Ecco il diciassettesimo podcast di Sounds & Grooves per la 18° stagione di RadioRock.TO The Original
In questa nuova avventura in musica troverete una parte iniziale deflagrante, un ricordo di due artisti fondamentali, una piccolissima panoramica sul folk britannico e un gran finale onirico
Eccoci puntuali con l’appuntamento quindicinale di Sounds & Grooves che per il 18° anno consecutivo impreziosisce (mi piace pensarlo) lo straordinario palinsesto di www.radiorock.to. 18 anni…siamo diventati maggiorenni!!!! A pensarci è incredibile che sia passato già così tanto tempo da quando abbiamo iniziato questa folle ma fantastica avventura. Come (credo) sappiate, la nostra podradio è nata per dare un segnale di continuità con quella meravigliosa radio del passato che molti custodiscono nel cuore e a cui ho provato a dare un piccolo contributo dal 1991 al 2000.
Sappiamo tutti benissimo che la Radio Rock in FM come la intendevamo noi è sparita da tanto tempo, ma in tutti questi anni di podcast sul web abbiamo cercato di tenere accesa quella fiammella per poi tentare di moltiplicarla, facendola diventare un faro di emozioni e qualità musicale. Perché la passione e la voglia di fare radio, la voglia di ascoltare e di condividere la musica di qualità, nonostante tutto, non ci è mai passata.
Questa creatura continua orgogliosamente a remare controcorrente, cercando quella libertà in musica che nell’etere è ormai diventata una mosca bianca, ed esprimendo con forza la passione per la condivisione, per la ricerca, per l’approfondimento. Non dobbiamo aderire ad una cieca linea editoriale che ormai spinge esclusivamente il pulsante play dei servizi di streaming, ma ci lasciamo guidare semplicemente dal nostro cuore e dalla nostra passione. Fulvio Savagnone, Marco Artico, Giampiero Crisanti, Franz Andreani, Flavia Cardinali, Francesco Cauli, Ivan Di Maro, Massimo Santori aka Moonchild, Maurizio Nagni ed io proviamo ogni giorno a coinvolgervi con i nostri podcast regolari e con le rubriche tematiche di approfondimento, sperando di farvi sentire sempre di più parte di questa fantastica avventura.
In questi 74 minuti di musica parleremo dell’uscita di un disco epocale come l’esordio dei Ramones prima di fare andata e ritorno nel tempo con il post hardcore dei Girls VS Boys, il punk mutante e colto dei Wire, l’eclettismo sonoro degli Elegiac creati proprio da Graham Lewis e le asperità degli E di Thalia Zedek. Festeggeremo il 25 anniversario dell’uscita dello splendido The Ideal Crash dei dEUS, ricorderemo due artisti fondamentali come David Bowie e Tom Petty, ascolteremo le melodie senza tempo dei Felt e quelle di una rinata Jane Weaver. Faremo un piccolo giretto nella storia del folk, prima in Inghilterra a fine ’60 con i fondamentali Fairport Convention poi in Irlanda a fine ’70 con The Bothy Band, prima di trasferirci anche noi a Portland per ascoltare i Nightnoise. Il finale sarà appannaggio dei paesaggi onirici degli Hood. Il tutto, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
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Iniziamo il podcast con un gruppo che 52 anni fa ha provocato uno cambiamento epocale nel mondo del rock. Come detto, lo tsunami del Punk si è abbattuto sulle terre emerse musicali nel 1976, devastando territori e radendo al suolo (o quasi) le ultime vestigia del progressive. L’epicentro del terremoto che generò cotanta onda fu negli Stati Uniti, in particolare il 7″ dei Ramones intitolato “Blitzkrieg Bop”, anche se poi fu geniale il caro buon vecchio Malcom McLaren ad esportare il movimento in UK creando i Sex Pistols che fecero sconquassi nel regno della perfida Albione. I Ramones, come detto pietra angolare del movimento punk, erano nati nel 1974 dall’incontro a Forest Hills, nel Queens (New York), del cantante Joey Ramone (Jeffrey Ross Hyman) con il chitarrista Johnny Ramone (John William Cummings), il bassista Dee Dee Ramone (Douglas Glenn Colvin) e il batterista Tommy Ramone (Tamás Erdélyi). Ogni componente scelse Ramone come cognome d’arte proprio per dare maggior compattezza e dare l’idea di essere fratelli: stesso cognome, stesso look.
L’essenza stessa del punk fu la continuazione del garage rock suonata da persone senza una grande preparazione musicale. L’idea che chiunque avrebbe potuto avere l’opportunità di salire su un palco, l’eliminazione (o quasi) della divisione musicisti-pubblico. I Ramones già dall’inizio suonavano brani scritti da loro stessi ed adattati ai loro limiti, con testi spesso autobiografici, oppure ironici, divertenti e privi di significati politici. Dalle prime serate disastrose al CBGB i quattro iniziarono a farsi un nome fino ad entrare in sala di registrazione per il primo album con un budget di appena 6000 dollari. L’esordio, intitolato semplicemente Ramones fu pubblicato il 23 Aprile 1976. La copertina è celebre tanto quanto il contenuto del disco stesso: nella foto realizzata da Roberta Bayley sono raffigurati i membri del gruppo appoggiati ad un muro poco distante dall’ingresso dello storico club CBGB, i quattro indossano jeans sdruciti e strappati al ginocchio, scarpe da tennis consunte, giubbotti in pelle nera, abbigliamento che li caratterizzerà. “Blitzkrieg Bop” non è solo l’apertura di un disco ma di un genere destinato a sovvertire il mondo musicale e non solo.

Torniamo a parlare di post-hardcore anni ’90, e lo facciamo con una band che colpevolmente ho passato molto raramente nei miei podcast. I Girls Against Boys di Washington nascono dalle ceneri dei Soulside e si impongono quasi subito come uno dei gruppi più esplosivi ed eccitanti della scena grazie alla voce ruvida e potente di Scott McCloud e all’uso del doppio basso che li rende davvero unici. Cruise Yourself è il loro terzo album in studio, esce nel 1994, ed ha il difficile compito di non far rimpiangere il precedente Venus Luxury Baby N.1, probabilmente il capolavoro del gruppo.
Il risultato è un sound non selvaggio come il disco precedente ma capace di mediare l’assalto frontale con sofisticate aperture di tastiere e rimandi alla psichedelia degli anni ’60. L’alternanza tra i brani più tirati e quelli più ad ampio respiro rimane, e “Psychic Know-How” è uno di quei brani dove entrambe le anime del gruppo coesistono perfettamente, mostrando una cifra stilistica tanto ispirata quanto efficace.

Una curiosa sinergia tra musicisti ha portato alla creazione di una band chiamata semplicemente E. L’unione tra Thalia Zedek (Come, Uzi, Live Skull), Jason Sanford (Neptune), e Gavin McCarthy (Karate), ha prodotto già cinque album, l’ultimo, appena uscito, si intitola Living Waters e vede l’ingresso del nuovo batterista Ernie Kim. I tre hanno saputo assemblare la forza esplosiva del suono industriale con la calma dei songwriters più esperti. I membri della band hanno suonato in band che hanno esplorato più campi della scena rock, dal noise dei Neptune al post rock dei Karate. Ognuno ha portato in dote le proprie esperienze, e il nome scelto significa che i tre componenti hanno lo stesso peso specifico all’interno della band, come dimostra la lunghezza uguale delle tre “stanghette” della lettera E.
Certo, scegliere un nome così è un po’ una cattiveria, non è un’esperienza semplice trovarli sui negozi online o su Spotify… Tra sperimentazione e maturità espressiva, il trio ha sviluppato un suono che vuole essere tanto meccanico quanto emozionale e che loro stessi hanno descritto come “soul music for machines”. Il secondo lavoro si intitola Negative Work, e se possibile ha migliorato ancora i meccanismi che sembravano già oliati nell’eponimo album di esordio. Ascoltiamo insieme “The Projectionist” per capire cosa intendono. Il quinto lavoro, uscito da pochissimi giorni per l’etichetta Silver Rocket, ha confermato il trio come una delle realtà più solide del rock alternativo.

Il podcast prosegue con un altro gruppo che ha fatto eccome la storia del rock. I Wire si formano a Londra nel 1976, in piena era punk, ma Colin Newman, fondatore della band, studente d’arte e grande amico di Brian Eno, riuscì a creare un suono unico, debitore solo in parte dello tsunami che si stava abbattendo sul mondo musicale in quei mesi. I quattro componenti del gruppo si diversificano per la loro formazione accademica. Non sono mai stati il tipico gruppo stradaiolo, ed il loro punk si mostra già dall’inizio mutante per le sue costruzioni oblique e stranianti che già dal secondo album Chairs Missing si rivolgeranno verso la new wave e verso una personale forma di psichedelia.
154 è il loro terzo lavoro, ultimo ad uscire per la Harvest, storica etichetta sussidiaria della EMI creata nel 1969 ed associata soprattutto ai Pink Floyd, fatto che aveva fatto dare loro dalla stampa britannica il nomignolo di “Punk Floyd”. E’ il disco della perfezione formale, dove la loro ritmica nervosa si apre in inaspettate aperture pop di avanguardia. Ascoltate la melodia perennemente in tensione di “Map Ref. 41ºN 93ºW”. Dopo brusche rotture, ricongiungimenti e altre rotture, la band nel 2006 è tornata di nuovo in piena attività mantenendo un ottimo livello qualitativo e sfornando il loro ultimo Mind Hive nel 2020.

Buffo che nelle pagine web italiane non ci sia praticamente spazio per Ted Milton. Eppure è un artista attivo già dagli anni ’60, prima come poeta, burattinaio e visionario, poi come sassofonista e fondatore dei Blurt, gruppo anarchico capace di unire post-punk e a no-wave con singulti jazz. Graham Lewis è sicuramente più conosciuto. Anche lui leader e outsider, bassista (e talvolta cantante) dalla mente brillante che ha contribuito non poco a rendere i Wire (che abbiamo appena ascoltato) uno dei più grandi gruppi degli ultimi 50 anni di rock. Per formare una nuova band (che non sappiamo quanto sia un progetto estemporaneo o destinato ad avere un seguito) ai due si è aggiunto il compositore elettronico e sound artist Sam Britton, già capace in passato, insieme al cugino Ollie Bown, di farci rimanere a bocca aperte per le sue costruzioni sonore sotto il nome di Icarus.
Spesso e volentieri quando musicisti di questo calibro si uniscono, la somma delle parti ha spesso portato a cocenti delusioni se non a flop clamorosi. Ma fortunatamente, come nel caso (ad esempio) degli Springtime, l’intelligenza e il talento di Milton, Lewis e Britton ha condotto i neonati Elegiac ad incidere uno dei dischi più interessanti e non allineati del 2021. Beats seducenti, spoken word, interventi di sax, innesti dub, il tutto frullato da tre musicisti dalla enorme personalità che rendono brani come la “The Swish” inserita in scaletta come diamanti grezzi e dalla inestimabile suggestione. Il loro album eponimo è senza dubbio uno dei lavori più intriganti usciti negli ultimi anni.

Antwerp, Belgio. Non propriamente una città e una nazione dove uno immagina la nascita di una rock band. Ma il chitarrista, cantante e compositore Tom Barman non era d’accordo con questo luogo comune e ha creato il primo nucleo di una band che pesca a piene mani dal folk, dal post punk, dal rock in generale. Barman si prenderà una bella rivincita, perché i suoi dEUS diventeranno, dopo non troppi anni, la prima band belga a firmare un contratto con una major internazionale come la storica Island Records. Nel 1998 il gruppo ha già inciso due album che hanno riscosso un notevole successo di pubblico e critica e si trova senza il suo chitarrista Rudy Trouvé che ha lasciato dopo il tour di In A Bar, Under The Sea (1996) per intraprendere una carriera più legata alla sperimentazione.
Accolto il chitarrista Craig Ward e sostituito anche il bassista (fuori Stef Kamil Carlens, dentro Danny Mommens), il gruppo, ridotto a quintetto, è entrato in studio cercando di mettere a fuoco le svariate influenze in un suono accessibile e maturo, dove chitarre, archi e fiati potessero trovare un mirabolante equilibrio. Obiettivo che venne raggiunto da The Ideal Crash, disco che ha da poco compiuto la bellezza di 25 anni rimanendo intatto nella nostra memoria. “Sister Dew” con il suo procedimento per strati emozionali, sta li a ricordarci la meraviglia raggiunta da una band tuttora in attività e in forma più che discreta, come dimostra How to Replace It uscito lo scorso anno.

Nelle classifiche di fine 2016 un artista è riuscito a mettere d’accordo riviste e webzine sia mainstream che alternative. Impresa tanto complicata quanto meritata quella riuscita al testamento sonoro di David Bowie intitolato ★(Blackstar). Il disco, pubblicato appena due giorni prima della morte del grande artista, ha fatto in tempo (fortunatamente) ad essere giudicato da quasi tutti per le sue grandi qualità musicali e non per l’onda emotiva generata dalla sua prematura scomparsa. L’album (anche cercando di assorbire l’enorme impatto emozionale), è probabilmente da mettere su un ideale podio delle sue pubblicazioni degli ultimi 20 anni.
Blackstar, ventisettesimo e purtroppo ultimo album dell’artista britannico, è stato registrato insieme a un gruppo di jazzisti newyorkesi guidati dal sassofonista Donny McCaslin, scelta maturata dopo aver assistito a una performance dell’ensemble del musicista in un minuscolo jazz club di Manhattan. All’interno dei 41 minuti di musica, tra rock classico e sperimentazioni, Bowie ci ha voluto lasciare un testamento meravigliosamente intenso ed emozionante, come dimostra la splendida “I Can’t Give Everything Away” che fa calare il sipario sul disco e su una carriera assolutamente straordinaria.

Diciamocelo chiaramente, ci sono artisti che hanno lasciato un segno indelebile e la cui assenza è tuttora un sentimento quasi insopportabile. Questo è sicuramente il caso non solo dei David Bowie che abbiamo appena ascoltato, ma anche di Tom Petty, scomparso appena un anno dopo rispetto al Duca Bianco, autore che ha sempre avuto la capacità di scrivere storie, e di scriverle bene, con il dono della semplice magia da artigiano che possedeva. Petty era nato a Gainsville, Florida, il 20 ottobre 1950. Nel 1970 formò una band chiamata Mudcrutch in cui militavano Mike Campbell e Benmont Trench, diventati poi suoi inseparabili compagni di strada nella sua band chiamata Heartbreakers, che entrò nel cuori di molti nel 1976 con l’album di esordio eponimo.
Nel 1979, dopo il suo secondo album, il gruppo viene trascinato in una disputa legale quando la ABC Records viene venduta alla MCA Records. Petty rifiutò di essere trasferito ad un’altra etichetta discografica e, attenendosi ai suoi principi, tentò di sciogliere il contratto, arrivando anche a dichiarare bancarotta come tattica per vincere la causa contro la MCA. Per ricordare degnamente uno dei miei artisti del cuore ho scelto un brano tratto da Damn The Torpedoes, album pubblicato appena risolta la controversia legale con la casa discografica, e pubblicato dall’etichetta Backstreet, una sussidiaria della MCA. L’album, che diventò in breve tempo disco di platino, comprende brani meravigliosi come la “Here Comes My Girl” inserita in scaletta. Fatevi avvolgere dal suono di un artista che (senza motivo) per molto tempo non è stato neppure profeta in patria e che stranamente nella nostra penisola non ha mai riscosso il successo di altri artisti simili e inferiori come capacità di scrittura.

Ogni tanto mi tocca fare un onestissimo mea culpa quando includo nei podcast artisti che sono passati non propriamente spesso da queste parti. Stavolta non potevo ignorare la storia di un personaggio misterioso e carismatico come Lawrence Hayward, che con i suoi Felt ha scritto pagine di musica assolutamente memorabili durante gli anni ’80. L’amore per Tom Verlaine ed i Television porta il ragazzo di Birmingham a creare musica. Non sarà facile il percorso che porterà Hayward a registrare finalmente nel 1984 il primo mini The Splendour Of Fear: il pessimismo dopo un rifiuto di contratto da parte della label Postcard ma subito dopo un invito di Mark E. Smith in persona per aprire un concerto dei The Fall, tanto da fargli capire che la strada intrapresa era quella giusta.
Da li in poi ci saranno un tour con i Cocteau Twins, l’ingresso del giovane tastierista Martin Duffy (scomparso a fine 2022 che poi suonerà con The Charlatans e Primal Scream) e l’abbandono del chitarrista e co-fondatore Maurice Deebank a sancire il regno di Hayward pronto ad allontanare le venature più scure e a portare i Felt verso una sorta di synth pop ambizioso e raffinato con Forever Breathes The Lonely Word, ispirazione per tanto shoegaze e dream pop degli anni a venire. A rappresentare l’album del 1986 ci sono le straordinarie melodie senza tempo di “All The People I Like Are Those That Are Dead”. Fortunatamente da poco la benemerita Cherry Red ha provveduto a ristampare i dieci dischi pubblicati dalla band, anche se con un artwork, come dire, talvolta discutibile.

Ex membro dei gruppi Kill Laura e Misty Dixon, Jane Weaver è nata a Liverpool nel 1972, iniziando poi una carriera solista nel lontano 2002 con un mini album intitolato Like An Aspen Leaf, che vedeva il contributo, tra gli altri, di due membri degli Elbow. Una carriera contrassegnata da un approccio caleidoscopico all’art-pop, e una produzione che non ha certo inflazionato il mercato, visto che l’appena uscito Love In Constant Spectacle è solamente il dodicesimo album in studio per l’autrice britannica. Devo essere sincero, gli ultimi lavori della Weaver non mi avevano convinto del tutto, lasciandomi un po’ di amaro in bocca, ma stavolta le cose sembrano essere diverse.
Innanzitutto la scelta del produttore, quel John Parish che sembra aver messo più a fuoco la qualità della scrittura. Una serie di canzoni basate sulle emozioni più intime, dove il suo bagaglio sonoro prende vita attingendo dai ganci pop degli Stereolab, da richiami soul e jazz e da alcune tessiture kraut-rock, slanciandosi in maniera eterea grazie alla sua voce che sembra meno monocorde del solito. La title track inserita in scaletta è il giusto riconoscimento ad un album ricco di canzoni intricate e riflessive che si collocano in mezzo a un’atmosfera ipnotica ed evocativa. Stavolta Jane Weaver ha fatto centro.

Cambiamo ambientazione e iniziamo un piccolissimo viaggio all’interno di quel microcosmo meraviglioso che è il folk britannico. Uno dei gruppi più celebri di questa meravigliosa scena si forma a Londra nel 1967 grazie all’unione dei chitarristi Simon Nicol e Richard Thompson con il bassista Ashley Hutchings. I musicisti, nei primi mesi della formazione, si riuniscono per le prove nella casa di famiglia di Nicol, detta Fairport, da cui il nome del gruppo Fairport Convention. Il gruppo parte da una vocazione tra psichedelia e folk, ed una venerazione per la scrittura di Bob Dylan, tanto da venire considerati come la controparte britannica dei Jefferson Airplane. Dopo i primi due album, nel 1969 i tre, completati dalla splendida voce di Sandy Denny e dalla presenza alla batteria di Martin Lamble, iniziano una lenta trasformazione che li porterà ad essere la principale band folk-rock inglese. Già basterebbe la copertina a rendere immortale Unhalfbricking (uscito a luglio 1969). La foto ritrae i genitori di Sandy Denny in piedi davanti alla casa di famiglia al 9B di Arthur Road, a Wimbledon, nel sud di Londra, con la band visibile a distanza attraverso la recinzione del giardino.
Dal punto di vista musicale, oltre alle solite (splendide) cover di Dylan, c’è da segnalare la maturazione incredibile dell’emozionante voce di Sandy Denny (splendida autrice della “Autopsy” inserita in scaletta) e l’innesto, come ospite, del violino di Dave Swarbrick, che poi diventerà un membro effettivo del gruppo. Il 12 maggio 1969, mentre tornava a casa dopo un concerto in un locale di Birmingham, il furgone dei Fairport si schiantò sull’autostrada M1. Il batterista Martin Lamble, che all’epoca aveva appena diciannove anni, e Jeannie Franklyn, la ragazza di Richard Thompson, rimasero uccisi. Il resto della band riportò ferite di varia gravità. Il gruppo fu sull’orlo dello scioglimento ma alla fine i superstiti decisero, insieme al nuovo batterista Dave Mattacks, di andare avanti per concludere il processo di integrazione della musica folk britannica nel rock, che sfocerà nel quarto album Liege & Lief.

Adesso ci trasferiamo dall’Inghilterra all’Irlanda dove sono nati i Planxty, band fondamentale per il folk revival degli anni ’70 formato da Christy Moore insieme a Liam O’Flynn (uilleann pipes), Andy Irvine (voce, mandolino, bouzouki) e Dónal Lunny (bouzouki, synth e voce). Nel 1975 Dónal Lunny, dopo aver lasciato il gruppo per fondare la propria casa discografica, la Mulligan, decise di creare un nuovo gruppo per la sua nuova etichetta. A breve si unirono Paddy Keenan (uilleann pipes), Matt Molloy (flauto e whistle), Paddy Glackin (violino) e Tony MacMahon (accordion). A questo gruppo di musicisti si aggiusero un fratello e una sorella che suonavano nel gruppo tradizionale irlandese Skara Brae: Mícheál Ó Domhnaill alla chitarra acustica e Tríona Ní Dhomhnaill al clavinet e alla voce. Nasceranno così i The Bothy Band, anche se all’inizio il loro nome era Seachtar (sette in irlandese). Il gruppo fu rinominato da Mícheál Ó Domhnaill dopo che Tony MacMahon lasciò il gruppo per lavorare come produttore per la BBC.
La Bothy Band debuttò dal vivo il 2 febbraio 1975 al Trinity College di Dublino, per poi incidere tre album in studio che affermarono il gruppo come una forza musicale di rilievo nella musica tradizionale irlandese. Ripetuti cambi di fiddler fino all’entrata di Kevin Burke che troviamo in questo splendido live intitolato Afterhours (da cui ascoltiamo la trascinante “The Butterfly”) che è anche il canto del cigno del gruppo. Dopo lo scioglimento del gruppo nel 1979, i membri continuarono a svolgere ruoli musicali influenti nel movimento della musica tradizionale irlandese. Lunny tornò nei Planxty insieme a Molloy e in seguito contribuì a formare (insieme a Christy Moore) gli straordinari Moving Hearts. Dopo diversi progetti da solista con Ó Domhnaill, Burke ha fondato i Patrick Street con Andy Irvine e Jackie Daly (ex De Dannan). Ma che fine avranno fatto i fratelli Ó Domhnaill e Ní Dhomhnaill?

Dove eravamo rimasti? Ah sì. Ci stavamo chiedendo che fine avessero fatto Mícheál Ó Domhnaill e sua sorella Tríona Ní Dhomhnaill. Nel 1979, dopo lo scioglimento dei The Bothy Band, Triona era stata convinta dal cantautore Mike Cross a trasferirsi a Chapel Hill, nella Carolina del Nord. Negli Stati Uniti la musicista irlandese mise presto insieme una nuova band di musicisti nordamericani, i Touchstone, autori di due album ad inizio anni ’80 tra folk celtico e americano. Nel frattempo Mícheál insieme al violinista Kevin Burke iniziò una lunga tournee negli USA. Proprio durate la tappa di quel tour del 1980 a Portland, nell’Oregon, Ó Domhnaill incontrò una giovane donna americana, Peg Johnson. I due iniziarono presto una relazione sentimentale, si sposarono e si stabilirono definitivamente a Portland.
Mícheál incontrò Billy Oskay, un violinista di Portland, e i due iniziarono una nuova collaborazione incentrata su una musica capace di integrare musica celtica, jazz e musica classica da camera. Il chitarrista acustico William Ackerman, proprietario dell’etichetta Windham Hill, ascoltò la musica proposta dai due e li mise sotto contratto, pubblicando il loro primo album come duo nel 1984, un disco intitolato Nightnoise. Tre anni dopo anche Tríona Ní Dhomhnaill e il flautista irlandese-americano Brian Dunning si unirono al duo originale formando i Nightnoise. “At The Races” è uno dei brani più conosciuti del gruppo, inserito originariamente nel secondo lavoro del quartetto At The End Of The Evening, ma che nel podcast potete ascoltare nelle versione live registrata per The White Horse Sessions del 1997 con Johnny Cunningham al violino, ultimo album ad essere stato pubblicato dal gruppo. Il brano è stato utilizzato molte volte come sigla delle sue straordinarie trasmissioni dal nostro ex podcaster Massimo Di Roma.

Per chiudere il podcast in bellezza andiamo in Inghilterra e andiamo a rovistare nello scrigno segreto del post-rock britannico. Gli Hood vengono fondati a Wetherby, cittadina non distante da Leeds, dai due fratelli Richard e Chris Adams che cercano di mediare i movimenti che in quel momento andavano per la maggiore in Inghilterra (shoegaze e britpop) con l’indie rock statunitense. Dopo alcuni 7″ e tre lavori sulla lunga distanza abbastanza acerbi e confusi, la band trova finalmente la quadratura del cerchio collaborando con Matt Elliott (all’epoca con i Third Eye Foundation) e pubblicando Rustic Houses Forlorn Valleys.
L’album dilata il suono ed unisce in sei lunghi ed articolati brani il meglio del post-rock britannico. E’ un album che in qualche modo si può paragonare al fantastico Hex dei Bark Psychosis per il modo in cui le pause ed i silenzi riescono a vivisezionare l’anima, per i crescendo emozionali, i field recordings, i brevi giri chitarristici. Mentre i Bark Psychosis scattano un’istantanea del caos e della dispersione metropolitana, gli Hood hanno come paesaggio immaginario l’isolazionismo della campagna, con i rintocchi ovattati e la ricchezza di suoni che vanno a dipingere una serie di spettrali paesaggi rurali. “The Light Reveals The Place” rivela l’alba di un mondo dimenticato, un orizzonte immaginario dove abbandonarsi ai sogni.
Un grazie speciale va, come sempre, a Franz Andreani per la sua passione, la gestione di questa banda di pazzi e per la splendida riorganizzazione del sito già attiva da qualche anno. A cambiare non è stata solo la versione grafica del sito, ma anche la “filosofia” della podradio, con le rubriche che vanno ad integrarsi nella programmazione regolare sotto l’hashtag #everydaypodcast. Sulla nostra pagina Facebook troverete quotidianamente ogni upload del sito e, ormai da tempo, è attivo anche lo splendido canale YouTube della Radio, una nuova formula senza interruzioni ne spot per ascoltare la vostra-nostra musica preferita. Iscrivetevi numerosi, vi aspettiamo!
Nel prossimo episodio parleremo della psichedelia roboante di Anthroprophh e Loop prima di tuffarci tra fine ’70 e ’80 con la scrittura straordinaria di Stan Ridgway e Graham Parker. Faremo andata e ritorno nel tempo con i True West, dimenticati precursori del Paisley Underground, gruppi senza tempo come Breathless, Young Marble Giants e Lambchop, l’eclettismo sonoro dei Levitation e il songwriting di Lael Neale e Entrance. Il gran finale è appannaggio delle meraviglie oniriche dei Labradford, della scrittura dolente e commovente di Vic Chesnutt e di un ispiratissimo Oren Ambarchi. Il tutto sarà, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
Intanto se volete potete sfruttare la parte riservata ai commenti qui sotto per darmi suggerimenti, criticare (perché no), o proporre nuove storie musicali. Mi farebbe estremamente piacere riuscire a coinvolgervi nella programmazione e nello sviluppo del mio sito web.
Per suggerimenti e proposte, scrivetemi senza problemi all’indirizzo e-mail stefano@stefanosantoni14.it.
Potete ascoltare o scaricare il podcast anche dal sito di Radio Rock The Original cliccando sulla barra qui sotto.
Buon Ascolto
TRACKLIST
01. RAMONES: Blitzkrieg Bop da ‘Ramones’ (1976 – Sire)
02. GIRLS AGAINST BOYS: Psychic Know-How da ‘Cruise Yourself’ (1994 – Touch And Go)
03. E: The Projectionist da ‘Negative Work’ (2018 – Thrill Jockey)
04. WIRE: Map Ref. 41ºN 93ºW da ‘154’ (1979 – Harvest)
05. ELEGIAC: The Swish da ‘Elegiac’ (2021 – Upp Records)
06. dEUS: Sister Dew da ‘The Ideal Crash’ (1999 – Island Records)
07. DAVID BOWIE: I Can’t Give Everything Away da ‘★ (Blackstar)’ (2016 – ISO Records / Columbia)
08. TOM PETTY & THE HEARTBREAKERS: Here Comes My Girl da ‘Damn The Torpedoes’ (1979 – Backstreet Records)
09. FELT: All The People I Like Are Those That Are Dead da ‘Forever Breathes The Lonely Word’ (1986 – Creation Records)
10. JANE WEAVER: Love In Constant Spectacle da ‘Love In Constant Spectacle’ (2024 – Fire Records)
11. FAIRPORT CONVENTION: Autopsy da ‘Unhalfbricking’ (1969 – Island Records)
12. THE BOTHY BAND: The Butterfly da ‘Afterhours’ (1979 – Mulligan)
13. NIGHTNOISE: At The Races da ‘The White Horse Sessions’ (1997 – Windham Hill Records)
14. HOOD: The Light Reveals The Place da ‘Rustic Houses Forlorn Valleys’ (1998 – Domino)
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— SoundsAndGrooves (@SoundsGrooves) May 3, 2024