Le avventure in musica di Sounds & Grooves arrivano al 10° Episodio della 13° Stagione di RadioRock.TO The Original
In questo episodio di Sounds & Grooves troverete la prima parte della mia personale Classifica del 2018
Sounds & Grooves arriva al 10° Episodio della 13° Stagione di www.radiorock.to, ed è per me a distanza di anni sempre meraviglioso registrare e dare un segnale di continuità con il passato, con quella meraviglia che Franz Andreani, Marco Artico, Massimo Di Roma, Flavia Cardinali, Gianpaolo Castaldo avevano creato e a cui, nel mio piccolo, ho provato a dare il mio contributo dal 1991 al 2000. La Radio Rock in FM come la intendevamo noi è sparita da due decenni, ma in questi 12 anni abbiamo cercato nel nostro piccolo di tenere accesa una fiammella, cercando di raddoppiarla, moltiplicarla, farla diventare un faro di emozioni e qualità musicale con tutta la passione e la voglia di fare radio che nonostante tutto non ci è mai passata. Non siamo una radio “normale”. Non solo perché trasmettiamo in differita e attraverso podcast registrati, ma soprattutto perché andiamo orgogliosamente musicalmente controcorrente rispetto a quella che è diventata la consuetudine delle emittenti radiofoniche al giorno d’oggi.
La mia temutissima Classifica del 2018 è arrivata finalmente su radiorock.to. In questo spazio, come ogni anno, ho voluto semplicemente buttare giù, come appuntandoli su un taccuino, gli album che nell’ultimo anno solare ho ascoltato di più, e che sono riusciti maggiormente a coinvolgermi, e condividere con voi la mia interpretazione, il mio modo di sentire. Nonostante ci siano un milione di classifiche sparse nel web, sia quelle compilate dalla varie (più o meno trendy) music webzines e magazines, che quelle postate sui vari profili personali dei social networks, credo che da ognuna di queste ci sia sempre da qualcosa da imparare, uno o più nomi da annotarsi per approfondire con curiosità. La mia particolare preferenza quest’anno è andata a chi, dopo tanti anni di onorata carriera ha saputo ancora sorprendere registrando un disco tanto affascinante quanto, per molti (lo comprendo) troppo cupo e claustrofobico. In ogni caso nella playlist c’è spazio per le più svariate forme musicali: la classicità, l’indie-rock, il songwriting, il post-punk, i tradizionalisti, il rock classico, e perfino le musiche definite come avant-qualchecosa. C’è sempre un oceano di musica da scoprire, e molti (me compreso) non sono riusciti a rinunciare al fascino irresistibile dei tesori (o presunti tali) sommersi, avendo come risultato un’enorme varietà di nomi all’interno delle singole playlist.
In questi quasi 100 minuti di musica andremo ad ascoltare le posizioni dalla 30° alla 16° secondo il giudizio insindacabile della redazione di Sounds & Grooves…che poi sarei io :))))) Dai suoni più “classici” di E, Parquet Courts, Shame, Reverend Horton Heat e Ty Segall, fino a quelli più complessi di Dwarfs of East Agouza, Young Mothers, Heather Leigh. Passando per la (quasi) disco music in chiave funk-kraut dei Cave, le sonorità cupe di Wrekmeister Harmonies e Skull Defekts, l’inaspettato ritorno dei Wingtip Sloat, l’eccitante suono dei Moon Relay e l’eleganza di Neneh Cherry. Vi do l’appuntamento al prossimo podcast per la Top 15.
Lunga vita a RadioRock The Original. #everydaypodcast
Download, listen, enjoy!!!
Prima di partire con questo viaggio in musica potete effettuare il download del podcast anche nella versione a 320 kb/s semplicemente cliccando sul banner qui sotto.
Quando JR Robinson ha dato al suo gruppo in nome di un film del regista ungherese Béla Tarr, Wrekmeister Harmonies, sapeva benissimo quale tipo di visioni affidare alla sua musica. Dopo aver indagato gli aspetti più degradanti dell’umanità nei precedenti lavori, allargando il collettivo fino a 30 elementi e creando spesso e volentieri delle suite lunghissime e magniloquenti, Robinson ci mostra con il suo ultimo The Alone Rush un aspetto più intimista delle sue composizioni. Colpito insieme alla sua sodale Esther Shaw da una serie di tragedie personali, Robinson riduce la line-up a duo con la sua compagna, facendosi aiutare solo dal suo amico Thor Harris, batterista degli Swans, e dal produttore Martin Bisi. I due, nelle campagne dell’Oregon hanno veicolato il loro dolore in un suono sentito e malinconico, angosciante il giusto, da qualche parte nel buoio tra Nick Cave e Scott Walker. Il senso di disperazione è palpabile tra i solchi di questo album, una disperazione che viene squarciata dalla voce baritonale del leader e dal violino della Shaw, in un quadro intimista, affascinante e molto più convincente delle precedenti prove della band, troppo imperniato su un post rock a tinte fosche che mai è riuscito a convincere totalmente. Nel dolore i due ci consegnano innegabilmente il loro miglior lavoro.
Prosegue senza sosta anche nel 2018 il viaggio dei chitarristi Chris Eckman (Walkabouts) e Hugo Race (Birthday Party, Bad Seeds, Fatalists), che perdono per strada Chris Brokaw (Codeine, Come), ma non la loro voglia di esplorare strade nuove e culture diverse. Il viaggio dei Dirtmusic prosegue dal Mali fino alla Turchia, altro paese in crisi sociale e politica. Qui i due hanno fatto comunella con una vecchia conoscenza come Murat Ertel, che con il suo saz elettrificato ha reso unico ed intrigante il suono del gruppo psych-dub Baba Zula. Inevitabilmente l’umore del nuovo album Bu Bir Ruya risente dell’atmosfera incontrata dai musicisti in studio ad Istanbul proprio quando parte dell’esercito tenta un colpo di stato per rovesciare il governo del presidente Erdogan. Il risultato è un disco evocativo, più scuro e meno blues, arricchito da altri splendidi ospiti come la voce della canadese Brenda McCrimmon e le percussioni tribali di Ümit Adakale. “Go The Distance” è una delle tracce più ipnotiche ed evocative del lotto.
Ho parlato in passato più di una volta di un’etichetta norvegese chiamata Hubro. Una grafica riconoscibile e molti progetti interessanti che sanno spaziare dall’avant-jazz all’elettroacustica. I Moon Relay vengono da Oslo e sono composti da Daniel Meyer Grønvold (chitarra, basso, percussioni, piano, synth, nastri), Håvard Volden (chitarra, basso, synth, nastri), Ola Høyer (basso) e dal nuovo batterista Christian Næss, arrivato per completare le sessions del loro terzo album in studio intitolato IMI. La band mette in campo molte influenze, nstrumental influences, dalla ritmica profondamente krautrock, ad un’attitudine tra psichedelia e jazz, prendendo a piene mani anche da alcune band post-punk e no wave degli anni ’80. Il risultato è un disco ipnotico fin dalla copertina (e dai titoli delle tracce, come la “[^] II” che trovate in questo podcast). Un collage irresistibile ascoltando il quale è impossibile tenere le gambe ferme: riffs ripetitivi, un groove intenso, un intricato motorik ritmico che tiene sempre vivo l’ascolto. Probabilmente se avessero un cantante sarebbero ancora più interessanti. Una splendida conferma.
Una curiosa sinergia tra musicisti ha portato alla creazione di una band chiamata semplicemente E. L’unione tra Thalia Zedek (Come, Uzi, Live Skull), Jason Sanford (Neptune), e Gavin McCarthy (Karate), ha prodotto già due album. I tre hanno saputo assemblare la forza esplosiva del suono industriale con la calma dei songwriters più esperti. I membri della band hanno suonato in band che hanno esplorato più campi della scena rock, dal noise dei Neptune al post rock dei Karate. Ognuno ha portato in dote le proprie esperienze, e il nome scelto significa che i tre componenti hanno lo stesso peso specifico all’interno della band, come dimostra la lunghezza uguale delle tre “stanghette” della lettera E. Certo, scegliere un nome così è un po’ una cattiveria, provate voi a trovarlo sui negozi online o su Spotify… Tra sperimentazione e maturità espressiva, il trio ha sviluppato un suono che vuole essere tanto meccanico quanto emozionale e che loro stessi hanno descritto come “soul music for machines”. Il secondo lavoro si intitola Negative Work, e se possibile migliora ancora i meccanismi che sembravano già oliati nell’eponimo album di esordio. Ascoltate “The Projectionist” nel podcast e “Hole In Nature” qui sotto per credere.
La scena avant jazz scandinava è sempre molto attiva, basti pensare a band come Fire! o The Thing. Bassista di questi ultimi, Ingebrigt Håker Flaten si è trasferito nel 2006 a Chicago e due anni più tardi ad Austin, Texas, dove ha dato vita ad un collettivo tra i più interessanti ed eccitanti in circolazione. La band prende il nome The Young Mothers da una comunità di Houston per madri adolescenti dove faceva volontariato la compagna di Flaten. La line-up comprende il batterista Frank Rosaly (acclamato session-man di Chicago che ha suonato, tra gli altri con Ryley Walker, Peter Brötzmann, Jeff Parker e Thurston Moore), il percussionista, cantante e vibrafonista Stefan González (Yells At Eels, Akkolyte), il sassofonista Jason Jackson, il chitarrista Jonathan F. Horne (Plutonium Farmers) e Jawwaad Taylor, tromba, elettronica e voce, fondamentale nel dare un’impronta di modernissimo hip-hop freeform al collettivo. Dopo il riuscito A Mothers Work Is Never Done pubblicato nel 2014, Morose non solo conferma quanto di buono avevano già prodotto, ma se possibile rende ancora più coinvolgente questo suono che mischia in maniera esuberante avant-jazz, hip-hop, funk e addirittura grindcore, creando un melting pot culturale che affascina e colpisce risoluto dritto al cuore.
L’approccio personale e visionario di Heather Leigh alla pedal steel guitar ci aveva già convinto nel 2015 ascoltando il suo primo album solista I Abused Animal. Visto che ormai la fanciulla è diventata il riferimento della scena avant-improv-noise per quanto riguarda il suo particolare strumento, non stupisce affatto l’unione con il sassofono del veterano della scena avant-jazz Peter Brötzmann sia live che in studio. La regina della pedal steel è tornata con Throne, un disco che evoca al solito una straniante sensualità, ma stavolta con modalità diverse. Innanzitutto si fa accompagnare da due musicisti, John Hannon al violino e synth, e David Keenan (marito della Leigh e firma dello splendido magazine The Wire) al basso. Ma non è l’unica novità. Le asperità del suo esordio solista e (ancor di più) dei suoi lavori con Brötzmann vengono smussate dalla voce della stessa Leigh, impegnata nel contrastare in maniera melodica le impennate furenti del suo strumento. Sono a volte canzoni d’amore perverse, intrise di una sessualità sovversiva e intrigante, spesso della durata di una canzone “pop” tranne la lunga “Gold Teeth” che si dipana per oltre un quarto d’ora con i suoi saliscendi emozionali. Heather Leigh con questo album cerca una nuova strada, trovando l’album più “pop” della sua carriera pur senza rinunciare alle dissonanze del suo incredibile strumento. Ascoltate l’evocativa “Soft Seasons” per credere.
Il percorso dei Parquet Courts da Brooklyn, dopo lo splendido Human Performance del 2016, si arricchisce di un nuovo ed eccitante capitolo. Wide Awake! è un album dove si miscelano ancora una volta in maniera perfetta tutte le loro suggestioni e ispirazioni: indie rock, psichedelia e spruzzate post-punk. Il tutto condito da uno spiccato senso della melodia e da una capacità di scrittura che riescono ad elevare la band al di sopra della media. Pochi hanno la loro personalità, pochi riescono a rendere così attuali generi che hanno avuto il loro apice nel passato. Il loro suono è spesso spigoloso ma capace di aprire squarci melodici di grande effetto, il tutto condito da gran un senso dell’ironia. L’album, prodotto da Danger Mouse, è il compimento di tutte le loro esperienze ed influenze, tra post punk e funk noise, pop e lo-fi, tutto espresso con una lucidità ed una bravura disarmante come nella trascinante “Before The Water Gets Too High” inserita in scaletta.
Cooper Crain è un bel genietto: musicista e produttore (Ryley Walker), ama il krautrock e la psichedelia che diffonde a piene mani nei suoi progetti principali: Cave e Bitchin’ Bajas. I Cave si formano nel 2006 e dopo un inizio carriera incentrato sulle tessiture krautrock, dal 2013 con l’album Threace hanno innestano nel loro motorik, una benzina estremamente potente formata da una scoppiettante miscela black funk anni ’70. Cooper Crain, Dan Browning, Rex McMurry e Jeremy Freeze vengono raggiunti per questo nuovl Allways in pianta stabile dal sassofonista e flautista Rob Frye. E se proprio Frye aveva saputo rendere così particolare il groove afro-psichedelico del disco precedente, stavolta i Cave riescono a stupirci ancora una volta, esplorando stavolta con successo il magico mondo della disco music anni ’70, naturalmente senza perdere di vista le loro suggestioni kraut, psichedeliche e funkeggianti. Le loro visioni sonore non mancano mai di stupire ed affascinare, trovando mille sfumature ascolto dopo ascolto. Ascoltate “The Juan” nel podcast e “Beaux” qui sotto per entrare nel groove del gruppo.
Queen’s Head Pub, Brixton, sud di Londra. In questo locale, primo quartier generale dei Fat White Family, il cantante Charlie Steen insieme ai suoi quattro compagni di avventura hanno dato vita al progetto Shame. La band fa dunque parte di questa nuova scena molto interessante nata nel sud della capitale britannica, insieme ad altre realtà come Goat Girl e Dead Pretties. Nel corso dell’ultimo anno, queste formazioni sono riuscite tutte ad ottenere un contratto discografico, creando qualcosa di nuovo per la scena musicale britannica: un nutrito gruppo di musicisti giovani concentrati sulla creazione di un personale suono guitar-oriented. A scanso di equivoci non possiedono la feroce aggressione verbale di Idles o Sleaford Mods, ne l’anarchia sghemba e “malata” dei Fat Whites, ma il loro approccio di insofferente strafottenza rende il loro album di esordio Songs Of Praise estremamente godibile. Quando l’assalto si fa più sfrontato, abrasivo e rumoroso, il gruppo sembra perdere colpi e lucidità, soprattutto rispetto a conterranei come i più maturi Idles. Ma quando fanno prevalere le loro urgenti melodie e la capacità di far esplodere riffs e ritornelli, riescono ad essere assolutamente irresistibili. La mia speranza è che Charlie Steen e compagni possano mantenere non solo la loro genuina strafottenza stradaiola, ma soprattutto l’attitudine a sfornare con facilità dirompenti e memorabili ritornelli. È li che la band del sud di Londra riesce a fare davvero la differenza. “The Lick” è stato il loro primo singolo e, nella sua nuova e definitiva versione registrata per l’album di esordio, risulta perfettamente equilibrato con il vocalist Charlie Steen assolutamente a suo agio nell’esprimere la bipolarità spokenword/urlaliberatoriepostpunk.
La Scandinavia negli ultimi anni è stata davvero generosa nel fornire input musicali straordinari. I The Skull Defekts purtroppo arrivano a fine corsa dopo una carriera di grande qualità musicale ed onestà artistica. Joachim Nordwall (bassista del gruppo e fondatore della iDEAL records) iniziando a registrare questo nuovo album ha dovuto fronteggiare l’assenza del cantante Daniel Higgs, frontman dei Lungfish che era entrato nella band quasi in pianta stabile e del percussionista Jean-Louis Huhta, attirato da altre forme musicali. Ma non voleva il suo diario incompiuto senza scrivere l’ultimo capitolo. La positiva disperazione del leader accompagnato da Henrik Rylander, Daniel Fagerström e dalla nostra vecchia conoscenza Mariam Wallentin (Wildbirds & Peacedrums, Fire! Orchestra e Mariam The Believer) come quarto membro del gruppo ha portato i risultati sperati. Il loro album autointitolato è probabilmente il migliore registrato dalla band, nello studio si respirava da una parte la felicità nel comporre e registrare insieme e dall’altra la consapevolezza della fine di un ciclo. Le loro ballate oscure e tribali non ci sono sembrate mai così coinvolgenti, percussive, ottundenti nel loro approccio industriale impreziosito dalla splendida voce della Wallentin. Un gruppo che personalmente mi mancherà moltissimo.
A volte capita che arriva un album a fine anno capace di farti rivedere la classifica che a fatica era stata compilata. Tutto mi aspettavo tranne il ritorno di uno dei gruppi di culto del lo-fi statunitense di due decenni or sono. I Wingtip Sloat dalla Virginia avevano pubblicato due splendidi lavori a metà degli anni ’90 salvo poi scomparire nel nulla. Sono riemersi dall’oblio sul finire del 2018 per scombussolare la mia classifica. Purge And Swell è un “normale” album di 10 tracce ma all’interno troviamo un CD intitolato Lost Decade, composto da ben 31 tracce per un totale di 76 minuti di musica. E se le dieci tracce del vinile contengono le classiche ballate lo-fi della band che richiamano echi di Pavement e Swell Maps, l’ora e passa di musica contenuta nel CD bonus rispecchia il lato più coraggioso della band. Infatti i 31 brani registrati tra il 2013 ed il 2016 contengono brevi bozzetti strumentali, brani esemplari e geniali riusciti meravigliosamente, e persino alcune irriconoscibili cover di personaggi come Brian Eno, Bob Dylan, Wire, e Belle & Sebastian tra gli altri. Sopra tutto c’è la passione di una band che pur non incidendo nulla negli ultimi 20 anni, non ha mai perso la passione di comporre e suonare insieme.
Ty Segall arriva al decimo album in studio in un lasso di tempo relativamente breve, per non contare le varie collaborazioni ed EP vari. Insomma, il caro buon “vecchio” Ty non è certo uno che ama starsene con le mani in mano. Non sempre le sue proposte mi hanno convinto, troppo impegnato a fare la rockstar alternativa compilando degli zibaldoni spesso confusionari. Ma stavolta con Freedom’s Goblin, nonostante la vastità della proposta (album doppio composto da 19 tracce), riesce a colpire nel segno. Ty si affida a Steve Albini ed il suo compendio di rock alternativo tra momenti di puro songwriting, ballate, classici garage rock o cover funkettone come la splendida “Every 1’s a Winner” degli Hot Chocolate, sfoderando una sana propensione all’eclettismo. Senza compiacersi o forzare troppo la mano, stavolta Ty Segall trova la quadratura del cerchio divertendosi e facendo divertire. “Alta” è uno dei vertici dell’album.
Ci sono dei revivalisti che sono capaci di ripercorrere le polverose strade blu americane con tale forza espressiva da risultare clamorosamente vere ed attuali. Qualche tempo fa avevo parlato di Wayne Hancock, adesso è la volta di Jim Heath aka Reverend Horton Heat. Il menu di questo suo nuovo lavoro intitolato Whole New Life è davvero classico: rockabilly, rock ‘n’ roll classico, psychobilly, RNB, varie reminiscenze sixties e la cover finale di un classico di Elvis come “Viva Las Vegas”. Ma credetemi, tutto suona vivo, pulsante, vibrante, emozionante come fosse nuovo di zecca, canzoni scritte in maniera meravigliosa ed interpretate con una passione coinvolgente. Insieme al batterista RJ Contreras, al contrabbassista Jimbo Wallace e dal pianista Matt Jordan il Reverendo Jim Heath ci fa perdere lungo le vecchie strade americane come nessun altro. “Don’t Let Go Of Me” è una ballata straordinaria.
Maurice Louca: compositore egiziano, manipolatore di beats e tastierista, appassionato di musica mediorientale e free jazz. Sam Shalabi: chitarrista canadese compositore di moltissime colonne sonore di film indipendenti e membro fondatore dei Shalabi Effect e Land Of Kush. Alan Bishop: contrabbassista e sassofonista americano, appassionato di tradizioni mediorientali e fondatore dei Sun City Girls. Nel 2012 ad Agouza, distretto di Giza, periferia del Cairo, questi tre musicisti si trovano a condividere lo stesso appartamento, e decidono di unire le proprie forze creando un nuovo progetto che possa sposare in qualche modo la tradizione musicale del medio oriente, con la psichedelia e l’improvvisazione. Nascono così i The Dwarfs Of East Agouza, che con il loro album di esordio intitolato Bes ci portano in un viaggio tra dune desertiche ed asteroidi siderali, una sorta di psichedelia etnica che lascia molto all’improvvisazione e al flusso emozionale dei musicisti, come nella miglior tradizione del genere. Lo scorso anno Alan Bishop dietro al moniker di Alvarius B ci ha portato in giro con un magico triplo album lungo le strade della tradizione americana, mentre con i due compagni di avventura ha pubblicato questo Rats Don’t Eat Synthesizers (stranamente ignorato dal mondo delle webzines musicali italiane), con cui i tre continuano e completano questo viaggio incredibile tra le tradizioni mediorientali e l’improvvisazione con due lunghe tracce registrate tra il 2015 ed il 2016. L’ennesimo flusso lisergico ed estatico, un’esperienza magica ed immaginifica da fare aprendo mente ed orecchie.
Di Neneh Cherry abbiamo parlato in molte occasioni, sin da quando giovanissima militava nei Rip Rig & Panic, band del marito Bruce Smith, cui prestava spesso e volentieri la sua splendida voce. Nata come Neneh Mariann Karlsson ha utilizzato il cognome del padre adottivo, il celebre trombettista jazz Don Cherry. Dopo l’esperienza con la celebre band, ha provato con successo l’avventura solista negli anni ’90 con due ottimi lavori come Homebrew e Man. raggiungendo il successo nel 1994 con “7 Seconds”, duetto con il senegalese Youssou N’Dour. Ancora un decennio di silenzio prima di formare una nuova band chiamata CirKus con Burt Ford (soprannome dell’attuale marito Cameron McVey). Molte collaborazioni, prima di tornare ad incidere insieme al gruppo avant-jazz The Thing un album di cover intitolato The Cherry Thing, in cui esplorava avidamente le sue radici. Il suo primo album solista dopo 18 anni è uscito nel 2014 e si intitola Blank Project, realizzato con la complicità di un genio dell’elettronica come l’inglese Kieran Hebden aka Four Tet. Ed è ancora Hebden a sedersi dietro alla consolle per questo nuovo Broken Politics, un disco dove le atmosfere e i ritmi tribali si sposano perfettamente con la sua sempre splendida voce. Come il suo predecessore mantiene l’impegno sociale dei testi, anche se risulta un filo meno aggressivo musicalmente, con le tessiture elettroniche più in vista e alcune mirate collaborazioni (Robert “3D” Del Naja dei Massive Attack nella splendida “Kong”), o splendidi campionamenti (il sax dello storico collaboratore del padre adottivo Ornette Coleman in “Natural Skin Deep”) ad impreziosire un lavoro come sempre di un’eleganza formale straordinaria. “Shot Gun Shack” è una delle migliori tracce del lotto.
Un grazie speciale va, come sempre, a Franz Andreani per la nuova veste grafica attiva già dallo scorso anno. A cambiare non è solo la versione web2.0 del sito, ma anche la “filosofia” della podradio, con le rubriche che vanno ad integrarsi nella programmazione regolare sotto l’hashtag #everydaypodcast. Tutte le novità le trovate sempre aggiornate in tempo reale sulla nostra pagina Facebook.
Nell’11° Episodio andremo a scoprire le prime 15 posizioni della Classifica dei migliori dischi usciti nel 2018 secondo l’insindacabile giudizio della redazione di Sounds & Grooves. Il tutto, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
Intanto se volete potete sfruttare la parte riservata ai commenti qui sotto per darmi suggerimenti, criticare (perché no), o proporre nuove storie musicali. Mi farebbe estremamente piacere riuscire a coinvolgervi nella programmazione e nello sviluppo del mio sito web.
Se volete ascoltare o scaricare il podcast, potete farlo anche dal sito della stessa PodRadio cliccando sulla barra qui sotto. Buon Ascolto
TRACKLIST
01. WREKMEISTER HARMONIES: Descent Into Blindness da ‘The Alone Rush’ (2018 – Thrill Jockey)
02. DIRTMUSIC: Go The Distance da ‘Bu Bir Ruya’ (2018 – Glitterbeat)
03. MOON RELAY: [^] II da ‘IMI’ (2018 – Hubro)
04. E: The Projectionist da ‘Negative Work’ (2018 – Thrill Jockey)
05. THE YOUNG MOTHERS: Attica Black da ‘Morose’ (2018 – Self Sabotage Records)
06. HEATHER LEIGH: Soft Seasons da ‘Throne’ (2018 – Editions Mego)
07. PARQUET COURTS: Before The Water Gets Too High da ‘Wide Awake!’ (2018 – Rough Trade)
08. CAVE: The Juan da ‘Allways’ (2018 – Drag City)
09. SHAME: The Lick da ‘Songs Of Praise’ (2018 – Dead Oceans)
10. THE SKULL DEFEKTS: Powdered Faces da ‘The Skull Defekts’ (2018 – Thrill Jockey)
11. WINGTIP SLOAT: Spanish Encores / Giddy In Palestine da ‘Purge And Swell / Lost Decade’ (2018 – VHF Records)
12. TY SEGALL: Alta da ‘Freedom’s Goblin’ (2018 – Drag City)
13. REVEREND HORTON HEAT: Don’t Let Go Of Me da ‘Whole New Life’ (2018 – Victory Records)
14. THE DWARFS OF EAST AGOUZA: Rats Don’t Eat Synthesizers da ‘Rats Don’t Eat Synthesizers’ (2018 – Akuphone)
15. NENEH CHERRY: Shot Gun Shack da ‘Broken Politics’ (2018 – Smalltown Supersound)