Nel corso del 2016 a volte abbiamo imprecato contro il funesto anno bisestile che ci ha portato via alcuni artisti che hanno fatto la storia della musica, dimenticando forse che anche i nostri eroi musicali purtroppo sono soggetti alle stesse leggi degli uomini “normali”: invecchiano e possono contrarre brutte malattie.
Basti pensare che il 2017 ci ha già portato via il metronomo pulsante del krautrock, il batterista dei Can Jaki Liebezeit, oltre a un grande e influente compositore/produttore come David Axelrod. A volte tutto questo ha rischiato di far passare in secondo fatto le moltissime cose interessanti pubblicate negli ultimi 12 mesi. Compilare una classifica, visto il numero gigantesco di uscite, è sempre più un’impresa ardua, forse un inutile esercizio di stile: difficile stabilire gerarchie, e soprattutto, fissare i “giusti” parametri da usare. Quali sarebbero? In base a cosa?
In questi tre podcast ho voluto semplicemente appuntare su un taccuino, gli album che ho ascoltato di più e che sono riusciti maggiormente a coinvolgermi tra quelli usciti in questi ultimi 12 mesi, e condividere con voi la mia interpretazione, il mio modo di sentire.
Nel primo podcast (disponibile per l’ascolto ed il download a questo link) ho messo in rassegna 8 album che si sono classificati dalla 50° alla 39° posizione e 6 titoli inseriti in una lista di outsiders, album che non sono riusciti ad entrare nella Top 50, sfiorando la mia personale eccellenza, ma che per molti di voi potrebbero invece essere assolutamente degni della portata principale. Il secondo podcast (disponibile per l’ascolto ed il download a questo link), è entrato nel cuore della classifica proponendo i dischi classificati dalla 28° alla 15° posizione.
Eccoci quindi arrivati (finalmente) alla fine di questa sorta di terrificante Corazzata Potemkin, con il podcast finale che svela le prime 14 posizioni della Playlist di Sounds & Grooves, trasmissione che potete scaricare nella versione a 320 kb/s cliccando sul banner qui sotto.
Iniziamo trovando al #14 uno dei gruppi più incredibilmente vitali del Regno Unito, quei The Fat White Family che sono spesso associati (purtroppo) più ai loro eccessi off stage che al loro valore musicale che è ben superiore a quanto loro stessi vogliano farci credere. Nel primo album si parlava di stupri, pedofilia e su come bombardare Disneyland, nel nuovo ‘Songs For Our Mothers’ (disco che mai e poi mai faremmo ascoltare alle nostre mamme) troveremo serial killer, fascismo e relazioni difficili che sfociano in cieca violenza. C’è la voglia sempre e comunque di stupire, di essere fastidiosamente repellenti, di irriverenza depravata, ma è voluta e razionale, mai stupidamente cieca. “Tinfoil Deathstar” è una delle canzoni migliori del lotto con un organo spaziale, linee di basso rimbombanti e una voce psichedelica in falsetto che narra di visioni derivate dall’abuso di eroina, dove fa capolino anche il “morto di stato” David Clapson.
L’approccio personale e visionario di Heather Leigh alla pedal steel guitar ci aveva già convinto ascoltando il suo primo album solista ‘I Abused Animal’ . Visto che ormai la fanciulla è diventata il riferimento della scena avant-improv-noise per quanto riguarda il suo particolare strumento, non stupisce affatto l’unione con il sassofono del veterano della scena avant-jazz Peter Brötzmann in un unico, ininterrotto flusso sonoro chiamato ‘Ears Are Filled With Wonder’ (#13), dove i due suonano separatamente ascoltandosi per poi scontrarsi e riunirsi. Laddove le corde ispirate della Leigh allargano lo spazio sonoro, le note degli strumenti a fiato di Brötzmann lo colmano in maniera potente. Vera meraviglia per le orecchie.
Al #12 troviamo un altro sassofonista. Il canadese Jason Sharp ci porta, guidati dal battito del cuore, all’interno di un flusso estatico, ipnotico, e indimenticabile. Il suo album di esordio per la Constellation si intitola ‘A Boat Upon Its Blood’, un arco narrativo ispirato dal poema “The Heart” di Robert Creeley e capace di includere droni, noise, elettronica, dissonanze, in perfetto equilibrio tra pulsazioni soniche e strumenti tradizionali, traducendo il respiro ed il battito del cuore in segnali elettronici processati e suonati insieme agli strumenti tradizionali. Quasi un esperimento liturgico quello della title track, con la prima parte a creare un arco sonoro di synth, un oceano caldo ed intimo di suoni dove è facile immergersi, mentre la seconda parte viene animata dagli sbuffi del sax e dalle violente sferzate di violino e pedal steel in un flusso di enorme libertà strutturale. Qui propongo la terza e conclusiva parte, che vede un incremento percussivo ad increspare la superficie con una serie di onde emozionali che animano un impressionante viaggio liberatorio.
Al #11 troviamo un disco segnato da una tragedia. La morte di Arthur, figlio adolescente di Nick Cave ha inevitabilmente cambiato il corso delle registrazioni di ‘Skeleton Tree’ album pervaso da un’atmosfera di dolore e sofferenza palpabile. Un disco crepuscolare, intenso da far male, pieno di paesaggi sonori raffinati creati da Warren Ellis, nuovo deus ex machina dei Bad Seeds ridotti all’osso dopo la defezione di Barry Adamson. Un viaggio nell’abisso, nell’amore di un padre per il figlio tanto forte da far male. Un amore e un dolore palpabile nella commozione del canto di questa “I Need You”, crepuscolare e intensa nel comunicare una sofferenza tanto decorosa quanto enorme. Nick Cave & The Bad Seeds faranno tappa in Italia per tre imperdibili concerti a novembre 2017, il 4 a Padova, il 6 a Milano e l’8 a Roma.
Une delle più belle sorprese di questo 2016 è stato l’esordio della tedesca trapiantata in Norvegia Eva Pfitzenmaier. Ben nascosta dietro al moniker di By The Waterhole ha dato alle stampe un album intitolato ‘Two’ (#10) che esprime perfettamente il talento di questa cantante, musicista, poetessa e pittrice che, lavorando con percussioni e loop, crea un microcosmo di grande fascino usando la sua straordinaria voce tra elettronica, pop, afrobeat. Aiutata dall’amico Stephan Meidell (metà degli Strings & Timpani ascoltati nello scorso podcast), l’artista riesce ad incantarci costruendo un disco fuori dagli schemi ed estremamente originale. Ascoltate la splendida chiusura di “The Loudness Of No Sound”.
Al #9 troviamo un artista che è riuscito a mettere d’accordo riviste e webzine sia mainstream che alternative. Impresa estremamente complicata ma meritata quella riuscita al testamento sonoro di David Bowie intitolato ‘★(Blackstar)’. Il disco, pubblicato appena due giorni prima della morte del grande artista, fortunatamente ha fatto in tempo ad essere giudicato da quasi tutti per le sue grandi qualità musicali e non per l’onda emotiva generata dalla sua prematura scomparsa. L’album (anche cercando di assorbire l’enorme impatto emozionale), è forse il suo migliore negli ultimi 20 anni, registrato insieme a un gruppo di jazzisti newyorkesi guidati dal sassofonista Donny McCaslin, dove tra rock classico e sperimentazioni Bowie ci ha voluto lasciare un testamento meravigliosamente intenso ed emozionante, come dimostra la splendida title track.
I tre musicisti che si celano dietro al nome di Dwarfs Of East Agouza (il chitarrista canadese Sam Shalabi, il compositore egiziano, manipolatore di beats e tastierista Maurice Louca e il contrabbassista e sassofonista americano, appassionato di tradizioni mediorientali Alan Bishop), hanno saputo creare un nuovo progetto che riesce a sposare la tradizione musicale del medio oriente, con la psichedelia e l’improvvisazione. Il loro album di esordio intitolato ‘Bes’ (#8) è un flusso lisergico ed estatico, un’esperienza magica ed immaginifica da fare aprendo mente ed orecchie. Ascoltate le percussioni reiterate a tirare le fila della splendida “Clean Shahin”, che parte in maniera quasi sommessa, con la chitarra ed il basso a farsi via via sempre più vigorosi, ipnotici ed insistenti mano mano che il minutaggio aumenta. Fatelo al buio lasciandovi trasportare dal cammello nel deserto, su una barca sul Nilo, fino a decollare nel cosmo senza più tempo ne spazio. Non ve ne pentirete.
Torna lo sperimentatore australiano Oren Ambarchi con ‘Hubris’ (al #7), un album dove si circonda di meravigliose collaborazioni (Jim O’Rourke, Ricardo Villalobos, Arto Lindsay e molti altri) per rivestire di contaminazioni avventurose, afrobeat, minimaliste ed elettroniche il suo sempre più coinvolgente motorik ritmico. I sedici minuti della conclusiva “Hubris, Pt. 3” sono estremamente avvincenti, con il ritmo che raccoglie particelle di suono a mano a mano che procede, diventando sempre più vario e avvincente. Dopo infinite e numerose collaborazioni, Ambarchi da il meglio di se in un disco che porta solo il suo nome.
La visione sonora dell’ex Stereolab Tim Gane, che da sempre oscilla tra psichedelia e kraut, ha dato forma ad un nuovo progetto chiamato Cavern Of Anti-Matter. Con il secondo album “Void Beats/Invocation Trex” (che si posiziona al #6), la visione concettuale del musicista britannico e dei suoi due sodali, il batterista Joe Dilworth (presente nella primissima formazione degli stessi Stereolab), e il mago dei sintetizzatori Holger Zapf, prende compiutamente vita. Il DNA degli Stereolab viene rivestito di puro motorik, i primi tentativi di elettronica primordiale vengono celebrati dalla presenza di molti degli strumenti analogici che andavano per la maggiore negli anni ’70. I tre modellano un ideale universo retro-futurista, aperto a correnti cosmiche, derive kraut, incursioni psichedeliche e smaglianti aperture pop, con l’elettronica e gli strumenti analogici a fare da propulsore per una sperimentazione che mai come ora, appare profondamente vitale. “Black Glass Action” è un melodico mid-tempo che svolazza sornione, una sorta di electro-rock creato con la collaborazione di Jan St. Werner dei Mouse On Mars, gruppo con il quale il trio ha recentemente collaborato.
Al #5 troviamo un gruppo attivo da ben 30 anni, che riesce anno dopo anno ad essere incredibilmente sempre unico pur cambiando ogni volta. Solo quel diavolo di Kurt Wagner, con la sua capacità di scrivere canzoni meravigliosamente senza tempo poteva farmi apprezzare addirittura una delle invenzioni più atroci della storia della musica: il vocoder. Il nuovo album dei Lambchop intitolato ‘FLOTUS’ (acronimo di For Love Often Turns Us Still), flirtando in modo evidente con l’elettronica glitch, è un disco che richiede pazienza, tempo, ascolto, uno scrigno di emozioni contenute tra due argini che durano più di 15 minuti ma che vorremmo non finissero mai. “Directions to the Can” è il perfetto esempio della maestria assoluta di Wagner nella scrittura di splendenti meraviglie, tra bassi pulsanti, archi sospesi nel cielo e il pianoforte a tinteggiare il tutto.
Quattro anni dopo il loro primo incontro sul palco dell’Ecstatic Music Festival a New York City, si è celebrata finalmente anche in studio l’unione tra gli Oneida, maestri del rock sperimentale newyorkese, e Rhys Chatham, colui che più di chiunque altro ha contribuito a canonizzare gli stilemi del post-minimalismo. Non c’era alcun dubbio che fossero spiriti affini, e chiunque ami il rock free-form, la libertà compositiva, le fiere visioni sonore troverà in questo “What’s Your Sign?” (#4) pane per i suoi denti. Chatham aveva un po’ di timore di affiancare la sua visione a quella forse troppo rock-oriented della band, ma le paure del compositore si sono dissolte appena entrati in studio. Il disco forse è il più riuscito della band dai tempi del seminale ‘Each One Teach One’, con il perfetto connubio tra free rock, psichedelia, minimalismo e sonici assalti frontali. Il disco si chiude con una “Civil Weather” ispirata dal free-jazz e condotta dalla band, accompagnata dalla tromba del maestro Chatham, fino ad infilarsi nel bollente magma sonoro di un vulcano in eruzione.
E veniamo al podio della Playlist 2016. Al #3, sul gradino più basso, troviamo un quartetto di Baltimora che ha la struttura (quasi) classica di un gruppo rock, Owen Gardner (chitarra), Max Eilbacher (basso), Sam Haberman (batteria) e Andrew Bernstein (sax e percussioni), ma le cui finalità sono completamente diverse. Gli Horse Lords agiscono come un malware che si annida nel cuore del rock, lo corrompe e lo muta in un’altra entità. Si potrebbe chiamare math rock, ma non ci sono equazioni ne spigoli, ci sono spirali di suono che vengono dagli studi musicali dei quattro, tra classica contemporanea, elettronica e percussioni africane. Quello che esce fuori di solchi del loro nuovo ‘Interventions’ è di grande complessità, visto che coesistono complicate poliritmie, potenti soluzioni sperimentali, afrofuturismi suggestivi, e grooves minimalisti. “Bending to the Lash”, uno dei due fulcri del disco, stupisce per l’interplay tra i quattro, e per l’abilità nel costruire strutture mai banali e ricche di tensione emotiva, tra energia post-punk e suggestioni che sembrano arrivare dai territori abitati da sperimentatori come This Heat o Can.
Al #2 troviamo un gruppo, i Rhyton da Brooklyn, NY, che è davvero arduo solo provare a classificare, in quanto il loro suono è difficilmente richiudibile in un singolo contenitore. La band è formata da tre musicisti che amano sperimentare, giocare con i suoni, improvvisare, esplorare avidi di emozioni il proprio subconscio; anche il più revivalista dei tre (Dave Shuford aka D.Charles Speer), lo è in modalità assolutamente avventurosa. Nel nuovo ‘Redshift’, i musicisti riescono nell’impresa di mettere a confronto brulli territori alieni con rigogliose tradizioni folk e country. Costruzione e decostruzione, due facce della stessa medaglia, due parti che sembrano così distanti tra loro ma che in realtà sono semplicemente connesse su un diverso piano della realtà. Provate a perdervi nella foresta e nel cosmo all’interno dello stesso viaggio, come nell’elettrico cavalcare alla Quicksilver Messenger Service della splendida “End Of Ambivalence”. I Rhyton si dimostrano veri e propri maestri nell’arte di un revivalismo che non risulta mai pedissequo e fine a se stesso, ma in continua espansione e mutazione.
Eccoci a svelare la vetta della classifica. Il chitarrista dei fantasiosi Peeesseye (un trio di pazzi furibondi che amavano celebrare arditi baccanali dedicati all’improvvisazione e all’avant-rock), Chris Forsyth, ha intrapreso dopo lo scioglimento della band, un percorso estetico diametralmente opposto. Il suo “Solar Motel” del 2013 è stata la scintilla che gli ha fatto venire l’idea di creare una vera band, chiamata proprio The Solar Motel Band, con cui poter definitivamente accantonare le asprezze del suo precedente progetto e approdare ad un suono che bilancia l’amore per il suono chitarristico trascendente degli anni ’70 con la sperimentazione dei giorni nostri. Le tracce che compongono questo lungo doppio album chiamato ‘The Rarity Of Experience’ sono state curiosamente concepite in versione acustica, dovevano infatti accompagnare una pièce teatrale di Miguel Gutierrez, e solo successivamente (tra dicembre 2014 e ottobre 2015) sviluppate e registrate nella versione definitiva. Il disco è diviso idealmente in due parti, la prima più di impatto sonoro e istintivamente rock, un maestoso monumento allo strumento principe del rock che viene portato in trionfo da una ritmica sostenuta su centinaia di chilometri di strade blu, la seconda che va a privilegiare la bontà del suono, l’elevazione dell’elegia, gli stimoli cerebrali. La prima traccia del secondo disco, “The First Ten Minutes Of Cocksucker Blues”, rallenta i ritmi, passando da uno scenario caldo e desertico ad un altro reso intrigante dalla sola luce lunare, con le percussioni di Ryan Sawyer ad irrobustire la ritmica facendola diventare soul-blues. Dopo 5 minuti ecco la tromba di Daniel Carter a trasfigurare il tutto come fosse una forma slowcore e oppiacea della Budos Band o una versione modernizzata al rallentatore dei Rolling Stones, fino ad un prolungato finale che vorremmo non finisse mai. Un lavoro splendido, dove coesistono perfettamente entrambe le anime del chitarrista, quella classica e quella rivoluzionaria.
E finalmente è tutto. Se siete curiosi o estrememente folli, potete trovare la classifica completa a questo link. Nel prossimo podcast che sarà online venerdi 24 febbraio, finalmente abbandoneremo le classifiche per tornare ad una programmazione più “normale”. Potete sfruttare la parte dei commenti qui sotto per dare suggerimenti, anche scrivere critiche (perché no), o proporre nuove storie musicali, mi farebbe estremamente piacere riuscire a coinvolgervi nella programmazione e nello sviluppo del mio website.
Vi do quindi appuntamento a tra due settimane, con un nuovo podcast da scaricare e nuove storie da raccontare, ma non mancate di tornare ogni giorno su RadioRock.to The Original. Troverete un podcast diverso al giorno, le nostre news, le rubriche di approfondimento, il blog e molte novità come lo split-pod. Siamo anche quasi in dirittura di arrivo per quanto riguarda l’atteso restyling del sito, e per questo (e molto altro) un grazie speciale va a Franz Andreani, che ci parla dei cambiamenti della nostra pod-radio e della radio in generale nel suo articolo per il nostro blog. Tutte le novità le trovate aggiornate in tempo reale sulla nostra pagina Facebook.
Se volete ascoltare o scaricare il podcast, potete farlo anche dal sito della stessa PodRadio cliccando sulla barra qui sotto. Buon Ascolto
TRACKLIST
01. The Fat White Family: Tinfoil Deathstar da Songs for Our Mothers (Without Consent)
02. Peter Brötzmann, Heather Leigh: 2 da Ears Are Filled With Wonder (Trost Records)
03. Nick Cave & The Bad Seeds : I Need You da Skeleton Tree (Bad Seed Ltd.)
04. Jason Sharp: A Boat Upon Its Blood Pt. 3 da A Boat Upon Its Blood (Constellation)
05. By The Waterhole: The Loudness Of No Sound da Two (Playdate Records)
06. David Bowie: ★ (Blackstar) da ★ (Blackstar) (ISO Records)
07. The Dwarfs of East Agouza: Clean Shahin da Bes (Nawa Recordings)
08. Oren Ambarchi: Hubris (Part 3) da Hubris (Editions Mego)
09. Cavern Of Anti-Matter: Black Glass Actions da Void Beats/Invocation Trex (Duophonic)
10. Lambchop: Directions To The Can da FLOTUS (Merge Records)
11. Oneida & Rhys Chatham: Civil Weather da What’s Your Sign? (Northern Spy)
12. Horse Lords: Bending To The Lash da Interventions (Northern Spy)
13. Rhyton: End Of Ambivalence da Redshift (Thrill Jockey)
14. Chris Forsyth & The Solar Motel Band: The First Ten Minutes Of Cocksucker Blues da The Rarity Of Experience (No Quarter)