Le avventure in musica di Sounds & Grooves continuano nella 14° Stagione di RadioRock.TO The Original
In questo episodio di Sounds & Grooves troverete una esplosiva miscela di folk-rock, songwriting, Canterbury e altre meraviglie
Sono davvero felice di essere tornato, con Sounds & Grooves, ad arricchire il palinsesto della 14° Stagione di www.radiorock.to. A volte c’è la necessità di fermarsi un attimo, riflettere sugli sbagli che abbiamo commesso, fare uno o più passi indietro, capire le cose che contano davvero nella vita e ripartire con tutto l’entusiasmo possibile di una nuova vita, di una nuova opportunità che non deve essere sprecata. E in questo ho avuto l’incredibile fortuna di avere accanto una persona assolutamente meravigliosa ed unica che non smetterò mai di ringraziare e di amare.
A pensarci è pazzesco che sia passato già così tanto tempo da quando abbiamo iniziato questa fantastica avventura di radiorock.to per dare un segnale di continuità con il passato, con quella meraviglia che Franz Andreani, Marco Artico, Flavia Cardinali, Massimo Di Roma, Michele Luches, Aldo Semenuk, Giampiero Crisanti, Gianpaolo Castaldo avevano creato e a cui, nel mio piccolo, ho provato a dare un contributo dal 1991 al 2000. Sappiamo tutti benissimo che la Radio Rock in FM come la intendevamo noi è sparita da almeno due decenni, ma in tutti questi anni di podcast sul web abbiamo cercato di tenere accesa quella fiammella per poi tentare di raddoppiarla, moltiplicarla, farla diventare un faro di emozioni e qualità musicale. Perché la passione e la voglia di fare radio, la voglia di ascoltare e di condividere la musica di qualità, nonostante tutto, non ci è mai passata.
Non siamo una radio “normale”. Non solo perché trasmettiamo in differita e attraverso podcast registrati, ma soprattutto perché andiamo orgogliosamente musicalmente controcorrente rispetto a quella che è diventata la consuetudine delle emittenti radiofoniche al giorno d’oggi. Continuiamo orgogliosamente a cercare quella libertà in musica che nell’etere sembra essere diventata una mosca bianca, quella passione per la condivisione, per la ricerca, per l’approfondimento. Non dobbiamo aderire per forza ad una cieca linea editoriale che privilegia il commercio, ma ci lasciamo guidare semplicemente dal nostro cuore e dalla nostra passione.
Questo podcast è stato registrato, come succede da qualche mese a questa parte, con uno stato d’animo particolare. In queste ultime settimane abbiamo ripreso, chi più chi meno, una vita quasi normale, ma probabilmente ci muoviamo fuori di casa con grande circospezione, in una sorta di ottovolante in cui si alternano preoccupazione e speranza per questo nemico silenzioso che sembra poter essere ancora intorno a noi. Il mio pensiero va alle persone che sono state colpite duramente dal lockdown, a chi non c’è più, a chi ha combattuto questo nemico silenzioso in prima linea con grandi sacrifici, a chi sta lottando davvero con forza per riappropriarsi della propria vita, a chi è stato costretto a reinventarsi. Spero davvero che stavolta lo stato (utopia, lo so, vista la “statura” morale della nostra classe politica) possa riuscire a far ritrovare la propria identità ad un popolo così duramente colpito negli affetti, nelle strutture, nel lavoro e nel quotidiano. La musica ha spesso il potere terapeutico di guarire le anime, lenire in qualche modo il dolore, come una pozione magica, un incantesimo primordiale, facendoci fare viaggi immaginari di enorme suggestione emotiva.
Viaggi come quello che vi propongo in questo podcast, dove troverete il proto-punk dei seminali Stooges ed il punk australiano dei fantastici The Saints, l’americana immaginifica dei Grandaddy e della sinergia Bonnie “Prince” Billy + The Cairo Gang, il pop-rock estremamente intelligente e sperimentale dei Pit Er Pat, le straordinarie suggestioni canterburyane di Robert Wyatt, il songwriting maturo di Damien Rice e quello storicamente importante di Leonard Cohen, il folk-rock pieno di riferimenti kosmische dei Modern Studies ed il caleidoscopio sonoro dei The Heliocentrics, da soli ed insieme al maestro etiope Mulatu Astatke, il folk irlandese contaminato dei Moving Hearts e quello americano sussurrato di Laura Gibson insieme ad Ethan Rose. Il tutto, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
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Prima di partire con questo viaggio in musica potete effettuare il download del podcast anche nella versione a 320 kb/s semplicemente cliccando sul banner qui sotto.
Sono felice di iniziare il podcast con una delle band più importanti ed influenti dell’intera storia del rock. Nella metà degli anni ’60, in piena era flower-power, James Newell Osterberg prende coscienza che la filosofia del peace and love così in voga nella west coast non fa davvero per lui. Più influenzato dal blues e dai Velvet Underground, si ribattezza Iggy Pop e forma i Psychedelic Stooges insieme ai fratelli Ron e Scott Asheton (rispettivamente chitarra e batteria), e Dave Alexander (basso). Una volta alleggeriti della componente psichedelica, gli Stooges fanno un incendiario esordio live sul palco dell’Università del Michigan la notte di Halloween del 1967. L’impatto è devastante. Cavalcate sonore intervallate da lenti rituali ipnotici cavalcati da Iggy con una padronanza assoluta del palco grazie ad un’energia irrefrenabile ed ad un esibizionismo sfrenato.
L’Elektra, dopo aver messo sotto contratto i “compagni di merende” MC5, fa firmare subito un bel contratto a Iggy e compagni assicurandosi le prestazioni delle due band di Detroit il cui suono sarà di fondamentale importanza per la nascita del punk che esploderà qualche anno più tardi. Non a caso a dirigere i lavori del primo album degli Stooges viene chiamato John Cale, ammaliato dalla potenza della band e dal carisma del leader. The Stooges esce nell’agosto del 1969 e mette subito in chiaro il talento del quartetto. Il boogie sfrenato della “1969” che apre l’album è solo il primo tassello di un vero e proprio capolavoro che comprende classici come “I Wanna Be Your Dog”, l’oscuro rituale di “We Will Fall” impreziosito dalla viola di Cale, e l’alienazione nichilista di “No Fun”. Una pietra miliare dell’intera storia del rock.
Lo tsunami del Punk si è abbattuto sulle terre emerse musicali nel 1976, devastando territori e radendo al suolo le ultime vestigia del progressive. L’epicentro del terremoto che generò cotanta onda fu negli Stati Uniti, in particolare il 7″ dei Ramones intitolato “Blitzkrieg Bop”, anche se poi fu geniale il “caro” buon vecchio Malcom McLaren ad esportare il movimento in UK creando i Sex Pistols che fecero sconquassi nel regno della perfida Albione. Ma non tutti sanno che (parafrasando una celebre rubrica de La Settimana Enigmistica) un gruppo australiano esordì ben prima dei Pistols, condividendo quasi con gli stessi Ramones la primogenitura del movimento punk. Sto parlando dei The Saints, gruppo formato a Brisbane, in Australia, dal cantante e chitarrista Chris Bailey che, ispirati da band proto-punk proprio come gli Stooges o gli MC5, nel settembre 1976 registrano e pubblicano in Gran Bretagna il loro primo singolo intitolato “(I’m) Stranded”.
La rivista Sounds lo proclama addirittura “singolo di questa e di ogni settimana”, e il gruppo firma un contratto con la EMI per la pubblicazione di tre album, il primo dei quali, intitolato proprio “(I’m) Stranded” come il singolo di debutto, uscirà nel febbraio 1977, prima di tantissimi gruppi punk più noti al grande pubblico come gli stessi Pistols o i The Clash. E allora riascoltiamo i devastanti The Saints con la meravigliosa “Erotic Neurotic” tratta proprio dal loro folgorante debutto.
Will Oldham negli anni è diventato un classico della canzone americana, sia con gli album pubblicati a suo nome sia quando si è nascosto dietro al moniker di Bonnie “Prince” Billy. Nel 2010 Oldham, nascosto dietro la sua maschera da supereroe dell’americana, ha unito le sue forse ad un altro cantautore/chitarrista, Emmett Kelly, anche lui opportunamente nascosto dietro lo pseudonimo di The Cairo Gang. Questa sinergia ha portato alla pubblicazione di un ottimo album, The Wonder Show Of The World, composto da 10 canzoni di grande qualità. Il disco emana una luce soffusa, rimanda ad alcune splendide pagine scritte negli anni ’70 nella West Coast, dove le chitarre dei due protagonisti si inseguono languidamente, si uniscono raddoppiandosi, e ci raccontano storie malinconiche.
Accompagnati solo da pochi mirati musicisti e da un sottile scheletro percussivo, i due ci prendono per mano con accordi delicati dall’impatto immediato e sfavillante. Oldham è sempre consapevole del suo status di grande autore e sa di poter fare la differenza con quei brani che sanno entrare dentro e colpirci al cuore, come la splendida ballata “Go, Folks, Go” inserita nel podcast.
A proposito di bassa fedeltà, suoni americani e gruppi quasi dimenticati riscoperti in “regime” di lockdown. Vi ricordate dei Grandaddy da Modesto, California? No? Eppure in quel periodo a cavallo del nuovo millennio, la creatura del polistrumentista Jason Lytle aveva conquistato più di un cuore, compreso quello di Howe Gelb che gli aveva procurato un contratto con l’etichetta Big Cat Records, sussidiaria della più grande V2, per la pubblicazione dell’esordio Under The Western Freeway nel 1997. Il loro approccio pop psichedelico, con mirati innesti folk e piccole sperimentazioni aveva colpito nel segno e la band si era creata un piccolo ma fedele seguito di pubblico ed il plauso incondizionato della critica. Tre anni dopo Lytle e compagni aprono il nuovo millennio con The Sophtware Slump, una sorta di concept album sui problemi riguardanti l’impatto sempre più invasivo della tecnologia moderna nella società.
L’album è stato scritto e registrato dal frontman Jason Lytle da solo nella sua fattoria in uno stato d’animo di perenne frustrazione. Ma questa situazione mentale pesante non fa rinunciare alla band una espressione di leggerezza del loro pop psichedelico che sa trovare diverse strade, tutte perfettamente compiute e messe a fuoco. L’iniziale “He’s Simple, He’s Dumb, He’s The Pilot” è il perfetto manifesto della band. Un brano di ampio respiro, quasi 9 minuti, scelto come secondo singolo dove stratagemmi lo-fi, echi di folk psichedelico e mirate orchestrazioni di tastiere colpiscono sempre nel segno. La band si era sciolta nel 2006 ma si era riformata nel 2012 salvo poi subire un durissimo colpo nel 2017 con la morte improvvisa del bassista e fondatore Kevin Garcia che ha di fatto interrotto la parabola del gruppo.
Nella storia del rock ci si imbatte molto spesso in gruppi anomali, intelligenti nella loro proposta ma così poco definiti e definibili da sfuggire non solo ad una definizione specifica ma anche ad un’approvazione estesa da parte del pubblico. Band fuori tempo e sperimentali che diventano gruppi di culto. A questa definizione possiamo sicuramente associare una band nata nel 2001 a Chicago, in piena era post-rock. A questa definizione possiamo sicuramente associare una band nata nel 2001 a Chicago, in piena era post-rock. Il nome del gruppo era Blackbirds, formato dal bassista Rob Doran, dal batterista Butchy Fuego, dalla tastierista Fay Davis-Jeffers e da un chitarrista-cantante che presto lascia baracca e burattini per trasferirsi a New York. I tre superstiti decidono di non sostituirlo e di reinventarsi da capo alternandosi al canto e abbandonando completamente l’uso della chitarra. Nel 2003 scoprono che c’è un’altra band con lo stesso nome e decidono di cambiare ragione sociale. Essendo tutti e tre appassionati di arte e essendo anche rispettivamente designer (Doran), compositore di colonne sonore (Fuego) e fotografa (Davis-Jeffers), prendono in prestito il titolo di un quadro del pittore surrealista di Chicago Jim Nutt diventando Pit Er Pat.
Nell’ottobre del 2008 pubblicano il loro terzo lavoro, High Time, confezionato per la prima volta nei nuovi personali studi di registrazione, i Top Cat Studios di Humboldt Park, zona ovest di Chicago. Il disco, masterizzato da un altro nome importante come Bob Weston, vede un incremento degli strumenti usati: dal grande ritorno della chitarra ad una piccola sezione fiati, passando per un’infinita serie di percussioni. Meno elettronica, più strumenti acustici per aprire ad un ventaglio ben più ampio di soluzioni sonore e di dettagli. Il disco risulta meno scuro e forse il migliore della loro discografia, con brani come il trascinante rhythm’n’blues sghembo di “The Cairo Shuffle” o il lento incedere di “Copper Pennies”, per non parlare dell’incredibile mistura tra psichedelia, ritmi arabeggianti e reggae da trangugiare in una sola sorsata di “Evacuation Days”. Ogni traccia mostra un gruppo ormai consapevole delle proprie potenzialità e capace di padroneggiare la propria caleidoscopica capacità compositiva. Gli orizzonti sonori entro i quali la band si muove sono sempre in movimento e quasi inafferrabili. E proprio in un sinuoso girare lo sguardo a perdita d’occhio che possiamo trovare il fascino di questo gruppo di culto che da dieci anni ormai non fa sentire la propria voce. Riscoprire i Pit Er Pat a questo punto può e deve diventare un irresistibile dovere.
Lui non è stato semplicemente una delle influenze primarie dei Pit Er Pat ma uno dei più straordinari artisti degli anni ’70. Nato a Bristol ma trasferitosi da piccolo a Canterbury, Robert Wyatt assorbe l’amore del padre per la musica jazz e la condivide con i suoi compagni di scuola. Amici come Brian e Hugh Hopper, Mike Ratledge e Dave e Richard Sinclair, cui si aggiunge qualche anno dopo prima Daevid Allen, un curioso musicista e studente d’arte proveniente dall’Australia, poi un cantante e polistrumentista chiamato Kevin Ayers. L’influenza di Allen, di sette anni più “vecchio”, fu enorme per il giovane Wyatt, che di li a poco si mise dietro ai tamburi formando i Wilde Flowers con Ayers alla voce, Hugh Hopper al basso, Richard Sinclair alla chitarra ritmica e Brian Hopper alla chitarra e sax. Il gruppo non pubblicò nulla, ma fu la pietra angolare della cosiddetta scena di Canterbury. Dopo lo scioglimento dei Wilde Flowers, i fratelli Sinclair, più attratti dalle melodie, formarono i Caravan, mentre Wyatt, Allen, Ayers e Ratledge fondarono i Soft Machine. Alla fine degli anni ’60 Ratledge era diventato leader di una band che a Wyatt cominciava a star stretta. Il batterista aveva già fatto uscire il suo primo album solista (lo splendido The End Of An Ear) e aveva formato una nuova band, i Matching Mole quando, il 1 giugno 1973, durante la festa di compleanno di Gilli Smyth, frontsinger dei Gong e compagna di Allen, ebbe l’incidente che gli cambiò la vita.
Il suo intento era quello di fare uno scherzo agli invitati: uscire da una finestra, camminare per qualche metro sul tetto della casa, e rientrare dal vano scale fino all’ingresso. Ma non aveva fatto i conti con la percezione sensoriale compromessa dall’alcool. Bastò un piede in fallo sul tetto per provocare una devastante caduta dal terzo piano. Il risultato fu quasi più benevolo di quanto avrebbe potuto essere: qualche mese di ospedale e la paralisi dalla vita in giù. Lo stesso Wyatt commento così l’incidente: “Il dottore era stupefatto. Mi disse: ‘Doveva essere proprio ubriaco per rimanere così rilassato mentre cadeva dal terzo piano’. Se fossi stato appena un po’ più sobrio, probabilmente oggi non sarei qui: avrei teso tutto il corpo per la paura e quindi mi sarei fracassato.”
Come facilmente immaginabile, l’idea di vivere su una sedia a rotelle ebbe un effetto notevole sulla psiche di Wyatt, che iniziò a vagare ondivaga dalla speranza alla depressione. Wyatt aveva già scritto alcune canzoni per il terzo album dei Matching Mole, ma la sua drammatica condizione gli regalò una nuova visione musicale, introspettiva e magica. Rock Bottom è un capolavoro assoluto, prodotto da Nick Mason dei Pink Floyd e suonato da musicisti straordinari come Hugh Hopper e Richard Sinclair al basso, Gary Windo al clarinetto, Mongezi Feza alla tromba, Mike Oldfield alla chitarra, Fred Frith alla viola, Laurie Allan alla batteria e la compagna di vita Alfie a sostenere la parte vocale. Rock Bottom è un viaggio all’interno di un artista che dalla nuova condizione ha imparato a “sognare e pensare veramente attraverso la musica”. Le sue tastiere e la sua voce nell’apertura della struggente “Sea Song”, non smettono di regalare brividi ad ogni ascolto. Incipit perfetto di un disco che non dovrebbe mancare in nessuna collezione di dischi.
Cosa dire di Jim O’Rourke? Personaggio cardine non solo del post-rock di Chicago, ma di tutta la musica alternativa in generale a partire dagli anni ’90 sia come chitarrista (Gastr Del Sol, Loose Fur, Sonic Youth e molti altri) che come produttore (Wilco, Stereolab, Superchunk, John Fahey, Smog, Faust, Tony Conrad, The Red Krayola, Bobby Conn, Beth Orton, Joanna Newsom e U.S. Maple solo per citarne alcuni). Jimbo è stato formidabile nel rilanciare e recuperare gruppi ed artisti come Faust, John Fahey, Sonic Youth e a far risorgere i Wilco, producendo il disco della discordia Yankee Hotel Foxtrot e rendendolo imperituro. Nel 1999 O’Rourke ha lasciato per un attimo da parte le sue più recenti incisioni perennemente in bilico tra improvvisazione ed avanguardia per andare ad incidere canzoni semplici.
In realtà le otto tracce che compongono Eureka semplici non lo sono affatto, anche se il fatto di essere estremamente orecchiabili potrebbe farlo pensare. L’inclusione in scaletta di “Something Big” di Burt Bacharach è la cartina di tornasole di un’idea precisa di pop orchestrale che stupisce per l’ispirazione lucida, la meraviglia della costruzione degli incastri e la grande sensibilità e capacità di autore del chicagoano, dimostrata nella splendida “Ghost Ship In A Storm” con le sue limpide armonie e la splendida sezione di fiati.
Era un bel po’ di tempo che non passavo un songwriter interessante come l’irlandese Damien Rice. Lui ha iniziato come membro della band Juniper, ma ben presto si è trovato a fare i conti con una major come la PolyGram davvero troppo invasiva nella ricerca dell’hit single. L’ingerenza del music business nella fase compositiva ha spinto Rice ad abbandonare la band e a iniziare una carriera solista. La bontà delle sue composizioni hanno convinto il produttore David Arnold a finanziarlo per fargli registrare e pubblicare un album. Il suo disco di esordio, “O”, viene licenziato dalla piccola 14th Floor nel 2002 ed è composto da 10 piccole-grandi magie acustiche, registrate con l’apporto della cantante Lisa Hannigan.
Le limpide armonie delle canzoni dell’esordio hanno colpito la sensibilità di molti autori televisivi e registi, tanto che nel corso degli anni molte sono state scelte per far parte della colonna sonora di alcune serie tv: “Cannonball” e “The Blower’s Daughter” in The L Word, “Delicate” in Lost, Dr. House – Medical Division, Dawson’s Creek, Alias, Misfits e CSI: Miami, “Cold Water” in E.R. – Medici in prima linea e nel film Stay – Nel labirinto della mente e “Cannonball” in The O.C. La mia scelta per rappresentare questo modo di intenso e poetico lirismo è stata la splendida magia di “Cold Water”.
Dalla contea scozzese del Perthshire a quella del Lancashire, nord-ovest dell’Inghilterra, passando per Glasgow. In queste coordinate geografiche si muove lentamente il folk-rock pieno di riferimenti kosmische di un quartetto chiamato Modern Studies, che con The Weight Of The Sun giunge ad un ideale lavoro della maturità dopo aver affilato le proprie armi con i precedenti Swell To Great (2016) e Welcome Strangers (2018). La band è formata da Emily Scott (voce, organo, piano, contrabbasso, violino, synths), Rob St. John (voce, chitarra, synths, harmonium, autoharp), Pete Harvey (basso, tastiere, violino, violoncello, theremin) e Joe Smillie (batteria, percussioni, mellotron, cori), con i primi due a tracciare la traiettoria ideale del percorso del quartetto con le loro voci sovrapposte ed il celestiale songwriting. Uno come Tim Burgess li ha definiti come “Il punto esatto in cui i Fairport Convention incontrano Jim O’Rourke in una lontana stazione ferroviaria scozzese” ed è riuscito miracolosamente a non andare affatto lontano dalla realtà.
Paesaggi bucolici, elementi naturali, intimità inquieta, distanza, tramonti, luce lunare, tutto questo e molto altro è stato dosato da questi sapienti alchimisti in 12 brani dove troviamo non solo un perfetto equilibrio tra folk, rock e pop, ma anche calibrati field recordings e vaporosi arrangiamenti psichedelici. “Signs Of Use” è uno dei brani migliori con i suoi momenti di stasi, la batteria che sembra in secondo piano ma che è sempre capace di far sobbalzare, le voci che si inseguono, i cori paradisiaci ed evocativi, ed uno stacco di archi e fiati a metà brano semplicemente straordinario. La magia dei Modern Studies sta nel riuscire ad evocare quei momenti della giornata, quei colori che l’orizzonte sa assumere, quelle pieghe inquiete della mente.
Ogni tanto devo fare mea culpa ed andare giustamente ad inserire in scaletta qualche artista che per vari motivi (spesso la memoria che inizia a fare cilecca) a volte non trovano posto nei miei podcast. Andiamo quindi a semplicemente uno dei più grandi poeti, cantautori e scrittori del nostro secolo. Nel 1967 il canadese Leonard Cohen ha già 33 anni ma si è già affermato come poeta e scrittore pubblicando la sua prima raccolta di poesie, “Let Us Compare Mythologies”, nel 1956 a soli 22 anni. Il suo debutto come cantautore è tanto tardivo quanto importante, voluto dal produttore John Hammond ed intitolato semplicemente Songs Of Leonard Cohen. L’album fa registrare una novità importante, rispetto a folksinger impegnati socialmente e politicamente come Dylan: lo sguardo di Cohen si rivolge all’individuo, ai suoi conflitti interiori.
Una poetica introspettiva con riferimenti alla mitologia e ai temi biblici che non gli farà trovare all’epoca il riscontro del grande pubblico, ma che verrà rivalutata con il tempo. Una delle canzoni più belle del disco è sicuramente la “Stories Of The Street” che ho deciso di inserire in scaletta. Scomparso nel novembre 2016, Cohen è stato semplicemente uno dei più grandi poeti, cantautori e scrittori del nostro secolo. Pochi, pochissimi, hanno avuto la sua capacità di scrittura e la sua solidità melodica, nel raccontare storie dure e vere di disagio sociale, amore, misticismo, sesso e religione. Ci manca, e molto, la sua voce profonda, la sua eleganza, la sua magia.
Il podcast va avanti con suoni che non trovano spazio spesso su queste pagine. È sempre un viaggio emozionante quello del collettivo The Heliocentrics guidato dal batterista Malcom Catto. Il combo britannico è stato capace negli anni di costruire un personale percorso evolutivo, un flusso estatico, ipnotico, che l’ha portato ad unire in uno straordinario melting pot jazz, psichedelia, funk, afro, dub e musica etnica. Stavolta sono andato a ritroso nel tempo andando a ripescare il loro secondo album, quel 13 Degrees Of Reality in cui la band mette a frutto le collaborazioni con due mostri sacri come Mulatu Astatke e Lloyd Miller arrivate sopo l’esordio di Out There.
Malcom Catto e compagni già in apertura hanno messo le cose in chiaro anche dal punto di vista sociale e politico con la voce campionata di George W. Bush che parla di “Nuovo Ordine Mondiale”, andando a toccare corde così attuali in questi tempi per certi versi oscuri e cupi per l’uguaglianza. La loro miscela musicale invece risulta come sempre esplosiva e cinematica, ritmica ed onirica. Un groove trascendente che esalta le multiformi e caleidoscopiche alchimie sonore del collettivo come dimostra la tribale “Collateral Damage”.
Come detto in precedenza, Malcom Catto e compagni quattro anni prima avevano accompagnato un’icona del jazz africano come il vibrafonista e compositore etiope Mulatu Astatke in un viaggio poi pubblicato dalla sempre splendida etichetta Strut intitolato Inspiration Information. Il disco è una perfetta combinazione tra le armonie ipnotiche del jazz in perenne equilibrio tra africa e sud america di Astatke e il calderone musicale proposto dagli Heliocentrics, bravissimi ad accompagnare il maestro etiope senza mai sovrastarlo con le loro tessiture sonore.
Il disco è un viaggio che va oltre l’ethio-jazz, andando a toccare una serie infinita di latitudini, un altrove musicale capace di rapirci in una danza ipnotica e straordinaria come dimostra la “An Epic Story” inserita in scaletta. E mai titolo fu più azzeccato.
Ho sempre avuto grande ammirazione per Christy Moore. La sua passione, il suo impegno politico, il suo timbro vocale caldo, passionale, l’amore profondo per la sua terra. E’ un omaggio alla musica irlandese e alla produzione di questo straordinario artista quello che faccio in questo podcast. Una volta terminata l’esperienza Planxty, band fondamentale per il folk revival degli anni ’70. Christy Moore (voce e bodhrán) insieme al sodale Dónal Lunny (bouzouki) crea i Moving Hearts con l’intento di unire il folk irlandese ad altre forme di musica come rock e soul.
La formazione che incide nel 1981 l’album di debutto autointitolato vede, insieme ai due fondatori, Declan Sinnot (chitarra), Keith Donald (alto sax), Eoghan O’Neill (basso), Brian Calnan (batteria), e Davy Spillane, un vero e proprio enfant prodige delle uillean pipes,le tipiche cornamuse irlandesi che si suonano con le dita senza emettere aria dalla bocca. L’album è una perfetta sintesi di stili, con il folk sempre presente nelle fondamenta, con una alternanza tra nuove canzoni e traditionals riarrangiati, non di rado legati ad un impegno politico e sociale. Un impegno che va spesso e volentieri a trattare i temi relativi alle rivolte irlandesi che si sono succedute nella storia per la conquista dell’indipendenza dall’Inghilterra come nella splendida ed emozionante “Irish Ways And Irish Laws” inserita in scaletta. Christy Moore dopo un secondo album sulla falsariga del primo (Dark End Of The Street), lascia la band. I Moving Hearts provano prima a sostituire l’insostituibile Moore con Mick Hanly (con cui registreranno l’album dal vivo Hearts Live) e poi diventeranno una band interamente strumentale registrando il terzo ed ultimo album in studio The Storm con Lunny e O’Neill come membri trainanti. Nel 2007 si sono riformati con una parte della line-up originale (Lunny, Spillane, O’Neal, Donald, il secondo batterista Matt Kelleghan) insieme a Anthony Drennan (chitarra), Graham Henderson (tastiere) e Kevin Glackin (fiddle). Questa formazione ha registrato un CD-DVD intitolato Live In Dublin che mostra il ritorno trionfale del gruppo nello storico Vicar Street.
La chiusura del podcast è affidata, ancora una volta, ad un album che ho ritrovato e riscoperto nei mesi di lockdown forzato. Una collaborazione quasi naturale quella tra una cantante ed autrice in bilico tra folk e blues come Laura Gibson e un creatore di suoni come Ethan Rose. I due, entrambi curiosi di utilizzare nuove modalità di composizione, hanno iniziato a scambiarsi idee trovando un equilibrio perfetto tra i versi della Gibson e i ricami, i field recordings e i campionamenti delicati del sound artist di stanza a Portland. Il risultato si chiama Bridge Carols, un album tanto breve quanto intenso in cui le nove tracce si alternano evocando ricordi delicati e meraviglie in cui la folktronica dei due si incastra tra soul e jazz come nella splendida “Younger” che chiude la trasmissione.
Un grazie speciale va, come sempre, a Franz Andreani per la sua passione, la gestione di questa banda di pazzi e per la splendida riorganizzazione del sito già attiva da qualche anno. A cambiare non è stata solo la versione grafica del sito, ma anche la “filosofia” della podradio, con le rubriche che vanno ad integrarsi nella programmazione regolare sotto l’hashtag #everydaypodcast. Da un anno è attivo anche lo splendido canale YouTube della Radio, una nuova formula senza interruzioni ne spot per ascoltare la vostra-nostra musica preferita. Iscrivetevi numerosi, vi aspettiamo! Naturalmente ogni aggiornamento e notizia sarà nostra premura comunicarla sulla nostra pagina Facebook.
Nel 12° Episodio di Sounds & Grooves troverete due grandi a volte dimenticati come gene Clark e Stan Ridgway, il math rock immaginifico degli Horse Lords e dei Vonneumann, la sinergia Mouse On Mars+Mark E. Smith = Von Südenfed, la lentezza slowcore dei Codeine e il post-rock britannico dei Laika, l’apice della carriera dei Nine Inch Nails, le suggestioni romantiche dei The Field Mice, un ricordo di Phil May tramite il capolavoro dei The Pretty Things, il #blacklivesmatter tramite il folk soul maturo di Terry Callier e quello storicamente fondamentale di Marvin Gaye, il grande ritorno di Bill Fay e l’art pop maturo dei Sorry. Il tutto, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
Intanto se volete potete sfruttare la parte riservata ai commenti qui sotto per darmi suggerimenti, criticare (perché no), o proporre nuove storie musicali. Mi farebbe estremamente piacere riuscire a coinvolgervi nella programmazione e nello sviluppo del mio sito web.
Se volete ascoltare o scaricare il podcast, potete farlo anche dal sito della stessa PodRadio cliccando sulla barra qui sotto. Buon Ascolto
TRACKLIST
01. THE STOOGES: 1969 da ‘The Stooges’ (1969 – Elektra)
02. THE SAINTS: Erotic Neurotic da ‘(I’m) Stranded’ (1977 – EMI)
03. BONNIE “PRINCE” BILLY & THE CAIRO GANG: Go Folks, Go da ‘The Wonder Show Of The World’ (2010 – Domino)
04. GRANDADDY: He’s Simple, He’s Dumb, He’s The Pilot da ‘The Sophtware Slump’ (2000 – V2)
05. PIT ER PAT: Evacuation Days da ‘High Time’ (2008 – Thrill Jockey)
06. ROBERT WYATT: Sea Song da ‘Rock Bottom’ (1974 – Virgin)
07. JIM O’ROURKE: Ghost Ship In A Storm da ‘Eureka’ (1999 – Drag City)
08. DAMIEN RICE: Cold Water da ‘O’ (2002 – 14th Floor Records)
09. MODERN STUDIES: Signs Of Use da ‘The Weight Of The Sun’ (2020 – Fire Records)
10. LEONARD COHEN: Stories Of The Street da ‘Songs Of Leonard Cohen’ (1967 – Columbia)
11. THE HELIOCENTRICS: Collateral Damage da ‘13 Degrees Of Reality’ (2013 – Now-Again Records)
12. MULATU ASTATKE / THE HELIOCENTRICS: An Epic Story da ‘Inspiration Information’ (2009 – Strut)
13. MOVING HEARTS: Irish Ways And Irish Laws da ‘Moving Hearts’ (1981 – WEA)
14. LAURA GIBSON and ETHAN ROSE: Younger da ‘Bridge Carols’ (2009 – Baskaru)