Le avventure in musica di Sounds & Grooves arrivano al 9° Episodio della 13° Stagione di RadioRock.TO The Original
Qualche novità ed il consueto viaggio a ritroso nel tempo fanno parte del menu di questo episodio di Sounds & Grooves
Sounds & Grooves arriva al 9° Episodio della 13° Stagione di www.radiorock.to, ed è per me a distanza di anni sempre meraviglioso registrare e dare un segnale di continuità con il passato, con quella meraviglia che Franz Andreani, Marco Artico, Massimo Di Roma, Flavia Cardinali, Gianpaolo Castaldo avevano creato e a cui, nel mio piccolo, ho provato a dare il mio contributo dal 1991 al 2000. La Radio Rock in FM come la intendevamo noi è sparita da due decenni, ma in questi 12 anni abbiamo cercato nel nostro piccolo di tenere accesa una fiammella, cercando di raddoppiarla, moltiplicarla, farla diventare un faro di emozioni e qualità musicale con tutta la passione e la voglia di fare radio che nonostante tutto non ci è mai passata. Non siamo una radio “normale”. Non solo perché trasmettiamo in differita e attraverso podcast registrati, ma soprattutto perché andiamo orgogliosamente musicalmente controcorrente rispetto a quella che è diventata la consuetudine delle emittenti radiofoniche al giorno d’oggi.
Nei 97 minuti di “Turn On The News” non troverete ancora la mia temutissima classifica del 2018 (vi rimando al prossimo Episodio), ma un altro curioso viaggio nel tempo. Ci sarà l’esordio degli Iron Maiden, disco che è stato la scintilla che ha acceso la mia curiosità musicale in età scolastica, e l’evoluzione del metal con i Tool. Troverete anche il ricordo di Grant Hart e la maturità dell’hardcore degli Husker Du, le evoluzioni canore di Mariam Wallentin con il progetto pop Mariam The Believer e le meraviglie in coppia con Andreas Werliin come Wildbirds & Peacedrums. Un piccolo sguardo indietro alla mia classifica 2017 con The Heliocentrics e Man Forever (Kid Millions degli Oneida sotto mentite spoglie), che lancia in orbita una Laurie Anderson monumentale. E ancora le meraviglie di Paolo Spunk Bertozzi da solo e con i 2Hurt, l’esordio lontano della grande orchestra Lambchop, le invernali ambientazioni scozzesi di Arab Strap e Frightened Rabbit ricordando Scott Hutchinson. Il tutto, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
Lunga vita a RadioRock The Original. #everydaypodcast
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Prima di partire con questo viaggio in musica potete effettuare il download del podcast anche nella versione a 320 kb/s semplicemente cliccando sul banner qui sotto.
In età scolastica una audiocassetta prestata da un compagno di classe è stata la scintilla che ha definitivamente acceso la mia curiosità musicale. Quel riff di chitarra che apriva la cassetta era così diverso da quello che ascoltavo all’epoca, ed è stato capace di scardinare un’intera parete facendomi passare in una nuova e diversa dimensione. Quel disco era l’esordio di un gruppo britannico che poi passerà alla storia come uno dei più famosi e longevi gruppi di Heavy Metal: gli Iron Maiden. Il gruppo nacque nel 1975 a Leyton, un quartiere situato a est di Londra, grazie al bassista Steve Harris, che aveva già militato in gruppi come Gypsy’s Kiss e Smiler. Nel clima musicale dell’epoca, dominato dal punk, ebbero inizialmente molte difficoltà a trovare spazio. La loro grande occasione per farsi conoscere venne dal Ruskin Arms, uno dei pochi locali londinesi che proponeva musica dal vivo hard rock. Oltre alla musica, la band ha sempre curato molto anche la propria scenografia, in quanto i loro concerti erano spesso accompagnati da effetti pirotecnici. In questo periodo, fece una delle prime comparse “Edward the Head”, una creatura dalle sembianze mostruose successivamente conosciuta come Eddie, la quale sarebbe divenuta la loro famosa mascotte ufficiale, presente in tutte le copertine dei dischi e dal vivo in diverse sembianze.
Gli Iron Maiden si scontrarono con le ostilità delle case discografiche che, in quel periodo, producevano soprattutto gruppi punk, tant’è che gli fu proposto di cambiare genere. Nonostante tutto i loro sforzi furono premiati riuscendo a convincere la EMI a firmare un contratto che gli permise di far uscire il loro album di debutto, che tuttora rappresenta un’importante tappa della nascente New Wave of British Heavy Metal. Il disco fu registrato in soli 13 giorni nel gennaio del 1980 presso i Kingsway Studios londinesi. La formazione della band all’epoca vedeva oltre ad Harris, il cantante Paul Di’Anno, il batterista Clive Burr, il chitarrista Dave Murray e l’altro chitarrista Dennis Stratton, che lasciò la band per divergenze musicali pochi mesi dopo l’uscita del disco, sostituito da Adrian Smith. “Prowler” è il primo brano del disco, l’inizio di una leggenda.
Sicuramente i Tool non sono stati mai troppo prolifici, ma stavolta hanno davvero superato i limiti. Sono passati ormai ben 13 anni dall’uscita di 10.000 Days ma nemmeno il ritorno degli A Perfect Circle ha saputo placare la voglia dei fans di ascoltare nuova musica da parte del combo californiano. L’attesa sta per finire, visto che l’uscita di Fear Inoculum è stata finalmente programmata per il 30 agosto. La band di Maynard James Keenan ha sempre avuto una sua precisa identità ed è stata capace di progredire disegnando una nuova via per il metal, finalmente lontana dai cliché del genere aggiungendo una notevole energia psichedelica ed un’attitudine visionaria di grande impatto. Non so chi di voi era presente al Palaghiaccio di Marino nel giugno del 2006, ma onestamente è stato uno dei concerti più deludenti mai visti, per la brevità della setlist e per l’attitudine non propriamente coinvolgente del frontman. In ogni caso sono tra i pochissimi gruppi provenienti da quell’area sonora ad aver creato qualcosa di davvero originale ed importante. Se con ogni probabilità Lateralus è stato il loro apice creativo, Ænima è stato l’album della svolta e quello cui sono più legato affettivamente. “H.” è solo uno dei capolavori del disco.
Grant Hart, co-fondatore e batterista degli Hüsker Dü ci ha lasciato nel 2017 a 56 anni. Hart aveva formato gli Hüsker Dü insieme a Bob Mould e Greg Norton nel 1979 dando una nuova connotazione al punk, mantenendo l’urgenza dell’hardcore, ma allo stesso tempo imprimendo una svolta melodica ed introspettiva, rendendo la band estremamente attuale e avendo un impatto notevole sui giovani negli anni ’80. La band, e nello specifico Hart come batterista, è spesso citata come influenza da moltissimi musicisti, come ad esempio l’ex batterista dei Nirvana e attuale frontman dei Foo Fighters, Dave Grohl. Dopo lo scioglimento della band aveva formato i Nova Mob dove suonava la chitarra accompagnato da Michael Crego alla batteria e Tom Merkl al basso. La sua carriera solista non è stata molto prolifica, solo quattro gli album in studio registrati da Hart. L’ultimo è uscito nel 2013 e si intitola The Argument. La gestazione del disco è stata complessa ed ambiziosa ma gli ha permesso di ritrovare quell’ispirazione limpida che per molti anni lo aveva abbandonato. Durante un incontro con James Grauerholz, segretario personale di William S. Burroughs, gli viene mostrato uno scritto inedito basato sul Paradiso Perduto di Milton, ma trasfigurato dalla poetica visionaria di Burroughs, suggerendogli che sarebbe stato perfetto per un nuovo album. Grant, ammaliato dai quei racconti di angeli caduti e trasformatisi in alieni ribelli nei confronti di un Dio che prende le sembianze del presidente Truman, non ci pensa un secondo e, aggiungendovi elementi di disturbante attualità, confeziona un disco straordinario. Un lavoro curato in maniera maniacale, probabilmente il concept album più ambizioso dai tempi di Zen Arcade degli Hüsker. La struggente ed accorata ballata “I Will Never See My Home” è solo una piccola parte di un’opera che, nonostante la lunghezza, riesce a non annoiare mai.
Come detto, la notizia della morte di Grant Hart è stata devastante. La sua band ha davvero segnato un’epoca. Gli Hüsker Dü si sono sciolti alla fine degli anni 80. Da quel momento in poi i tre membri della band (il cantante/chitarrista Bob Mould, il batterista Grant Hart, ed il bassista Greg Norton) hanno fatto vite completamente separate, anche se un anno fa era stato pubblicato un nuovo sito di merchandising ufficiale, che aveva fatto pensare ad una reunion che avrebbe avuto del clamoroso. La band di Minneapolis era sempre in bilico tra la cupa introspezione di Mould e la spavalderia di Hart, che si spartivano da (quasi) buoni fratelli la scrittura delle tracce dei dischi. Zen Arcade è stato un disco epocale, un doppio concept album nell’era dell’hardcore, 23 brani dove ci sono tutti gli estremi, cervello e cuore, melodia e rumore, la ricerca di se stessi in un monolite che non è mai stato prima così intimo e spettacolare. “Turn On The News” è la classica cavalcata spettacolare firmata proprio da Hart.
Paolo “Spunk” Bertozzi è stato un personaggio di grande importanza per la scena underground romana con i suoi indimenticabili Fasten Belt, band di culto tra punk e psichedelia attivissima per un decennio tra il 1985 ed il 1995. Grazie all’incontro con la violinista Laura Senatore, Bertozzi si è saputo reinventare dopo un decennio di silenzio, creando i 2Hurt, una nuova entità che, pur mantenendo la psichedelia come mood di fondo, andava ad esplorare la musica di frontiera, il folk, il Paisley e l’americana tout court. In un momento difficile della sua vita personale dopo la perdita della mamma, Paolo si è preso un momento di pausa dalla sua creatura, immergendosi nella scrittura del suo primo album solista. Fairies Sprinkle Magic Dust è un album uscito per la sua etichetta, la Lostunes Records, dove Paolo suona tutti gli strumenti dimostrando grande sensibilità di autore e grande capacità compositiva. Il disco, uscito sotto il nome di Spunk!, è un viaggio attraverso il dolore, il cielo e le stelle. “Floating Through The Stars” è uno dei brani più evocativi, perfetto per catturare lo spleen del disco.
Dopo aver ascoltato il disco solista di Spunk!, mi è venuta voglia di rimettere sul piatto quello che è probabilmente l’album della maturità dei 2Hurt. On Bended Knee è uscito nel 2014 e, anche ascoltandolo a distanza di anni, riesce ad accarezzare il cuore di chi ama la musica di frontiera, l’americana tout court ed un certo tipo di folk intriso di psichedelia. La band romana ci fa indossare un paio di logori e polverosi stivali per macinare chilometri di strade blu fino al confine con il Messico ed oltre. Un album di grande rock italiano, anche se intriso di umori americani. Il lavoro non deve essere stato facile da assemblare, con il cuore e la mente rivolta a chi non c’è più (principalmente a Claudio Caleno, storico cantante dei Fasten Belt, scomparso nel gennaio del 2012), ma che proprio dalla sofferenza ha saputo graffiare, affascinare e sedurre, un album tanto malinconico quanto frenetico suonato con passione, sangue e sudore.
Un gruppo di grande spessore e talento che, purtroppo, non è ancora conosciuto come sicuramente meriterebbe. Il consiglio è di andare a recuperare il materiale precedente, troverete pane per i vostri denti. Il brano scelto è la mid-tempo “Black Coffee”. Il brano, scritto dal chitarrista acustico Roberto Leone, è tanto equilibrato quanto trascinante, con un centrale assolo di chitarra estremamente sofferto ed uno strepitoso lavoro della poderosa sezione ritmica formata dalla batteria di Marco Di Nicolantonio (anche lui presente nel nucleo storico dei Fasten Belt) e dal basso di Giancarlo Cherubini, per non parlare dello strabiliante ed inquieto violino di Laura Senatore i cui intrecci con gli strumenti “classici” del rock sono il marchio di fabbrica che rende il sound dei 2Hurt perfettamente riconoscibile.
Mariam Wallentin è una delle voci più belle, duttili, potenti ed espressive del panorama europeo. La ragazza di Goteborg non si limita ad essere metà del progetto Wildbirds & Peacedrums insieme al marito Andreas Werliin, ma collabora sempre più spesso con il combo avant-jazz Fire! Orchestra, ha dato il suo apporto fondamentale all’ultimo (purtroppo) album in studio degli psych-rockers svedesi The Skull Defekts, e ha fatto uscire la sua anima melodica e pop nel suo progetto solista Mariam The Believer. Dopo l’album di esordio Blood Donation uscito nel 2014, la Wallentin ha raddoppiato tre anni più tardi con Love Everything, dove fortunatamente accorcia la durata del disco a favore di un suono più incisivo e meno pomposo. Le inconfondibili percussioni del marito non mancano di certo, ma insieme a tamburi e piatti ecco apparire anche chitarre, (tra cui la Gibson che appare nell’orribile copertina del disco di esordio), tastiere, strumenti a fiato e i cori, mai invasivi ma spesso capaci di arricchire ancor di più il suono. La splendida “Bodylife” dimostra ancora una volta che la sua controparte The Believer è in grado di padroneggiare con disinvoltura il vocabolario pop.
La coppia nella vita e sul palcoscenico Andreas Werliin e Mariam Wallentin con il nome di Wildbirds & Peacedrums, ha saputo conquistarmi da subito: l’approccio tanto scarno quanto nuovo dei due studenti di teatro e musica di Goteborg, con la voce di lei abile a cambiare tonalità espressiva, riuscendo ad essere tanto seducente quanto sanguigna, e le percussioni di lui a riempire ogni spazio in un caleidoscopio voce-ritmo da togliere il fiato. Un primitivismo folk-blues spogliato da ogni orpello, proiettato al confine con il pop senza però mai attraversarlo del tutto, solo per voce e percussioni con il solo ausilio di xilofoni ed organetti e con quegli svolazzi orientaleggianti a fare capolino (retaggio dell’origine siriana di Mariam) che hanno sempre reso il piatto speziato ed unico. E mentre pensavo che i due fossero tropo presi dai loro progetti alternativi, dal maelstrom avant-jazz del collettivo Fire! Orchestra alle velleità pop di Mariam The Believer, ecco che a sorpresa tornano insieme spiazzando e colpendo al cuore con lo splendido (ancora una volta) Rhythm da cui ho estratto l’incredibile “Gold Digger”.
Scott Hutchison era un artista che possedeva una sensibilità particolare. Quella istintività rabbiosa capace di stemperarsi in un indie rock in bilico tra folk e post-punk, urlato e depresso. Quell’urgenza emotiva triste ed incazzata che sembra essere prerogativa di molti gruppi del nord della Gran Bretagna, dai Mogwai agli Arab Strap. Il 30 luglio del 2008 i Frightened Rabbit si esibiscono in una performance acustica del loro album appena uscito, The Midnight Organ Fight, sul piccolo palco del The Captain’s Rest di Glasgow. Ad ascoltarli c’è l’amico James Graham dei The Twilight Sad, pronto a salire on stage con loro per una splendida, intima ed emozionante versione di “Keep Yourself Warm”. Il concerto finirà su un disco chiamato Quietly Now!. Fatevi un piacere, trovatelo, assaporatelo. Ascolterete un frontman divertente, talentuoso, capace di parlare e cantare con una sincerità spiazzante e quasi brutale davanti ad un pubblico piccolo ma rumoroso e appassionato. Hutchison non era una rockstar famosa, non era un Chris Cornell e probabilmente tra pochi mesi o anni verrà quasi del tutto dimenticato. I Frightened Rabbit sono sempre stati un piccolo gruppo di culto, quasi sconosciuto al di fuori di una ristretta cerchia di appassionati e dopo la morte di Scott non esistono più. Ma conoscevano eccome l’arte di scaldare il cuore. Le pennate rabbiose, quella voce dolce e rabbiosa, triste e problematica, quella musica che ti entrava nelle ossa come la fitta e fredda pioggia scozzese. Uno sguardo sulle highlands, il mare in tempesta, la solitudine degli spazi, la fragilità che vigliacca ti colpisce, ti morde il cuore, ti prende l’anima, ti porta via in cerca di una ipotetica ed effimera pace.
“It takes more than fucking someone
You don’t know to keep warm
Did you really think that a fuck at half speed
You’ll find your love in a hole?”
Scott adesso non c’è più. I suoi demoni e la sua intima fragilità e sensibilità ce lo hanno portato via. Ne sappiamo qualcosa. Abbiamo amato e abbiamo sofferto nel corso degli anni per i vari Nick Drake, Tim Buckley, Mark Linkous, Elliott Smith o Vic Chesnutt. La canzone che ho scelto per questo podcast è proprio quella “Keep Yourself Warm” che Hutchison e Graham avevano condiviso 10 anni prima in quella festosa serata in un fumoso pub scozzese, ebbri di gioia. Adesso il Captain’s Rest non esiste più. Al suo posto che un altro pub, il Munro’s, mentre dall’altra parte della Great Western Road della grigia città industriale scozzese c’è ancora il The Hug And Pint, locale che ha preso il nome dal disco degli Arab Strap del 2003 Monday at the Hug & Pint. Goodbye mate, I will miss you.
Visto che abbiamo parlato di Scozia, nel 1998 l’uscita di Philophobia degli Arab Strap gettò nel caos la piccola comunità scozzese di Falkirk. Alcuni piccoli e grandi segreti di alcuni dei 35.000 abitanti della città posizionata nella Forth Valley furono messi clamorosamente in piazza in maniera nuda, scarna, lenta e sofferta dalla voce narrante di Aidan Moffat e dagli arpeggi di Malcolm Middleton. L’esordio del duo scozzese è formato da canzoni malinconiche che narrano di debolezze quotidiane, di sbornie, scopate e tradimenti. Canzoni che riescono ad arrivare dritte allo stomaco anche dopo tutti questi anni, visto che il disco è del 1998 e lo scioglimento del sodalizio scozzese risale al 2006. “New Birds” è un perfetto esempio di come il duo riusciva ad entrare emotivamente sottopelle narrando in maniera cinica ed emotiva la cruda realtà della vita di provincia. Nonostante i dischi solisti dei due ci abbiano regalato qualche gioia, continua a mancare quella miscela di cinismo e sentimento, di depressione ed ironia che nella loro fortunata carriera insieme hanno saputo quasi sempre regalarci.
I Lambchop sono un gruppo attivo da ben 30 anni, che riesce anno dopo anno ad essere incredibilmente sempre unico pur cambiando ogni volta. Solo quel diavolo di Kurt Wagner, con la sua capacità di scrivere canzoni meravigliosamente senza tempo poteva farmi apprezzare addirittura una delle invenzioni più atroci della storia della musica: il vocoder, usato sia nel 2016 in FLOTUS (acronimo di For Love Often Turns Us Still), che nel 2019 nell’ultimo This (Is What I Wanted To Tell You), dove il nostro riesce a spargere emozioni pur flirtando in modo evidente con l’elettronica glitch. La maestria assoluta di Wagner nella scrittura di splendenti meraviglie, tra bassi pulsanti, archi sospesi nel cielo e il pianoforte a tinteggiare il tutto era già evidente nel 1994, quando esce l’album di esordio della sua creatura. I Hope You’re Sitting Down ci mostra un combo già allargato a circa 10 elementi, capace di prendere le radici country della loro città natale (Nashville) e declinarle in chiave neoclassica e orchestrale. “Let’s Go Bowling” è una splendida ballata che mostra già dall’inizio il talento di una delle bands che ha saputo più delle altre mantenere nel corso degli anni un incredibile livello qualitativo pur nella sua prolificità.
John Colpitts un paio di anni fa ha abbandonato momentaneamente il moniker di Kid Millions con cui pesta forte i tamburi degli avant-rockers Oneida, per tornare a vestire per la quarta volta i panni di Man Forever. Play What They Want (leggi la recensione) è uno straordinario mutaforma dalle sfumature cangianti, un luogo dove ci si può smarrire felici anche nei vicoli più stretti, spinti dalla forza propulsiva della sua instancabile e avventurosa batteria. Inutile dire che il disco è assolutamente consigliato. Un must have per chi è costantemente alla ricerca di cose nuove, e di suoni inconsueti ed imprevedibili. Mettendo la puntina all’inizio della seconda facciata del disco, veniamo immersi nelle atmosfere del capolavoro dell’album, l’evocativa “Twin Torches”. Una splendida composizione di 10 minuti che vede il contributo fondamentale del violino e della voce di una Laurie Anderson letteralmente in stato di grazia. Una cascata di suoni e di voci (grazie all’apporto della Quince Contemporary Vocal Ensemble) che si dirigono come laser verso mille direzioni diverse, trovando le sponde nel creativo e complesso drumming di Colpitt che insieme ai Tigue, li rimanda indietro a velocità doppia sotto lo spoken word dell’imperturbabile poetessa.
Laurie Anderson è un’artista a 360 gradi. La sua visione artistica l’ha portata ad avere successo sia nell’arte visuale che nella musica, spesso abbracciando le due arti insieme. la sua frequentazione delle scuole di avanguardia newyorchese negli anni ’70 insieme al suo talento l’hanno portata ad esordire con un progetto estremamente ambizioso, United States: cinque ore di musica di avanguardia che attingono dall’avanguardia al teatro, il tutto supportato da una spiccata propensione alla coscienza politica e alla poesia urbana. Nel 1982 la Anderson pubblica il suo capolavoro, Big Science. Il disco, trainato dal singolo (!) “O Superman”, colpisce pubblico ed addetti ai lavori per l’uso della tecnologia, dei synth, del suo violino digitale e per i mille effetti con cui riesce a modificare la propria voce. Per il podcast ho scelto la title track, sorretta da un elettronica solenne e da uno splendido scheletro percussivo su cui la Anderson alterna meravigliosamente cantato e spoken word.
Chiudiamo il podcast con suoni che non trovano spazio spesso su queste pagine. È sempre un viaggio emozionante quello del collettivo The Heliocentrics guidato dal batterista Malcom Catto. Il combo britannico continua nel loro percorso evolutivo, un flusso estatico, ipnotico, che l’ha portato ad unire in uno straordinario melting pot jazz, psichedelia, funk, afro, dub e musica etnica. Nel loro ultimo lavoro in studio, A World Of Masks, gli innesti del violino di Raven Bush, di una nuova sezione addizionale di fiati, e soprattutto della voce della cantante d’origine slovacca Barbora Patkova, hanno dato un’ulteriore poderosa spinta al suono del gruppo. La voce della Patkova è una nuova base su cui costruire le caleidoscopiche alchimie sonore del collettivo, sempre più multiformi, in un groove trascendente che abbraccia tutte le possibili latitudini, come dimostra l’apertura di “Made Of The Sun”.
Un grazie speciale va, come sempre, a Franz Andreani per la nuova veste grafica attiva già dallo scorso anno. A cambiare non è solo la versione web2.0 del sito, ma anche la “filosofia” della podradio, con le rubriche che vanno ad integrarsi nella programmazione regolare sotto l’hashtag #everydaypodcast. Tutte le novità le trovate sempre aggiornate in tempo reale sulla nostra pagina Facebook.
Nel 10° Episodio di Sounds & Grooves troverete la prima parte della temutissima classifica dei migliori dischi del 2018 secondo il giudizio insindacabile della redazione di Sounds & Grooves…che poi sarei io. 🙂 In quasi 100 minuti di musica andremo ad ascoltare le posizioni dalla 30° alla 16° dove troverete ii suoni più “classici” di E, Parquet Courts, Shame, Reverend Horton Heat e Ty Segall, e quelli più complessi di Dwarfs of East Agouza, Young Mothers, Heather Leigh. Passando per la (quasi) disco music in chiave funk-kraut dei Cave, le sonorità cupe di Wrekmeister Harmonies e Skull Defekts, l’inaspettato ritorno dei Wingtip Sloat, l’eccitante suono dei Moon Relay e l’eleganza di Neneh Cherry. Il tutto, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
Intanto se volete potete sfruttare la parte riservata ai commenti qui sotto per darmi suggerimenti, criticare (perché no), o proporre nuove storie musicali. Mi farebbe estremamente piacere riuscire a coinvolgervi nella programmazione e nello sviluppo del mio sito web.
Se volete ascoltare o scaricare il podcast, potete farlo anche dal sito della stessa PodRadio cliccando sulla barra qui sotto. Buon Ascolto
TRACKLIST
01. IRON MAIDEN: Prowler da ‘Iron Maiden’ (1980 – EMI)
02. TOOL: H. da ‘Ænima’ (1996 – Zoo Entertainment)
03. GRANT HART: I Will Never See My Home da ‘The Argument’ (2013 – Domino)
04. HÜSKER DÜ: Turn On The News da ‘Zen Arcade’ (1984 – SST Records)
05. SPUNK!: Floating Through The Stars da ‘Fairies Sprinkle Magic Dust’ (2018 – Lostunes Records)
06. 2HURT: Black Coffee da ‘On Bended Knee’ (2014 – Lostunes Records)
07. MARIAM THE BELIEVER: Bodylife da ‘Love Everything’ (2017 – Repeat Until Death)
08. WILDBIRDS & PEACEDRUMS: Gold Digger da ‘Rhythm’ (2014 – Repeat Until Death)
09. FRIGHTENED RABBIT: Keep Yourself Warm da ‘The Midnight Organ Fight’ (2008 – FatCat Records)
10. ARAB STRAP: New Birds da ‘Philophobia’ (1998 – Chemikal Underground)
11. LAMBCHOP: Let’s Go Bowling da ‘I Hope You’re Sitting Down’ (1994 – City Slang)
12. MAN FOREVER: Twin Torches (feat. Laurie Anderson) da ‘Play What They Want’ (2017 – Thrill Jockey)
13. LAURIE ANDERSON: Big Science da ‘Big Science’ (1982 – Warner Bros. Records)
14. THE HELIOCENTRICS: Made Of The Sun da ‘A World Of Masks’ (2017 – Soundway)