Le avventure in musica di Sounds & Grooves continuano nella 15° Stagione di RadioRock.TO The Original
In questo episodio di Sounds & Grooves troverete una esplosiva miscela di power rock, post punk visionario e altre meraviglie.
Sono davvero felice di essere, con Sounds & Grooves, a fianco di tutti voi per la 15° stagione di www.radiorock.to. A pensarci è pazzesco che sia passato già così tanto tempo da quando abbiamo iniziato questa fantastica avventura. Una podradio nata per dare un segnale di continuità con il passato, con quella meraviglia che Franz Andreani, Marco Artico, Flavia Cardinali, Massimo Di Roma, Michele Luches, Aldo Semenuk, Giampiero Crisanti, Gianpaolo Castaldo avevano creato e a cui, nel mio piccolo, ho provato a dare un contributo dal 1991 al 2000. Sappiamo tutti benissimo che la Radio Rock in FM come la intendevamo noi è sparita da almeno due decenni, ma in tutti questi anni di podcast sul web abbiamo cercato di tenere accesa quella fiammella per poi tentare di moltiplicarla, facendola diventare un faro di emozioni e qualità musicale. Perché la passione e la voglia di fare radio, la voglia di ascoltare e di condividere la musica di qualità, nonostante tutto, non ci è mai passata.
Non siamo una radio “normale”. Non solo perché trasmettiamo in differita e attraverso podcast registrati, ma soprattutto perché andiamo orgogliosamente musicalmente controcorrente rispetto a quella che è diventata la consuetudine delle emittenti radiofoniche al giorno d’oggi. Continuiamo orgogliosamente a cercare quella libertà in musica che nell’etere sembra essere diventata una mosca bianca, quella passione per la condivisione, per la ricerca, per l’approfondimento. Non dobbiamo aderire per forza ad una cieca linea editoriale che privilegia il commercio, ma ci lasciamo guidare semplicemente dal nostro cuore e dalla nostra passione.
Nel mondo attuale, dove tutto sembra di nuovo e sempre di più avvolto nella nube della pandemia, ogni cosa sembra essere letta dietro ad una lente distorta. La politica non è mai stata così squallida e così divisiva, qualsiasi scelta, anche di marketing, sembra essere fatta da una parte per guadagnare consensi e likes (il vero e proprio denaro dei nostri giorni) , dall’altra per scatenare consensi o sdegno sui social o su programmi televisivi di infima lega, facendo azzannare persone comuni che non vedono l’ora di dire la propria per sentirsi fuori dell’anonimato. C’è tanta ignoranza, solitudine, paranoia, paura, frustrazione, competizione sfrenata tra persone piccole piccole… Il livello della politica e del giornalismo negli ultimi anni è sprofondato in maniera clamorosa, non solo in Italia, basti vedere quello che sta succedendo con i vaccini anti Covid. Il mio pensiero va alle persone che sono colpite duramente dal lockdown: a chi non c’è più, a chi ha combattuto e sta combattendo questo nemico silenzioso in prima linea con grandi sacrifici, a chi sta lottando davvero con forza per riappropriarsi della propria vita, a chi è stato costretto a reinventarsi. Spero davvero che stavolta lo stato (utopia, lo so, vista la “statura” morale della nostra classe politica) possa riuscire a far ritrovare la propria identità ad un popolo così duramente colpito negli affetti, nelle strutture, nel lavoro e nel quotidiano. In questo mondo dove sembrano mancare sempre di più parole e sentimenti come empatia, comprensione, solidarietà, buon senso e amore, noi proviamo a portare le nostre emozioni. Emozioni di persone non omologate che rispettano ed amano una forma d’arte straordinaria. La musica ha spesso il potere terapeutico di guarire le anime, lenire in qualche modo il dolore, come una pozione magica, un incantesimo primordiale, facendoci fare viaggi immaginari di enorme suggestione emotiva.
Nel settimo viaggio della stagione troverete due gruppi dall’enorme potenziale ma che per motivi diversi non hanno potuto esprimerlo compiutamente come The Sleepers e Brainiac, gli outsider del post rock tra psichedelia e tensione ritmica come Furry Things e Cul De Sac. La lucida follia di un Julian Cope in stato di grazia, la meraviglia del rock americano con i Built to Spill e i barbuti fratelloni Pontiak, il quasi dimenticato indie rock con il vibrafono degli Aloha. Hanno trovato spazio anche i droni evocativi e spirituali di Jerusalem In My Heart, le meraviglie ritmiche di John Colpitts aka Kid Millions (negli Oneida) e aka Man Forever (da solo), qui in combutta con una straordinaria Laurie Anderson, e per il ritorno, qualche anno fa, di un grande del folk rock come Roy Harper. Il finale è dedicato al songwriting raffinato della neozelandese di stanza in Galles Aldous Harding e soprattutto ad una delle canzoni più belle di un cantautorato italiano che (ahimè) naviga in bruttissime acque, “Cara” di Lucio Dalla. Sulla musica italiana torneremo presto…è una promessa! Il tutto, come da 15 anni a questa parte, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
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Iniziamo il podcast con una band molto particolare che è riuscita ad incidere solo un album. The Sleepers si formano a Palo Alto nel 1977, una delle prime punk band californiane. Il chitarrista Michael Belfer e il suo amico batterista Tim Mooney formano il primo nucleo della band, chiamando Ricky Williams, ex batterista dei Crime, come cantante. Le liriche di Williams non erano propriamente indimenticabili e venivano anche spesso dimenticate on stage, ma il cantante compensava questa mancanza con una capacità di improvvisazione incredibile che lo portavano a istrioniche e incontrollabili performance. Dopo la pubblicazione di un 7″ il gruppo si sciolse alla fine del 1978, Belfer si unì ai Tuxedomoon e Williams riuscì nell’impresa di fondare i seminali Flipper e ad essere cacciato dalla band prima di incidere alcunché.
Nel 1980, i The Sleepers ci riprovano con una nuova line-up che comprendeva Brian MacLeod (batteria), Ron MacLeod (basso), Michael Belfer e Mike White (chitarre). La nuova formazione riuscì ad incidere un singolo e un intero album, Painless Nights, dove l’approccio era meno incalzante e violento ma più scuro e psichedelico come dimostra la splendida “When Can I Fly?” inserita in scaletta. Dopo l’ennesimo episodio di violenza onstage mostrato da Williams e causato dagli abusi di sostanze stupefacenti, il gruppo si sciolse definitivamente. Williams fece parte dei Toiling Midgets insieme a Tim Mooney, ma la sua indole autodistruttiva lo portò a morire per overdose di eroina nel 1992 a soli 37 anni.
I Brainiac sono stati una band fuori dagli schemi e dall’immenso potenziale che sfortunatamente non ha mai fatto in tempo ad esplodere in tutto il suo goliardico genio. Come troppo spesso accade, è stata una tragedia a porre fine alla loro storia nel momento in cui stavano raccogliendo i frutti di un duro lavoro e diventare una stella del firmamento musicale. Dopo aver limato il loro suono nei primi due lavori facendo viaggiare i brani con un’alternanza di pause e accelerazioni ricca di pathos e di tensione emotiva, la firma con la prestigiosa Touch And Go aveva dato finalmente alla band di Dayton, Ohio, la visibilità che meritava. La struttura delle canzoni di Hissing Prigs in Static Couture è sempre più isterica e psicotica, le tracce sembrano respirare e contorcersi vivendo di vita propria, abbandonando quasi completamente la tradizionale struttura almeno per una buona metà dell’album.
Lo stridulo falsetto di Tim Taylor sbraita raddoppiandosi, le nevrotiche linee di synth lanciano la chitarra in orbita, il basso pulsa vigoroso. Il disco viene chiuso dalla tensione garage di “I Am A Cracked Machine”, dove il cantato di Taylor supera sempre il livello rosso in una veemente interpretazione, degno finale di un album fondamentale per ogni fan che si rispetti dell’Indie Rock anni ’90. Ma il loro quarto album non vedrà mai la luce. La notte del 23 maggio 1997 Tim Taylor perde la vita in un incidente automobilistico mentre stava tornando a casa dallo studio di registrazione. I Brainiac si sciolgono con effetto immediato. Auto-ironici, stravaganti, geniali. Chissà cosa sarebbe successo se la loro storia non si fosse così drammaticamente interrotta.
Le scene negli Stati Uniti risultano da sempre fortemente localizzate. Come il grunge è stato un affare di Seattle e dintorni, così il primo punk fu newyorkese e californiano. E mentre la no-wave è stata specifica addirittura di alcuni quartieri della grande mela, così il post-rock è nato e vissuto sull’asse Louisville/Chicago. Se il materiale del genere uscito al di fuori di queste due città non è stato molto a livello quantitativo, bisogna dire che invece è stato estremamente interessante a livello qualitativo. Vengono infatti da Austin nel Texas, che fu regione fondamentale per la psichedelia negli anni ’60, i Furry Things formati da Ken Gibson (voce, chitarra e tastiere), Cathy Shive (basso e voce), Chris Michaels (tastiere) e Charlie Woodburn (batteria).
Il loro esordio, nel 1996, si chiama The Big Saturday Illusion e il suono è una psichedelia bisbigliata e completamente immersa in una densa nuvola di feedback che esalta le progressioni melodiche ed armoniche. Ci sono tanto i primi Velvet Underground che gli Spacemen 3 come dimostra l’irresistibile “Still California”. Tre anni dopo daranno alle stampe Moments Away che sarà il loro ultimo disco e proporrà un suono completamente stravolto, senza feedback e con una accresciuta attenzione per il krautrock e per l’attitudine degli Stereolab.
I Cul De Sac di Boston sono stati forse il miglior gruppo dell’era post-rock a non provenire dall’asse Chicago-Louisville. Il loro rock esclusivamente strumentale, il suono pieno di tensione ritmica, con le partiture chitarristiche tra psichedelia, folk e suggestioni mediorentali di Glenn Jones, e i fremiti dissonanti e kraut del synth di Robin Amos, ha creato una via avventurosa e mai virtuosistica di interpretazione del post-rock. China Gate è stato probabilmente l’album della maturità, con l’innesto del nuovo batterista John Proudman ed un suono in grado di amalgamare in maniera perfetta e levigata le varie influenze della band.
“Doldrums”, tratto dal loro terzo lavoro, è un perfetto esempio di come l’evoluzione della band di Boston abbia poi portato la band l’anno successivo a registrare il proprio capolavoro, uno scrigno ricolmo di meraviglie assolute chiamato The Epyphany of Glenn Jones, album registrato al maestro del folk blues metafisico, un ombroso chitarrista chiamato John Fahey.
Personaggio incredibile il gallese Julian David Cope, cantante, musicista, autore,poeta e commentatore culturale, musicologo, antiquario e chi più ne ha più ne metta. Nel 1978 è stato il fondatore del gruppo post-punk di Liverpool The Teardrop Explodes, di cui era cantante ed autore. La sua carriera continuò poi come solista, prendendo parte anche a progetti paralleli come Queen Elizabeth, Brain Donor e Black Sheep. Cope è inoltre conosciuto come studioso delle civiltà neolitiche, attivista politico culturale, critico feroce della società occidentale contemporanea e amante del rock sperimentale tedesco e giapponese.
Diciamo che, pur riconoscendone la valenza musicale e culturale, talvolta le sue iperboli andrebbero quantomeno prese con le molle. In ogni caso Fried è il suo secondo album solista, uscito a soli sei mesi di distanza dall’esordio World Shut Your Mouth. L’album è meno esuberante e melodico del predecessore, ma riesce in ogni caso a mantenere un sublime equilibrio tra psichedelia, melodie e bizzarrie varie. La “Reynard The Fox” che apre il lavoro è divisa idealmente in due parti, la prima più tranquilla, la seconda più forsennata e distorta. L’album ebbe un pessimo risultato al botteghino e fu rivalutato solo molti anni dopo, ma resta come uno dei dischi più riusciti di un grande artista.
Un gran personaggio Doug Martsch. Dalla sua base di Boise, Isaho, era partito con il noise dei Treepeople, per poi creare la ragione sociale Built To Spill, che in origine doveva essere una formazione che accoglieva intorno a lui diversi musicisti in continua rotazione. In realtà nel corso degli anni la lineup si era stabilizzata come un trio che vedeva, oltre alla voce e alla chitarra di Martsch, il basso di Brett Nelson e la batteria di Scott Plouf. Il gruppo trovava una perfetta alchimia sonora nel 1997 con Perfect From Now On, dove si intersecano la loro abilità melodica, il gusto per la psichedelia e una chitarra che a volte si lascia andare in lunghe e lancinanti maratone soliste.
Il successivo Keep It Like A Secret ne confermava le coordinate sonore rilanciandone stavolta anche le aspettative commerciali. I brani erano meno pesanti in termini di lunghezza, mantenevano la loro propria complessità interna ma, allo stesso tempo, risultando più appetibili. Sperimentazione all’interno di melodie di facile presa, ritornelli abbacinanti, psichedelia e indie-rock a braccetto, “Carry The Zero” esprime pienamente tutto lo straordinario potenziale del trio. Nel 2012 Martsch ha di nuovo scombussolato le carte cambiando collaboratori. L’attuale formazione, che ha registrato lo scorso anno un commovente tributo a Daniel Johnston, vede una sezione ritmica tutta al femminile con Melanie Radford al basso e Teresa Esguerra alla batteria.
Tra le accidentate e nebbiose salite delle Blue Ridge Mountains, in Virginia, ecco arrivare i barbuti e bucolici Jennings, Lain e Van Carney, meglio conosciuti come Pontiak. Loro sono diventati un gruppo di assoluto riferimento, riuscendo ad essere sempre originali e convincenti sia quando suonano psichedelici e stoner, sia quando virano verso americana e hard rock. Nell’arco degli anni il loro approccio li ha resi perfettamente riconoscibili, una sorta di robusto rock psichedelico, che i fratelloni riescono a declinare in maniera innovativa, smussandone gli angoli, e segnando la consapevolezza del loro processo creativo, strumentale e vocale.
In una discografia quasi perfetta che li ha consacrati come miglior band di rock psichedelico del nuovo millennio, capace di standard qualitativi elevatissimi, Echo Ono con ogni probabilità è stato lo zenith creativo del trio. “Left With Lights” è una lenta psichedelia distorta e cosmica che avvince ed avvolge con le pennate acide e i cori trascinanti prima che le sue spirali soniche spazzino via tutto con la consueta energia.
Gruppo quasi dimenticato, gli Aloha muovono i loro primi passi grazie all’incontro tra il cantante e chitarrista Tony Cavallario e il bassista Matthew Gengler nell’estate del 1997 a Bowling Green, Ohio. Dopo aver spostato la propria base a Portland (primo di molti cambiamenti logistici), ai due si aggiungono Cale Parks alla batteria, ed Eric Koltnow al vibrafono e al pianoforte a completare una lineup curiosa per una band indie rock. Nel frattempo il loro miscelare indie rock, post-rock, jazz e progressive aveva fatto drizzare le antenne a quelli della Polyvinyl, pronti a metterli sotto contratto solamente dopo aver ascoltato un demo.
Dopo un primo EP di riscaldamento, nel 2000 gli Aloha arrivano ad incidere il loro primo album sulla lunga distanza. That’s Your Fire mostra l’abilità del quartetto di creare atmosfere molto particolari partendo dal pianoforte o dal vibrafono che diventa il loro elemento distintivo. Gli incastri, le aperture melodiche, un approccio da gruppo di Canterbury prestato alla scena indie rock. La struttura cinematica tra songwriting tradizionale ed improvvisazione da il meglio di se nella splendida e drammatica “Saint Lorraine” uno dei vertici di una band da riscoprire.
I The Dream Syndicate sono stati una band fondamentale di quella scena californiana chiamata Paisley Underground, capace di traghettare il recupero delle radici folk e country nel maelstrom del post-punk e della psichedelia. Nel 1978 Steve Wynn e Kendra Smith si conoscono a Davis, California, trasferendosi dopo un paio di anni a San Francisco dove, grazie all’incontro con il chitarrista Karl Precoda e il batterista Dennis Duck, nel 1981 nascono i The Dream Syndicate. Un anno più tardi fanno il loro esordio discografico con un EP composto da 4 pezzi in cui affilano le loro armi fatte da un approccio più scuro e urbano rispetto alla visione più aperta di altri gruppi che facevano parte della stessa scena.
L’esordio sulla lunga distanza The Days Of Wine And Roses ed il successivo Medicine Show si dividono spesso e volentieri la palma di migliore pubblicato dal quartetto. Probabilmente la mia preferenza, seppur di poco, va all’esordio, disco meno levigato ma più immediato e crudo. Le chitarre di Wynn e Precoda duettano aspre e abrasive, dipingendo scenari urbani drammatici. A distanza di tanti anni l’ipnotoca apertura chitarristica di “Tell Me When It’s Over” colpisce a fondo tra Velvet Underground e Television. La band, senza dubbio tra gli immortali del rock, è tornata qualche anno fa adeguandosi ai nuovi tempi in un modo straordinario.
L’etichetta Constellation Records è sempre una garanzia di musica splendida e coraggiosa. Non fa eccezione il produttore e musicista libanese di stanza a Montréal Radwan Ghazi Moumneh che insieme al regista canadese Charles-Andre Coderre ha dato vita ad un progetto audio/visuale chiamato Jerusalem In My Heart. Il tentativo è quello di creare una nuova e moderna forma di musica araba sperimentale in continua evoluzione e farla andare a braccetto con la parte visuale creata ad hoc con film analogici a 16mm. Il progetto JIMH è guidato dalla fusione operata da Moumneh tra il cantato tradizionale in arabo ed il suono del buzuk con moderne implementazioni di sintetizzatori modulari e field recordings.
Le sue registrazioni vogliono in qualche modo mescolare la cultura storica delle cassette arabe con le tendenze moderne della musica elettronica. Dopo aver rivelato la propria forza emotiva nel 2014 con l’album Mo7it Al-Mo7it, due anni più tardi i JIMH sono tornati prima con un album collaborativo insieme ai post rockers Suuns, poi con un album intitolato If He Dies, If If If If If If. Il disco se possibile mostra ancora meglio il crocevia culturale di grande tensione lirica di cui i due si fanno portavoce. In “A Granular Buzuk” gli strumenti della tradizione araba si uniscono all’elettronica in una preghiera che si innalza verso il cielo, tra la crudeltà della guerra e la catarsi della pace. Un luogo in cui perdersi e riflettere.
John Colpitts ogni tanto abbandona momentaneamente il moniker di Kid Millions con cui pesta forte i tamburi degli avant-rockers Oneida andando a vestire i panni di Man Forever. Play What They Want, il suo quarto viaggio in solitaria (leggi la recensione), è uno straordinario mutaforma dalle sfumature cangianti, un luogo dove ci si può smarrire felici anche nei vicoli più stretti, spinti dalla forza propulsiva della sua instancabile e avventurosa batteria. Inutile dire che il disco è assolutamente consigliato a chi è costantemente alla ricerca di cose nuove, e di suoni inconsueti ed imprevedibili.
Mettendo la puntina all’inizio della seconda facciata del disco, veniamo immersi nelle atmosfere del capolavoro dell’album, l’evocativa “Twin Torches”. Una splendida composizione di 10 minuti che vede il contributo fondamentale del violino e della voce di una Laurie Anderson letteralmente in stato di grazia. Una cascata di suoni e di voci (grazie all’apporto della Quince Contemporary Vocal Ensemble) che si dirigono come laser verso mille direzioni diverse, trovando le sponde nel creativo e complesso drumming di Colpitt che insieme al collettivo di percussionisti Tigue, li rimanda indietro a velocità doppia sotto lo spoken word dell’imperturbabile poetessa.
Un personaggio fuori dal tempo Roy Harper. Sarcastico ed eccentrico songwriter dall’animo folk, inizia ad incidere nella seconda metà degli anni ’60 trovando le giuste coordinate nel 1971 con un album intitolato Stormcock, in cui insieme ad una sezione di archi dipinge in quattro lunghe composizioni tutta la sua arte. Dopo una malattia, Harper torna dopo qualche anno strizzando l’occhio al progressive e all’hard rock, faticando però a trovare la strada maestra di nuovo. Più avanti la strada procederà a singhiozzo, nonostante l’amicizia con molti artisti storici ed un album in collaborazione con Jimmy Page che non ottiene il successo sperato.
Dopo 13 anni di silenzio, Harper è tornato alla ribalta con un album prodotto da Jonathan Wilson che ha dato una mano all’autore a rendere più moderno il proprio riconoscibile suono. Il risultato, Man & Myth, è semplicemente superlativo. Un album tra i migliori della sua carriera, in bilico tra malinconia e rassegnazione, tra il folk degli esordi ed un suono più robusto che gli ha permesso di scrivere ed interpretare brani meravigliosi come la “The Enemy” inserita in scaletta.
La neozelandese di stanza in Galles Hannah Sian Topp, più conosciuta come Aldous Harding, è senza dubbio una delle songwriters più talentuose ed interessanti uscite negli ultimi anni. Un percorso dove si inseguono storie e stati d’animo, raccontati dalla prospettiva personale di un’autrice che piano piano ha saputo trovare un equilibrio tra malinconia e vitalità. Dopo il precedente Party, esordio con la prestigiosa etichetta 4AD, la Harding ha ulteriormente alzato l’asticella con la pubblicazione di Designer, che conferma le buone impressioni lasciate nei primi due lavori.
Designer è un album decisamente più variegato del precedente, dove le tessiture più scure vengono usate solo parzialmente e la Harding riesce a padroneggiare con grande maestria tutto il range di sfumature sonore a sua disposizione. Grande versatilità espressiva, grazie anche all’attenta produzione di un grande come John Parish, e la capacità di raccontare le sue storie, storie di un’imperfezione dell’animo umano che non possiamo non sentire in qualche modo nostre. Una maniera di interpretare il cantautorato folk non certo standard, ma assolutamente personale e moderna, come dimostra la splendida “The Barrel”.
La chiusura del podcast è affidata ad un cantautore italiano che magari non vi aspettavate di trovare da queste parti. Visto che sono stato spesso accusato di esterofilia e di essere snob (come se andare fuori dai meccanismi di come funzionano i media italiani sia automaticamente da etichettare come essere un talebano musicale), voglio “usare” una canzone meravigliosa come “Cara” di Lucio Dalla con un duplice scopo. Il primo è mostrare che in Italia è assolutamente possibile creare musica allo stesso tempo sia accessibile che di qualità. I due Lucio Dalla e Dalla pubblicati a stretto giro di posta dimostrano quanto l’artista bolognese fosse in stato di grazia alla fine degli anni ’70 e all’inizio degli anni ’80. Due dischi straordinari, ironici e commoventi, fatti di grandi canzoni che hanno resistito meravigliosamente allo scorrere del tempo.
Il secondo scopo che mi sono prefisso, è quello di “usarlo” (Lucio mi perdonerà perché lo faccio per una giusta causa) come testa di ponte per andare ad esplorare molta musica italiana prodotta negli ultimi anni, e proporla in alcuni podcast. Al di fuori dei “canali” tradizionali c’è tanta, tantissima musica meravigliosa prodotta nel nostro disastrato stivale. Sicuramente tre podcast non basteranno assolutamente e alla fine lascerò fuori qualcosa di splendido, ne sono consapevole, ma credo che proporre artisti italiani estremamente validi sia una cosa assolutamente necessaria.
Un grazie speciale va, come sempre, a Franz Andreani per la sua passione, la gestione di questa banda di pazzi e per la splendida riorganizzazione del sito già attiva da qualche anno. A cambiare non è stata solo la versione grafica del sito, ma anche la “filosofia” della podradio, con le rubriche che vanno ad integrarsi nella programmazione regolare sotto l’hashtag #everydaypodcast. Sulla nostra pagina Facebook troverete quotidianamente ogni upload e la nuova rubrica #theoriginaltoday curata dalla new entry Giusy Chiara Meli che racconta cosa accadde nella storia della musica rock. Da un anno è attivo anche lo splendido canale YouTube della Radio, una nuova formula senza interruzioni ne spot per ascoltare la vostra-nostra musica preferita. Iscrivetevi numerosi, vi aspettiamo!
Nel prossimo episodio di Sounds & Grooves troverete come promesso la prima parte del mio The Italian Pod. Saliranno a bordo di questo veicolo Made in Italy la ritrovata forza dirompente dei Fluxus, gli strappi lancinanti e scuri dei Butcher Mind Collapse, il maestoso post-math-rock degli Stearica, la psichedelia degli In Zaire, il nuovo fantastico e sciamanico album dei Deadburger Factory, la potenza evocativa dei Fuzz Orchestra, lo straordinario melting pot della Squadra Omega, il folk rivisitato degli Ask The White, la lucida follia matematica dei Vonneumann, il tocco di Xabier Iriondo e Stefano Pilia nell’improvvisazione sotto il nome di Cagna Schiumante, il viaggio verso la Luna e ritorno dei Larsen, lo splendido progetto Ant Lion, le magie sbilenche dei Blue Willa che avevano stregato Carla R. Bozulich, e il tocco alla Gastr Del Sol durato (ahimè) il tempo di un solo disco degli Å. Il tutto, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
Intanto se volete potete sfruttare la parte riservata ai commenti qui sotto per darmi suggerimenti, criticare (perché no), o proporre nuove storie musicali. Mi farebbe estremamente piacere riuscire a coinvolgervi nella programmazione e nello sviluppo del mio sito web.
Se volete ascoltare o scaricare il podcast, potete farlo anche dal sito della PodRadio cliccando sulla barra qui sotto. Buon Ascolto
TRACKLIST
01. THE SLEEPERS: When Can I Fly? da ‘Painless Nights’ (1981 –
Adolescent Records)
02. BRAINIAC: I Am A Cracked Machine da ‘Hissing Prigs In Static Couture’ (1996 – Touch And Go)
03. FURRY THINGS: Still California da ‘The Big Saturday Illusion’ (1995 – Trance Syndicate Records)
04. CUL DE SAC: Doldrums da ‘China Gate’ (1996 – Thirsty Ear)
05. JULIAN COPE: Reynard The Fox da ‘Fried’ (1984 – Mercury)
06. BUILT TO SPILL: Carry The Zero da ‘Keep It Like A Secret’ (1998 – Warner Bros. Records)
07. PONTIAK: Left With Lights da ‘Echo Ono’ (2012 – Thrill Jockey)
08. ALOHA: Saint Lorraine da ‘That’s Your Fire’ (2000 – Polyvinyl Record Company)
09. THE DREAM SYNDICATE: Tell Me When It’s Over da ‘The Days Of Wine And Roses’ (1982 – Ruby Records)
10. JERUSALEM IN MY HEART: A Granular Buzuk da ‘If He Dies, If If If If If If’ (2015 – Constellation)
11. MAN FOREVER: Twin Torches (with Laurie Anderson) da ‘Play What They Want’ (2017 – Thrill Jockey)
12. ROY HARPER: The Enemy da ‘Man & Myth’ (2013 – Bella Union)
13. ALDOUS HARDING: The Barrel da ‘Designer’ (2019 – 4AD)
14. LUCIO DALLA: Cara da ‘Dalla’ (1980 – RCA)