Le avventure in musica di Sounds & Grooves continuano nella 14° Stagione di RadioRock.TO The Original
In questo episodio di Sounds & Grooves troverete una esplosiva miscela di post-rock, psichedelia, e altre meraviglie
Sono davvero felice di essere tornato, con Sounds & Grooves, ad arricchire il palinsesto della 14° Stagione di www.radiorock.to. A volte c’è la necessità di fermarsi un attimo, riflettere sugli sbagli che abbiamo commesso, fare uno o più passi indietro, capire le cose che contano davvero nella vita e ripartire con tutto l’entusiasmo possibile di una nuova vita, di una nuova opportunità che non deve essere sprecata. E in questo ho avuto l’incredibile fortuna di avere accanto una persona assolutamente meravigliosa ed unica che non smetterò mai di ringraziare e di amare.
A pensarci è pazzesco che sia passato già così tanto tempo da quando abbiamo iniziato questa fantastica avventura di radiorock.to per dare un segnale di continuità con il passato, con quella meraviglia che Franz Andreani, Marco Artico, Flavia Cardinali, Massimo Di Roma, Michele Luches, Aldo Semenuk, Giampiero Crisanti, Gianpaolo Castaldo avevano creato e a cui, nel mio piccolo, ho provato a dare un contributo dal 1991 al 2000. Sappiamo tutti benissimo che la Radio Rock in FM come la intendevamo noi è sparita da almeno due decenni, ma in tutti questi anni di podcast sul web abbiamo cercato di tenere accesa quella fiammella per poi tentare di raddoppiarla, moltiplicarla, farla diventare un faro di emozioni e qualità musicale. Perché la passione e la voglia di fare radio, la voglia di ascoltare e di condividere la musica di qualità, nonostante tutto, non ci è mai passata.
Non siamo una radio “normale”. Non solo perché trasmettiamo in differita e attraverso podcast registrati, ma soprattutto perché andiamo orgogliosamente musicalmente controcorrente rispetto a quella che è diventata la consuetudine delle emittenti radiofoniche al giorno d’oggi. Continuiamo orgogliosamente a cercare quella libertà in musica che nell’etere sembra essere diventata una mosca bianca, quella passione per la condivisione, per la ricerca, per l’approfondimento. Non dobbiamo aderire per forza ad una cieca linea editoriale che privilegia il commercio, ma ci lasciamo guidare semplicemente dal nostro cuore e dalla nostra passione.
Questo podcast è stato registrato, come succede da qualche mese a questa parte, con uno stato d’animo particolare. In questi giorni abbiamo, chi più chi meno, ripreso una vita quasi normale, me probabilmente ci muoviamo fuori di casa con grande circospezione, in una sorta di ottovolante in cui si alternano preoccupazione e speranza per questo nemico silenzioso che sembra poter essere ancora intorno a noi. Il mio pensiero va alle persone che sono state colpite duramente dal lockdown, a chi non c’è più, a chi ha combattuto questo nemico silenzioso in prima linea con grandi sacrifici, a chi sta lottando davvero con forza per riappropriarsi della propria vita, a chi è stato costretto a reinventarsi. Spero davvero che stavolta lo stato (utopia, lo so, vista la “statura” morale della nostra classe politica) possa riuscire a far ritrovare la propria identità ad un popolo così duramente colpito negli affetti, nelle strutture, nel lavoro e nel quotidiano. La musica ha spesso il potere terapeutico di guarire le anime, lenire in qualche modo il dolore, come una pozione magica, un incantesimo primordiale, facendoci fare viaggi immaginari di enorme suggestione emotiva.
Viaggi come quello che vi propongo in questo podcast, dove troverete il post-rock anni ’90 di Slint, Tortoise e Amp, quello britannico dei Disco Inferno e quello italico odierno con i grandissimi Stearica, la liquida psichedelia di Kandodo e Valet, l’eleganza dei Sea And Cake, il meraviglioso calderone di stili che hanno reso immortali i Minutemen, le suggestioni sonore di Talking Heads e Monochrome Set, il songwriting maturo di Marissa Nadler le orchestrazioni dei Mercury Rev ed il reggae acustico e sussurrato di un artista meraviglioso come Bim Sherman. Il tutto, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
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Prima di partire con questo viaggio in musica potete effettuare il download del podcast anche nella versione a 320 kb/s semplicemente cliccando sul banner qui sotto.
Sono felice di iniziare il podcast condividendo musica italiana e soprattutto di parlarvi di un gruppo che mi sta particolarmente a cuore. C’è una rivista di riferimento per il movimento musicale britannico, si chiama The Wire. È un magazine che non solo ha tra le sue fila giornalisti e musicisti estremamente competenti, ma va ad esplorare una vastissima gamma di suoni, pescando in ogni genere di underground. Tanto per intenderci, The Wire è stato anche il magazine sulle cui pagine è stato codificato il concetto di post-rock in un famoso articolo scritto nel maggio del 1994 da uno dei critici musicali più competenti ed influenti degli ultimi anni, Simon Reynolds. Il post-rock descritto e codificato da Reynolds era quello tipicamente britannico dell’epoca, associato a band come Bark Psychosis, A.R. Kane e Disco Inferno e a label come la Too Pure. Solo successivamente il termine è stato allargato facendo confluire suoni e band estremamente diverse tra loro come Tortoise e Slint di cui parleremo tra poco. Ogni quattro mesi, i fortunati abbonati del mensile trovano allegato alla rivista un CD chiamato The Wire Tapper: una specie di antologia del meglio della musica underground proposta dal magazine. Ebbene, nella storia del magazine britannico, c’è stata solo una band italiana che è stata inclusa per ben due volte in questi CD: gli Stearica.
Sin dalla formazione, il trio torinese è dedito ad una profonda ricerca sonora ed emotiva. Il loro slancio empatico li ha sempre portati più ad un contatto diretto con pubblico ed addetti al lavori tramite la dimensione live, che alla registrazione in studio. Con soli 2 album in oltre 20 anni di attività, non si può dire che il trio abbia inflazionato il mercato discografico. Insomma, per chi non l’avesse ancora capito, il chitarrista Francesco Carlucci insieme ai suoi due compagni di avventura Davide Compagnoni (batteria) e Luca Paiardi (basso), sono sempre andati controcorrente rispetto alle tendenze italiche che vedono la necessità di proporre suoni che possano tranquillizzare e sedare gli ascoltatori ed i fruitori di musica. La loro partecipazione al Primavera Sound del 2011 ha acceso la prima miccia per la registrazione del loro secondo album. Il contatto con la rivolta degli Indignados spagnoli, insieme alle rivolte tra medio oriente e Nord Africa della cosiddetta Primavera Araba che riempivano i televisori quando il gruppo stava iniziando la pre-produzione del nuovo album, hanno fornito al gruppo un combustibile potente. Vedere persone così diverse combattere con grande forza ed intensità per i propri diritti ha ispirato il trio a veicolare quell’energia tramite i loro strumenti. Proprio la zona delle rivolte, la cosiddetta Fertile Crescent, ha ispirato anche il titolo dell’album.
Fertile è un disco con un suono scuro e potente ma illuminato allo stesso tempo dalla luce delle candele. L’immaginario è fondamentale in un album quasi interamente strumentale, e i tre torinesi riescono a maneggiarlo con maestria come in “Geber”, dove dipingono magie su un cielo stellato, piazzando un’alternanza perfetta tra montagne di suono e pianure melodiche nella seconda metà del brano. La band è chirurgica nel collocare brevi pause per aumentare la tensione, e farla poi sciogliere fragorosa con potenti riff di chitarra e aperture melodiche. Le loro coordinate sonore sono ben chiare, un maestoso e personale crocevia tra post e math-rock, stoner e psichedelia. Insomma, se non lo avete ancora capito, gli Stearica sono una band di livello assolutamente internazionale, che se la gioca con tutti ad armi pari sui palcoscenici di tutta Europa, cui riesco a trovare un unico difetto: hanno pubblicato troppa pochi dischi, e della loro musica, in Italia (e non solo), abbiamo un dannato bisogno.
«Sfortunatamente ‘Spiderland’ è il canto del cigno degli Slint, che come tanti gruppi non hanno saputo resistere alle pressioni interne tipiche della vita di ogni band. Ma è un disco fantastico, che chiunque sappia ancora farsi coinvolgere dalla musica rock non dovrebbe perdere. Tra dieci anni sarà una pietra miliare e bisognerà fare a botte per comprarne una copia. Battete tutti sul tempo»
Così scriveva profeticamente Steve Albini sul Melody Maker (il più antico magazine musicale del mondo, che dal 2000 in poi si è unita con il NME diventando da pochi anni una pubblicazione esclusivamente online), ed aveva perfettamente ragione. Spiderland degli Slint, dopo essere uscito quasi sottotraccia nel 1991, sarà presto travolto dall’onda in piena del grunge. Il tempo fortunatamente saprà essere galantuomo, e l’album resterà sempre lì, a galla, come i componenti del gruppo nella famosa foto di copertina scattata da Will “Bonnie Prince Billy” Oldham. Spiderland saprà essere a suo modo estremamente influente nei suoni a venire, per il suo modo di scardinare tutti i dogmi del rock così come era conosciuto fino a quel momento: dall’abbattimento della strofa-ritornello al cantato recitativo apparentemente privo di emozione. I timbri armonici della chitarra di David Pajo, il contrappunto dell’altra chitarra di Brian McMahan (ex Squirrel Bait), la batteria ottundente e matematica di Britt Walford, l’ipnotico basso di Todd Brashear e la voce dello stesso McMahan a cucire il tutto, ora recitativa, ora isterica. Ascoltate “Washer” per essere trasportati all’interno del vortice di un suono che sarà di fondamentale importanza per il rock degli anni ’90.
Come gli Slint, anche i Tortoise sono stati uno dei gruppi più importanti di quella scena vitale chiamata post-rock, che aveva le sua grandi direttrici in Chicago e Louisville. Nati proprio nella windy city dalle ceneri di bands come Squirrel Bait, Bastro, Slint, Bitch Magnet, sono stati capaci di prendere varie suggestioni rock, elettroniche, dub, e farle confluire in un suono “altro” che comprendeva anche i benefici influssi delle due scene più interessanti e creative degli anni ’70, la scena di Canterbury da una parte ed il kraut-rock dall’altra. In quel periodo riprese vita l’underground vero, come negli ultimi anni ’60: quello coraggioso e quasi sovversivo. C’è la riscoperta del jazz elettrico di Miles Davis, della ritmica spigolosa dei Can e quella motoristica dei Neu!. Ci sono le convulsioni melodiche dei Faust (che saranno rilanciati negli anni ’90 proprio da Jim O’Rourke) e le lunghe suite dei Popol Vuh. E’ una sorta di nuova grammatica del rock.
La band si è formata all’inizio degli anni ’90 grazie all’incontro tra il bassista Doug McCombs (proveniente dagli Eleventh Dream Day) e del batterista John Herndon, entrambi interessati alla sperimentazione sul ritmo. In realtà il progetto originario era quello di una formazione a due, ma per veicolare meglio le loro idee di sperimentazione, ai due si unirono il batterista John McEntire e il bassista Bundy K. Brown, entrambi provenienti dall’esperienza Bastro, seguiti dal percussionista Dan Bitney. Nel 1993, dopo aver firmato con la Thrill Jockey, pubblicarono il primo singolo, seguito, l’anno successivo, dal primo album autointitolato, dove la band mostrava tutto la proprio abilità negli incastri compositivi accompagnata da una notevole perizia tecnica mai fine a se stessa. Ascoltate “Ry Cooder” per ritrovare al massimo dello splendore una della band cardine degli anni ’90.
All’inizio degli anni ’90 Richard Walker insieme a David Pearce, Matt Elliott e Matt Jones aveva formato una sorta di collettivo mutante dedito all’esplorazione dei suoni in quel terreno minato compreso tra lo shoegaze e il trip-hop. Il loro tentativo di immaginare un nuovo approccio alla musica produsse un suono compresso tra echi di feedback, droni e altre manipolazioni elettroniche. Il collettivo si divise in varie sigle tra cui Flying Saucer Attack, Crescent, Third Eye Foundation, Movietone e Amp. Proprio questi ultimi, gli Amp, furono la creatura di Walker che si ribattezzò per l’occasione Richard Amp.
La sua collaborazione con la cantante francese Karine Charff portò la band all’uscita del primo album Green Sky Blue Tree nel 1992. Sei anni più tardi gli Amp fecero uscire un album intitolato Stenorette. Il disco, prodotto da quel genialoide di Robert Hampson (mente dietro le meraviglie dei Loop e dei Main), venne pubblicato dall’etichetta Kranky, una garanzia per quelle coordinate sonore (basti pensare ai Labradford), e miglior lavoro mai pubblicato dal duo. “Tango Non” con il suo passo cadenzato, mostra le coordinate sonore del gruppo, sospese tra una percussività elegante, echi trip-hop, droni cavernosi e desolati rintocchi di pianoforte.
i The Heads sono stati un patrimonio importante della psichedelia inglese degli anni ’90. Band bristoliana di culto, hanno saputo scrivere pagine importanti di un suono capace di tendere allo spazio ampliandone i limiti. Simon Price, uno dei due chitarristi della band insieme a Paul Allen (adesso leader degli Anthroprophh), ha intrapreso dal 2012 un viaggio solista nascosto dietro al moniker di Kandodo. Una psichedelia liquida, con le chiatrre e i droni del padrone di casa capaci di creare un’atmosfera lisergica. Paesaggi dilatati che ci appaiono magici, protesi verso un orizzonte ideale in fondo ad un mare sconfinato che lo stesso Price ci mostra sulla copertina di K2o, il suo secondo album solista.
Un disco creato e registrato quasi in solitario, accompagnato saltuariamente solo dalla batteria di Wayne Maskell, suo sodale anche nei The Heads. E se il disco è dominato dalla lunghissima suite “Swim Into The Sun” che occupa la totalità della seconda facciata, sarebbe ingiusto sottovalutare l’estasi ipnotica creata dalle altre tracce di cui è composto il disco, come le avvolgenti “Slowah” e “Grace And” che hanno il compito di prenderci per mano e condurci all’interno di un mondo scintillante.
Continuiamo a parlare di psichedelia. Lo facciamo parlando di Honey Owens, personaggio cardine della scena avant-rock di Portland. Oltre ad aver fatto parte a fasi alterne dei Jackie O’Motherfucker, la Owens è passata a far parte prima dei Nudge, poi dei misconosciuti Dark Yoga, fino alla creazione di un abito su misura, il suo progetto solista Valet. Il secondo album inciso sotto questa sigla si intitola Naked Acid e non a caso è stato pubblicato da un’etichetta estremamente importante per quanto riguarda un certo tipo di suono tra elettronica e psichedelia, la Kranky di Chicago.
Anche qui, come nel caso di Kandodo, la copertina è importante per farci entrare nel mood del disco. Un’illustrazione che mostra un paesaggio che sembra allo stesso tempo incantato ed oscuro. Reminiscenze tribali, litanie remote espresse con una scarna strumentazione ma con una estrema lucidità compositiva. Sferzate sonore ora smussate ora evidenziate da droni, suoni distesi e voci manipolate come nella lisergica, oscura e catartica “Kehaar”.
Negli ultimi podcast, a all’inizio di questo, abbiamo parlato più volte della scena post-rock americana, soprattutto della scena di Chicago. John McEntire, non solo batterista ma splendido polistrumentista, ha marchiato a fuoco la scena nata nei primissimi anni ’90. Parallelamente alla nascita dei Tortoise, McEntire ha unito le sue forze a quelle del chitarrista Archer Prewitt, del cantante Sam Prekop e del bassista Eric Claridge (questi ultimi due provenienti dagli Shrimp Boat), formando i The Sea And Cake. Il nome del gruppo non è altro che una reinterpretazione volontaria di “The C in Cake”, brano di un altro gruppo cardine di quel periodo prolifico, i Gastr Del Sol di Jim O’Rourke e David Grubbs di cui McEntire è stato importante collaboratore sin dall’inizio.
Al contrario dei Tortoise e di molto post-rock americano, nei The Sea And Cake ha sempre avuto un peso specifico importante non solo l’abilità tecnica dei musicisti, ma soprattutto il tono distintivo della voce levigata di Prekop, anche se nel corso degli anni la band ha aumentato il peso specifico dei calibrati interventi elettronici, e delle influenze sudamericane. Sono voluto tornare indietro nel tempo e proporvi una delle pagine migliori del loro catalogo, quella “Earth Star” che impreziosiva il loro secondo album, Nassau, nell’anno di grazia 1995
In qualche modo hanno pagato forse la non appartenenza al “giro” Too Pure, fondamentale per capire l’istanza post-rock che circolava in Gran Bretagna in quel meraviglioso e creativo inizio di anni ’90. Non saprei altrimenti come giustificare l’assenza dei Disco Inferno da alcuni testi che narrano la storia di quel movimento musicale. O forse il nome che evocava in qualche modo la disco music e i balli sfrenati del sabato sera…chissà. Fatto sta che i Disco Inferno sono stati una band cardine del post-rock britannico. Formati nel 1989 nel nord-est londinese dai giovani Ian Crause (chitarra e voce), Paul Willmott (basso), Daniel Gish (tastiere) e Rob Whatley (batteria), diventano quasi subito un trio visto che Gish lascerà la band per unirsi ad un’altro dei gruppi fondamentali in quel periodo, i Bark Psychosis.
E se all’inizio il loro suono mostra come influenze marcate il post-punk o la new-wave di gruppi come Wire o Joy Division, Ian Crause poco dopo ammaliato da nuove modalità musicali come il sampling, o da nuove tendenze come lo shoegazing, decide di cambiare rotta. Ma i My Bloody Valentine o i Massive Attack, più che influenze strettamente musicali, servirono al trio per capire che avevano davanti una strada aperta a nuove possibilità, un foglio di carta bianco senza limiti. Il loro secondo album, D.I. Go Pop del 1994 mostra l’abilità della band di ricreare i loro strumenti con vari samplers, trovando un’unione con il mondo intorno a loro unendo alla loro musica vari field recordings. Una miscela quasi impensabile prima, tra strumenti, samplers, traffico stradale, uccellini che vantano, vento, e quell’acqua che scorre che regge l’impalcatura della splendida “In Sharky Water” che apre il disco. Purtroppo il trio si scioglierà dopo poco, ma i Disco Inferno restano come una delle pagine più creative e sperimentali di quegli anni.
Mondi che si scontrano con fragore: proto-punk, hardcore, free jazz, power pop, musica sperimentale, funk, soul, rock psichedelico e il primo trip di acidi tutto insieme. Il trio più memorabile e creativo a memoria d’uomo, quello formato dalla voce e dalla chitarra di D.Boon, dal basso rutilante di Mike Watt e dalla batteria di George Hurley. I Minutemen hanno frullato decenni di musica servendoli in un unico meraviglioso e prezioso scrigno intitolato Double Nickels On The Dime. I tre di San Pedro (porto di Los Angeles) hanno condensato in 43 (!) brani tutta la loro esplosività, abbandonando in parte l’hardcore degli inizi per approdare ad un suono caleidoscopico e trascinante, dove la ritmica funk si sposa con il calor bianco dell’hardcore, lasciando un piccolo spazio anche per il folk, in un esplicitare i più disparati generi musicali che non risulta mai ne dispersivo ne disomogeneo.
La sequenza iniziale del primo disco “Anxious Mo-Fo / Theatre Is The Life Of You / Viet Nam / Cohesion” è da urlo. L’album è uno dei più innovativi del rock e chissà dove i tre ci avrebbero portati se la carriera del gruppo non si fosse drammaticamente conclusa con la morte di Boon in un incidente con un furgoncino in Arizona il 22 dicembre 1985, a soli 27 anni. A seguito della morte di Boon, né Watt né Hurley avevano intenzione di continuare a suonare. Ma, incoraggiati da un fan del gruppo formarono i fIREHOSE nel 1986 insieme all’allora ventiduenne Ed Crawford, chitarrista e fan dei Minutemen. Tra i progetti paralleli di Watt c’è da annoverare quello insieme ai nostri Stefano Pilia e Andrea Belfi chiamato Il Sogno Del Marinaio.
Ogni tanto devo fare mea culpa ed andare giustamente ad inserire in scaletta qualche artista che per vari motivi (spesso la memoria che inizia a fare cilecca) a volte non trovano posto nei miei podcast. Andiamo quindi a ripercorrere la storia di una delle band cardine della new-wave, i Talking Heads. David Byrne insieme alla sezione ritmica (che poi diventerà coppia nella vita) formata da Chris Frantz (batteria) e Tina Weymouth (basso), si incontrano alla Rhode Island School Of Design e dopo essersi trasferiti a NYC, fanno un rodaggio impegnativo sul difficile palco del CBGB’S. Stranamente la compostezza intellettuale della band, così poco punk, colpì a fondo facendo diventare Byrne e compagni alfieri del neonato movimento new-wave. In realtà del punk rimane solo l’impianto scarno e una sorta di alienazione urbana.
Dopo tre album semplicemente irripetibili, dove Byrne e compagni avevano messo in campo a modo loro tutte le varie suggestioni sonore, dal funk alla psichedelia, dai ritmi martellanti alla semplicità dell’impianto sonoro, nel 1980 Remain In Light assesta il colpo definitivo e va a incastonare idealmente la band tra i gruppi più importanti della storia del rock. Brian Eno, pur rimanendo in secondo piano, è ormai diventato a tutti gli effetti il quinto membro del gruppo, fantastico collante e scultore di suoni in sala di registrazione. Elemento non meno importante sono le liriche, che nonostante l’apparente semplicità quasi frivola della musica, vanno a scavare nella profondità dell’animo umano. Sebbene il disco sia conosciuto per la trascinante “Once In A Lifetime” con il suo memorabile ritornello, il disco presenta moltissime altre meraviglie, tra cui la splendida ed martellante “Crosseyed And Painless”.
E a proposito di gruppi fantastici da me quasi dimenticati, che dire dei The Monochrome Set, band stravagante formata a Londra in piena era post-punk dallo straordinario Ganesh Seshadri, più conosciuto semplicemente come Bid. Bid insieme al chitarrista Thomas W.B. Hardy in arte Lester Square diede origine ad un suono che se da una parte aderiva alle tumultuose pratiche musicali de periodo, dall’altra era talmente rivolta agli anni ’60 da battezzarsi ‘TV in bianco e nero’. Nel 1979 il loro cocktail colpirà così tanto Majo Thompson, ex leader dei Red Crayola e direttore artistico della neonata etichetta londinese Rough Trade, da fargli firmare un contratto per tre singoli che finiranno senza problemi nella Indie Top Ten dell’epoca. Ma i primi due album, Strange Boutique e Love Zombies, usciranno per la Dindisc, sussidiaria della Virgin.
Il loro essere così stravaganti e poco inclini a compromessi sia come musicisti che come esseri umani porterà Bid e Lester Square a cambiare ancora compagni di avventura ed etichetta. Il terzo Eligible Bachelors uscirà per la Cherry Red, mentre il quarto album, The Lost Weekend, registrato nel 1983, verrà pubblicato solo due anni dopo per i problemi contrattuali dopo la rottura con la Cherry Red e la firma con la Blanco Y Negro, sussidiaria della WEA. I due vengono affiancati dal chitarrista James Foster, dal ritrovato batterista Nick Wesolowski, con Carrie Booth a suonare saltuariamente le tastiere. Il disco è al solito, tanto originale e divertente quanto ignorato dal grande pubblico. Il loro pop-rock guitar oriented risulta sempre estremamente gradevole e stravagante, come dimostra la splendida “Cargo” inserita in scaletta. Il gruppo tornerà solo 5 anni più tardi per poi prendersi un’altra lunga pausa dal 1995 al 2012, anno che segna la reunion che ha portato Bid (Lester ha abbandonato il vecchio compagno nel 2014) ad incidere album fino ai giorni nostri.
I Mercury Rev hanno scritto pagine di musica meravigliose negli anni ’90. Formati a Buffalo (NY) dall’incontro tra John Donahue e Sean “Grasshopper” Mackiowiak (chitarre), David Baker (voce) e Dave Fridmann (basso), hanno proposto un poderoso slancio psichedelico le cui nevrosi sono pienamente visibili nel loro straordinario esordio Yerself Is Steam, che combatte ad armi pari con i primi Flaming Lips. All’inizio la band rifugge tutte le mode di quegli anni, dal grunge allo shoegaze, passando per il britpop. Un paio di anni dopo, con Boces, la band tenderà ad appiattire i momenti di isteria lisergica a favore di un calibrato slancio pop. Sarà l’ultimo album con Baker alla voce, i problemi del cantante con gli stupefacenti e la svolta musicale nell’aria porteranno al divorzio che condurrà Donahue ad occuparsi anche della parte cantata.
Meno anarchici e più incentrati su arrangiamenti barocchi, nel 1998 con Deserter’s Song aumentano il numero dei musicisti coinvolti con una sezione di fiati, senza però dimenticarsi dei colpi di genio che li hanno sempre caratterizzati. All Is Dream, il quinto album della band uscito nel 2001, continua su questa strada. Il suono si è progressivamente ammorbidito, diventando sempre più sinfonico. Non manca la suggestione sonora, ma mancano quelle schegge di follia che hanno reso indimenticabile il loro esordio. In ogni caso, Donahue, Grasshopper e Fridmann sanno sempre come ammaliare l’ascoltatore come nella liquida e visionaria “Hercules” che chiude l’intero lavoro.
Lei è sicuramente una delle cantautrici più ispirate degli ultimi anni. Marissa Nadler da Washington, nasce come folk-singer ma ben presto trova il modo di mostrare tutte le diverse sfaccettature della sua personalità e della sua maturità compositiva. La popolarità sopraggiunta dopo il suo sophomore album The Saga Of Mayflower May nel 2005 è andata via via aumentando andando di pari passo con l’innesto di nuovi elementi ad aumentare l’impatto emotivo del suo impianto folk. Nel 2013, dopo aver aperto i concerti degli Earth, la Nadler è stata avvicinata dal produttore Randall Dunn (dietro al mixer con Sunn O))), Earth, Oren Ambarchi, e tastierista del gruppo sperimentale Master Musicians of Bukkake.
La sinergia tra i due ha prodotto un album, July, che anche se da alcuni considerato minore, a me sembra al contrario tra i più riusciti della sua discografia. Il suo folk gotico viene arricchito da una sezione di archi, un pianoforte ed una sezione ritmica trattenuta ma importante su cui la voce cristallina della Nadler può sentirsi libera di narrare le sue storie suggestive, sofferte e sognanti come la splendida “Drive” che ho voluto inserire nella scaletta di questo podcast.
La chiusura del podcast è affidata ad una voce meravigliosa e ad un album che ho ritrovato e riscoperto nei mesi di lockdown forzato. Jarrett Lloyd Vincent, in arte Bim Sherman, è stato uno degli interpreti più incantati e puri del reggae. Se la sua carriera era iniziata in Giamaica alla fine degli anni ’70, grande importanza per lo sviluppo del suo suono è stato il trasferimento a Londra voluto da un produttore fondamentale per l’evoluzione del dub e del reggae come Adrian Sherwood. In Gran Bretagna Sherman ha fatto parte di alcuni collettivi creati da Sherwood con l’intento di ridisegnare confini del reggae e del dub con la sua etichetta On-U Sound.
Dopo le collaborazioni con New Age Steppers, The Justice League Of Zion, Singers & Players e Dub Syndicate, a metà degli anni ’90 Sherman confeziona insieme a Sherwood e all’amico percussionista indiano Talvin Singh, il suo capolavoro: Miracle. E quello che esce da questi solchi è davvero un miracolo. Un tappeto sonoro preparato dalla chitarra di Skip McDonald, del basso di Doug Wimbish, dalle tablas di Singh e dalla presenza eterea della sezione di archi della Studio Beats Orchestra Bombay. Undici tracce tra cui alcune del suo vecchio repertorio, qui asciugate fino a farle diventare di una bellezza eterea, mistica. Un disco che accarezza mente e cuore, capace di farci sognare cullati dalla voce sussurrata ma profonda di un artista che purtroppo ci ha lasciati nel 2000 a soli 50 anni per un male incurabile. Ogni volta che si mette questo disco sul piatto e partono le prime battute di “Golden Locks” si ripete ogni volta un miracolo, quello che ci fa appassionare, commuovere e che ci fa abbandonare completamente: il miracolo della bellezza più pura.
Un grazie speciale va, come sempre, a Franz Andreani per la sua passione, la gestione di questa banda di pazzi e per la splendida riorganizzazione del sito già attiva da qualche anno. A cambiare non è stata solo la versione grafica del sito, ma anche la “filosofia” della podradio, con le rubriche che vanno ad integrarsi nella programmazione regolare sotto l’hashtag #everydaypodcast. Da un anno è attivo anche lo splendido canale YouTube della Radio, una nuova formula senza interruzioni ne spot per ascoltare la vostra-nostra musica preferita. Iscrivetevi numerosi, vi aspettiamo! Naturalmente ogni aggiornamento e notizia sarà nostra premura comunicarla sulla nostra pagina Facebook.
Nell’11° Episodio di Sounds & Grooves troverete il proto-punk dei seminali Stooges ed il punk australiano dei fantastici The Saints, l’americana immaginifica dei Grandaddy e della sinergia Bonnie “Prince” Billy + The Cairo Gang, il pop-rock estremamente intelligente e sperimentale dei Pit Er Pat, le straordinarie suggestioni canterburyane di Robert Wyatt, il songwriting maturo di Damien Rice e quello storicamente importante di Leonard Cohen, il folk-rock pieno di riferimenti kosmische dei Modern Studies ed il caleidoscopio sonoro dei The Heliocentrics, da soli ed insieme al maestro etiope Mulatu Astatke, il folk irlandese contaminato dei Moving Hearts e quello americano sussurrato di Laura Gibson insieme ad Ethan Rose. Il tutto, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
Intanto se volete potete sfruttare la parte riservata ai commenti qui sotto per darmi suggerimenti, criticare (perché no), o proporre nuove storie musicali. Mi farebbe estremamente piacere riuscire a coinvolgervi nella programmazione e nello sviluppo del mio sito web.
Se volete ascoltare o scaricare il podcast, potete farlo anche dal sito della stessa PodRadio cliccando sulla barra qui sotto. Buon Ascolto
TRACKLIST
01. STEARICA: Geber da ‘Fertile’ (2015 – Monotreme Records)
02. SLINT: Washer da ‘Spiderland’ (1991 – Touch & Go)
03. TORTOISE: Ry Cooder da ‘Tortoise’ (1994 – Thrill Jockey)
04. AMP: Tango Non da ‘Stenorette’ (1998 – Kranky)
05. KANDODO: Slowah / Grace And da ‘K2o’ (2013 – Thrill Jockey)
06. VALET: Kehaar da ‘Naked Acid’ (2008 – Kranky)
07. THE SEA AND CAKE: Earth Star da ‘Nassau’ (1995 – Thrill Jockey)
08. DISCO INFERNO: In Sharky Water da ‘D. I. Go Pop’ (1994 – Rough Trade)
09. MINUTEMEN: Anxious Mo-Fo / Theatre Is The Life Of You / Viet Nam / Cohesion da ‘Double Nickels On The Dime’ (1984 – SST Records)
10. TALKING HEADS: Crosseyed And Painless da ‘Remain In Light’ (1980 – Sire)
11. THE MONOCHROME SET: Cargo da ‘The Lost Weekend’ (1985 – Blanco Y Negro)
12. MERCURY REV: Hercules da ‘All Is Dream’ (2001 – V2)
13. MARISSA NADLER: Drive da ‘July’ (2014 – Bella Union)
14. BIM SHERMAN: Golden Locks da ‘Miracle’ (1996 – Mantra Recordings)