John Colpitts abbandona momentaneamente il moniker di Kid Millions con cui pesta forte i tamburi degli avant-rockers Oneida tornando a vestire per la quarta volta i panni di Man Forever. Mentre i tre precedenti lavori come “Uomo Persempre” erano stati tanto esplorativi quanto legati quasi esclusivamente a ridefinire i confini del suo complesso drumming, in “Play What They Want” il linguaggio del funambolico batterista si apre a nuove avventurose ricerche musicali grazie ad una serie di collaborazioni che riescono ad illuminare le tracce dell’album con alcune imprevedibili variazioni sul tema.
Non inganni il ritmo di bossanova con cui parte “You Were Never Here”, il brano viene subito impreziosito dagli Yo La Tengo al completo, che insieme ai lievi tocchi del pianoforte di Sam Yulsman e agli innesti precisi degli arpisti Brandee Younger e Mary Lattimore fanno decollare il tutto su un piano di percussiva trascendenza onirica. La successiva “Ten Thousand Things” vede una più preponderante partecipazione di quel fantastico trio di percussionisti chiamato Tigue (formato Matt Evans, Amy Garapic e Carson Moody) e della misurata ma imprescindibile arpista Mary Lattimore insieme al cantante Nick Hallett, per un magico intreccio di percussioni, voci ed arpa. “Debt And Greed”, brano scritto ed interpretato da Phil Manley, chitarrista dei Trans Am, chiude la prima facciata sorprendendo e mutando ancora direzione verso un pop trasversale e sghembo condotto da un impeccabile motorik percussivo e dal trombone di Ben Lanz (collaboratore tra gli altri di The National, Beirut, Sufjan Stevens).
Girando facciata ci troviamo subito immersi nelle atmosfere del capolavoro dell’album, l’evocativa “Twin Torches”. Una splendida composizione di 10 minuti che vede il contributo fondamentale del violino e della voce di una Laurie Anderson letteralmente in stato di grazia. Una cascata di suoni e di voci (grazie all’apporto della Quince Contemporary Vocal Ensemble) che si dirigono come laser verso mille direzioni diverse, trovando le sponde nel creativo e complesso drumming di Colpitt che insieme ai Tigue, li rimanda indietro a velocità doppia sotto lo spoken word dell’imperturbabile poetessa. Il cerchio si chiude con “Catenary Smile”, altro brano scritto insieme a Phil Manley, in cui il primitivismo soul si sposa perfettamente con le liriche che parlano della preoccupante tendenza di rendere umane le cose inanimate, con una pioggia di percussioni, di cori e del synth suonato dallo stesso Manley.
John Colpitts stavolta è riuscito a creare uno straordinario mutaforma dalle sfumature cangianti, un luogo dove ci si può smarrire felici anche nei vicoli più stretti, spinti dalla forza propulsiva della sua instancabile e avventurosa batteria. Il disco è assolutamente a consigliato, un must have per chi è costantemente alla ricerca di cose nuove, e di suoni inconsueti ed imprevedibili.