppo aveva esordito due anni prima con un album intitolato Tweez, registrato proprio da Albini, accreditato sulle note di copertina come Some Fuckin’ Derd Niffer. Il disco presenta una struttura più rumorosa e nervosa rispetto al più famoso seguito ma c’erano già tutti gli ingredienti per fare in modo che gli Slint diventassero un gruppo straordinario, anche se purtroppo durato troppo poco. Quasi tutti i titoli dei brani dell’album sono tratti dai nomi effettivi dei genitori dei diversi componenti della band: “Ron” e “Charlotte” sono i genitori del batterista Britt Walford, “Nan Ding” e “Darlene” quelli del chitarrista David Pajo; “Carol” e “Kent” quelli del cantante e chitarrista Brian McMahan mentre “Warren” e “Pat”, sono quelli del bassista Ethan Buckler. Unica eccezione “Rhoda”, nome del cane di Walford. Proprio Bucker, sostituito dopo l’esordio, è stato sempre molto polemico sul lavoro di Albini, tanto che nel commentare l’attesa ristampa di Tweez che uscirà ad ottobre ha detto: “Finalmente, dopo lunghi 35 anni, gli altri ragazzi degli Slint mi hanno lasciato mano libera e ho realizzato un mio Tweez remix. Mi sono lamentato più volte all’epoca del lavoro svolto da Albini, il suo stile di produzione ha rovinato il nostro primo album”.

Pochi artisti riescono ad attraversare tre decadi in maniera sempre importante reinventandosi ogni volta, mutando pelle e sconfiggendo il tempo. PJ Harvey è una di queste rare eccezioni, capace di convincere critica e pubblico ogni volta, album dopo album. Dall’esordio di Dry nel 1992 all’ultimo I Inside The Old Year Dying pubblicato a luglio 2023, l’artista di Bridport, nel Dorset, è stata capace di costruire un percorso netto, in crescendo. A fine 1992, Polly Jean varca la soglia del Pachyderm Recording Studio insieme a Robert Ellis (batteria) e Steve Vaughan (basso) per registrare il secondo (ed ultimo) album del trio che si intitolerà Rid Of Me.
Dietro al mixer, pronto a registrare le 14 ruvide tracce di cui è composto l’album, c’era proprio Steve Albini, la cui produzione, come sempre, è stata interpretata in maniera controversa. Alcuni critici hanno giudicato la registrazione troppo dura, minimale e grezza, capace di sotterrare la voce di PJ, mentre per altri i suoni scelti erano semplicemente la corretta incarnazione acustica dei testi tormentati della cantautrice del Dorset. In ogni caso la Harvey è sempre stata soddisfatta di quel lavoro definendolo come “il più vicino possibile a quello che potevo ottenere in quel momento”. La “Dry” inserita in scaletta mostra l’abilità di Albini nel catturare la profondità del suono live della band lavorando velocemente e registrando il trio al completo in una sola sessione, abilità che PJ aveva apprezzato nell’ascolto di Surfer Rosa dei Pixies 5 anni prima…

Visto che li abbiamo appena nominati, parliamo proprio di una delle band più influenti a cavallo tra gli ’80 e i ’90. I Pixies di Frank Black e Kim Deal hanno saputo strizzare l’occhio ad un certo passato post-punk aprendo anche nuove strade per quello che sarà un certo tipo di power rock aperto all’hardcore e a mille altre soluzioni. Un tipo di songwriting per l’epoca davvero rivoluzionario che combinava garage, hardcore, surf e pop. Surfer Rosa, uscito nel 1988, è stato il loro esordio sulla lunga distanza, un album prodotto da Steve Albini, che riusciva a mescolare perfettamente i ritmi spasmodici e le distorsioni con le aperture melodiche ed i ritornelli pop. Albini ha detto: “Surfer Rosa è stato uno dei primi dischi a cui ho lavorato in cui non conoscevo nessuno prima di iniziare. Ero piuttosto inesperto e credo di essere stato un po’ troppo ambizioso nell’insinuare la mia personalità in quel disco. Ho suggerito alla band di adottare cose che non erano nella loro natura. L’esempio più ovvio sono i piccoli frammenti di conversazione tra una canzone e l’altra. Era una specie di espediente a cui ero affezionato all’epoca. È stata una delle tappe fondamentali per lo sviluppo della mia filosofia di registrazione, che consiste nel cercare di non essere una presenza nel disco.”
Un’alternanza di dolcezza e aggressività che verrà premiata da un grande successo di pubblico e critica. L’album si piazzerà al numero 2 della UK Indie Chart la settimana successiva dell’uscita, e rimarrà per ben 60 settimane in classifica. “Gigantic”, cantata dalla bassista Kim Deal e scritta dalla stessa Deal insieme a Francis Black è il perfetto specchio dell’alternanza tra leggerezza e rumorosità che ispirerà tantissimi gruppi tra cui i Nirvana. La traccia è stata utilizzata nella campagna pubblicitaria di Apple per l’iPhone 5s nel 2014 nel 2014. “La mia canzone preferita di quel disco è Gigantic. Il modo in cui Kim esprime la sua voce… la sua personalità è così forte e la sua voce è così bella e particolare. Ha una delle voci migliori che abbia mai sentito. Con questo non intendo solo dire che canta in modo intonato: c’è un carisma e il suo entusiasmo per la musica traspare dal suo canto. La descrizione migliore che potrei darne è che sembra contemporaneamente che stia sorridendo e alzando le sopracciglia quando canta.”

Nel 1989, la tensione creativa tra Deal e il leader dei Pixies, Black Francis, che aveva animato e illuminato gran parte dei primi lavori della band, cominciava già a sfociare in risentimento e rancore. Mentre il ruolo di Deal nella band cominciava a diminuire gradualmente, e scoraggiata dall’esplorare il proprio talento di compositrice con i Pixies, la grintosa bassista del Midwest cominciava già a vagliare altre prospettive. Una di queste era una collaborazione pianificata con la collega Tanya Donnelly, firmataria della 4AD e dei Throwing Muse, riappropriandosi del nome che Kim e la sua gemella identica Kelley avevano usato per esibirsi durante la loro giovinezza nella classe operaia di Dayton, Ohio: The Breeders.
Incaricati dalla 4AD di registrare il loro debutto l’anno successivo, Deal e Donnelly reclutano Josephine Wiggs e Britt Walford (rispettivamente da The Perfect Disaster e Slint) per completare la formazione del progetto. Registrato in soli dieci giorni a Edimburgo, Pod viene accolto calorosamente dalla critica ma largamente ignorato dal pubblico. Deal continuerà a lavorare con i Pixies fino all’acrimonioso scioglimento della band nel 1993, lo stesso anno in cui riformerà nuovamente i Breeders, senza Donnelly ma questa volta con la gemella Kelley di nuovo in azione, registrando quello che sarà l’album più amato, Last Splash, e che rappresenterà la svolta commerciale e mediatica della band. Pod venne registrato nel gennaio 1990 allo studio Palladium di Edimburgo, in Scozia,che aveva le attrezzature di registrazione al primo piano e le camere da letto al piano superiore. Durante le registrazioni, i componenti del gruppo a volte indossavano il pigiama e più di una volta andarono in un pub locale senza nemmeno cambiarsi. “Glorious” è l’incipit perfetto per un album memorabile.

Sette anni dopo la pubblicazione di Pod, Albini venne coinvolto in un progetto diametralmente opposto a quello voluto da Kim Deal. Per l’occasione torniamo a Pittsburgh, Pennsylvania, per ritrovare il chitarrista Ian WIlliams che abbiamo ascoltato nei Don Caballero all’inizio del podcast. Nel 1997 Williams insieme allo straordinario batterista Kevin Shea (Talibam!, People, Puttin On The Ritz, Mostly Other People Do the Killing) e al bassista Eric Emm (Don Caballero) crea il progetto Storm & Stress, il cui nome non può non evocare uno dei più importanti movimenti culturali tedeschi come lo Sturm und Drang. Gli artisti di quel periodo sottolineavano che l’oggettività insita negli ideali illuministici del razionalismo non riusciva a esprimere pienamente le complessità e gli estremi delle emozioni umane.
La letteratura era caratterizzata da protagonisti portati ad azioni violente per vendetta o altre irrazionalità; la musica, con il suo uso predominante di tonalità minori e tempi irregolari, intendeva riflettere intense reazioni emotive. In parole povere, gli Storm and Stress erano un gruppo d’improvvisazione, capace di utilizzare i tre strumenti più elementari (chitarra, basso, batteria) per creare forme lunghe e ingombranti, senza forme distinguibili. Due soli album pubblicati dal trio, nel primo autointitolato registrato da Albini, ogni strumento parla con l’altro in un dialogo di flusso di coscienza. La batteria a tratti turbolenta a tratti rilassante, la chitarra capace di tagliare e a ricomporre il silenzio. “Dance ‘Til Record Skips Like Passengers Shift On Take Off” è solo un esempio del mondo turbolento evocato dal trio una nota dopo l’altra.

Se Warren Ellis ed il suo violino adesso sono associati senza dubbio ai Bad Seeds di Nick Cave, non va mai dimenticato che insieme a Mick Turner (chitarra) e Jim White, ha dato vita ad un gruppo che per 15 anni ha mostrato un nuovo approccio sonoro estremamente riconoscibile. I Dirty Three sono nati a Melbourne, Australia, e si sono messi in luce già dall’esordio di Sad & Dangerous targato 1994, come un gruppo capace di unire il folk rock e la psichedelia alla musica da camera. Il tutto con una estrema malinconia di fondo. Il segno distintivo del gruppo è senza ombra di dubbio il violino di Ellis che monta un pick-up chitarristico per poterne sfruttare i riverberi del feedback.
Nel 1998 il trio entrò in studio con Steve Albini per creare una sorta di concept album incentrato sul mare. Il risultato è l’emozionante Ocean Songs, un disco dove i tre musicisti riuscirono a ricreare mirabilmente tutte le emozioni, i colori e i suoni del mare. La malinconia e la solitudine dei grandi navigatori solitari, il vento, la risacca, le onde, le suggestioni della voce delle sirene. Una tensione musicale e spirituale quella che appare tra un’onda e l’altra in un disco capace di colpire, trascinare e commuovere. Ascoltate “Sirena” e lasciatevi trasportare dalle onde verso la battigia da questi tre straordinari musicisti. Il trio ha appena pubblicato Love Changes Everything dopo ben 12 anni di silenzio.

Dopo la chiusura dell’avventura Sleep, band che ha ridisegnato i confini dello stoner rock, il cantante e bassista Al Cisneros insieme al batterista Chris Hakius decisero nel 2003 di formare una loro band, chiamandola OM, un duo dedito ad una sorta di lento rituale doom con precisi riferimenti religiosi. Om è un termine indeclinabile sanscrito che ha il significato di solenne affermazione, ed è anche il mantra più sacro e rappresentativo della religione induista. Già dal nome quindi il duo vuole trasferire in musica una personale declinazione spirituale ed esoterica della psichedelia. Advaitic Songs, è il loro quinto (secondo con il batterista Emil Amos al posto di Hakius) e tuttora ultimo album in studio, pubblicato nel 2012 per la Drag City e registrato naturalmente da Steve Albini.
La band si dimostra maestra nel creare ambientazioni evocative e trascendentali, dando vita ad una vera e propria saga oscura, orientaleggiante, mistica e spirituale. Un doppio album che vede la presenza del nuovo membro Robert Aiki Aubrey Lowe (ex 90 Day Men) alla voce e cori, e che presenta ben tre brani su 5 sopra i dieci minuti. Ancora una volta l’iconografia cristiana trova spazio in una loro cover, con Giovanni Battista che campeggia nella copertina dell’album. “State Of Non-Return” è uno dei brani di maggior impatto del disco, perfetta per mostrare la maniera evocativa ed epica di composizione del duo statunitense.

Tra i gruppi registrati da Steve Albini ci sono anche i Low, da annoverare senza ombra di dubbio tra i gruppi più importanti degli ultimi 30 anni. La cosa che lascia stupefatti è pensare come Alan Sparhawk e la sua consorte Mimi Parker dopo aver esordito nel 1994 con un capolavoro come I Could Live In Hope, siano riusciti, a distanza di tanti anni, ancora a sorprendere e ad emozionare. Avevamo accolto con preoccupazione le prime notizie sulla malattia di Mimi Parker, un cancro ovarico con cui combatteva da fine 2020 e che speravamo fosse in recessione. L’uscita di Hey What aveva quasi fatto passare la malattia in secondo piano, ma il tumore, vigliacco, aveva altri piani. La cancellazione di parte del Tour 2022 era stata solo la prima avvisaglia, poi, il 5 novembre, la notizia che non avremmo mai voluto leggere.
Altro disco che non ricordavo assolutamente fosse stato prodotto da Albini è Things We Lost In The Fire, uno dei migliori album della discografia del gruppo di Duluth. La perfezione formale di “Dinosaur Act” esercita, a distanza di 21 anni, un fascino difficile da spiegare a parole, sensazioni che rimangono appiccicate addosso, una forza evocativa emanata da rintocchi di batteria, drappeggi di chitarra sospesi nell’aria, l’alternarsi magico delle voci dei due coniugi, un pathos che non cala mai di tono. Una gemma costruita alla perfezione tra ombre e luci che ne aumentano il potere onirico. Sparhawk ha appena annunciato per fine settembre, la pubblicazione del suo album solista White Roses, My God che sicuramente andrà nel solco della storia dei Low.

Un autore tanto talentuoso quanto fragile e malinconico, vittima poi delle sue stesse debolezze è stato Jason Molina, capace nelle sue diverse sfaccettature di rinnovare in qualche modo la tradizione cantautorale americana. Con il progetto Songs: Ohia, Molina muove i suoi primi passi discografici sotto l’ala protettrice di un altro grande del cantautorato a stelle e strisce come Will Oldham, per poi proseguire con l’ausilio costante dell’etichetta Secretly Canadian. Dopo un inizio timido in cui le qualità di racconto della tradizione americana venivano fuori in maniera acerba, Molina prende via via confidenza con la propria scrittura diventando sempre più solido nella sua interpretazione personale del songwriting. Nel 2003 Molina, fece uscire l’ultimo album a nome Songs: Ohia, il cui titolo segna la transizione ad una nuova ragione sociale: The Magnolia Electric Co.
Il disco, registrato con una nuova formazione e prodotto da quel Steve Albini di cui stiamo celebrando la carriera dietro al banco di registrazione, segna un distacco dai lavori precedenti, andando a lavorare in maniera più elettrica sulle radici blues e country, senza rinnegare il cantautorato classico che emerge in brani splendidi come la “Farewell Transmission” inserita in scaletta. 10 anni più tardi Molina ci lascerà, a causa della sua dipendenza dall’alcool e dal sistema sanitario statunitense che non lascia scampo a chi non può permettersi un’assicurazione sanitaria. Come nel caso di altri autori scomparsi prematuramente (Mark Linkous, Elliott Smith, Vic Chesnutt), ci manca moltissimo la sua sensibilità di autore e la bellezza cristallina di moltissime sue composizioni.

Chiudiamo il podcast con una di quelle artiste che mai immaginavo potesse affidarsi a Steve Albini. Nei primi mesi del 2006 la cantante, compositrice ed arpista Joanna Newsom è entrata in sala di registrazione per far diventare realtà un progetto davvero ambizioso. Nata da una famiglia di musicisti, Joanna era riuscita a colpire sin da subito un nume tutelare del songwriting americano come Will Oldham, aka Bonnie “Prince” Billy. Oldham la portò in tour come spalla facendogli firmare un contratto con la Drag City, per la quale nel 2004 pubblicò l’esordio The Milk Eyed Mender. Ma, come detto, la fama arrivò con la pubblicazione del suo secondo lavoro intitolato Ys.
L’album era estremamente ambizioso: prodotto da Steve Albini, mixato da Jim O’Rourke e arrangiato magistralmente da Van Dyke Parks. Il disco, formato da cinque lunghe tracce di durata variabile tra i 7 e i 17 minuti spalmate su due vinili, ha colpito per la capacità di rivisitare il folk con personalità e forza espressiva a dispetto del suo timbro vocale. Incredibile come un album così legato ad un genere “di nicchia” è riuscito a conquistare le copertine delle maggiori riviste musicali portando il nome della Newsom sulla bocca di tutti. Le canzoni, tra cui la splendida “Cosmia” che chiude disco e podcast, trattano di eventi e persone che sono stati importanti nella vita della Newsom nell’anno precedente alla registrazione. Questi eventi includono la morte improvvisa del suo migliore amico, una malattia persistente e una relazione tumultuosa. L’album ha preso il nome dalla città di Ys, che secondo il mito fu costruita sulla costa della Bretagna per poi essere inghiottita dall’oceano.
Un grazie speciale va, come sempre, a Franz Andreani per la sua passione, la gestione di questa banda di pazzi e per la splendida riorganizzazione del sito già attiva da qualche anno. A cambiare non è stata solo la versione grafica del sito, ma anche la “filosofia” della podradio, con le rubriche che vanno ad integrarsi nella programmazione regolare sotto l’hashtag #everydaypodcast. Sulla nostra pagina Facebook troverete quotidianamente ogni upload del sito e, ormai da tempo, è attivo anche lo splendido canale YouTube della Radio, una nuova formula senza interruzioni ne spot per ascoltare la vostra-nostra musica preferita. Iscrivetevi numerosi, vi aspettiamo!
Nel prossimo episodio troveremo alcune novità interessanti, tra cui i Big Special e le splendide nuove uscite di casa Constellation: FYEAR, Erika Angell, Kee Avil e Eric Chenaux Trio, oltre a molti doverosi ripescaggi .
Il tutto sarà, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
Intanto se volete potete sfruttare la parte riservata ai commenti qui sotto per darmi suggerimenti, criticare (perché no), o proporre nuove storie musicali. Mi farebbe estremamente piacere riuscire a coinvolgervi nella programmazione e nello sviluppo del mio sito web.
Per suggerimenti e proposte, scrivetemi senza problemi all’indirizzo e-mail stefano@stefanosantoni14.it.
Potete ascoltare o scaricare il podcast anche dal sito di Radio Rock The Original cliccando sulla barra qui sotto.
Buon Ascolto
TRACKLIST
01. MX-80 SOUND: Follow That Car da ‘Out Of The Tunnel’ (1980 – Ralph Records)
02. THE JESUS LIZARD: Monkey Trick da ‘Goat’ (1991 – Touch And Go)
03. DON CABALLERO: For Respect da ‘For Respect’ (1993 – Touch And Go)
04. FRONTIER: Now da ‘Heater’ (1997 – Tug-o-War Records)
05. BRAINIAC: Nothing Ever Changes da ‘Hissing Prigs In Static Couture’ (1996 – Touch And Go)
06. UZEDA: From The Book Of Skies da ‘Stella’ (2006 – Touch And Go)
07. SLINT: Carol da ‘Tweez’ (1989 – Jennifer Hartman Records)
08. PJ HARVEY: Dry da ‘Rid Of Me’ (1993 – Island Records)
09. PIXIES: Gigantic da ‘Surfer Rosa’ (1988 – 4AD)
10. THE BREEDERS: Glorious da ‘Pod’ (1990 – 4AD)
11. STORM & STRESS: Dance ‘Til Record Skips Like Passengers Shift On Take Off da ‘Storm&Stress’ (1997 – Touch And Go)
12. DIRTY THREE: Sirena da ‘Ocean Songs’ (1998 – Touch And Go)
13. OM: State Of Non-Return da ‘Advaitic Songs’ (2012 – Drag City)
14. LOW: Dinosaur Act da ‘Things We Lost In The Fire’ (2001 – Kranky)
15. SONGS: OHIA: Farewell Transmission da ‘The Magnolia Electric Co’ (2003 – Secretly Canadian)
16. JOANNA NEWSOM: Cosmia da ‘Ys’ (2006 – Drag City)
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SEASON 18 EPISODE 19: “Steve Albini” [Podcast] https://t.co/I7uvAlkAHk Il mio #podcast dedicato alle produzioni di #SteveAlbini è disponibile anche da "leggere". Un dovuto tributo ad un personaggio cardine della musica alternativa.
— SoundsAndGrooves (@SoundsGrooves) July 19, 2024