Ecco il diciottesimo podcast di Sounds & Grooves per la 18° stagione di RadioRock.TO The Original
In questa nuova avventura in musica troverete una psichedelia roboante, splendidi songwriters e un finale tra improvvisazione e malinconia
Eccoci puntuali con l’appuntamento quindicinale di Sounds & Grooves che per il 18° anno consecutivo impreziosisce (mi piace pensarlo) lo straordinario palinsesto di www.radiorock.to. 18 anni…siamo diventati maggiorenni!!!! A pensarci è incredibile che sia passato già così tanto tempo da quando abbiamo iniziato questa folle ma fantastica avventura. Come (credo) sappiate, la nostra podradio è nata per dare un segnale di continuità con quella meravigliosa radio del passato che molti custodiscono nel cuore e a cui ho provato a dare un piccolo contributo dal 1991 al 2000.
Sappiamo tutti benissimo che la Radio Rock in FM come la intendevamo noi è sparita da tanto tempo, ma in tutti questi anni di podcast sul web abbiamo cercato di tenere accesa quella fiammella per poi tentare di moltiplicarla, facendola diventare un faro di emozioni e qualità musicale. Perché la passione e la voglia di fare radio, la voglia di ascoltare e di condividere la musica di qualità, nonostante tutto, non ci è mai passata.
Questa creatura continua orgogliosamente a remare controcorrente, cercando quella libertà in musica che nell’etere è ormai diventata una mosca bianca, ed esprimendo con forza la passione per la condivisione, per la ricerca, per l’approfondimento. Non dobbiamo aderire ad una cieca linea editoriale che ormai spinge esclusivamente il pulsante play dei servizi di streaming, ma ci lasciamo guidare semplicemente dal nostro cuore e dalla nostra passione. Fulvio Savagnone, Marco Artico, Giampiero Crisanti, Franz Andreani, Flavia Cardinali, Francesco Cauli, Ivan Di Maro, Massimo Santori aka Moonchild, Maurizio Nagni ed io proviamo ogni giorno a coinvolgervi con i nostri podcast regolari e con le rubriche tematiche di approfondimento, sperando di farvi sentire sempre di più parte di questa fantastica avventura.
In questi 83 minuti di musica parleremo della psichedelia roboante di Anthroprophh e Loop prima di tuffarci tra fine ’70 e ’80 con la scrittura straordinaria di Stan Ridgway e Graham Parker. Faremo andata e ritorno nel tempo con i True West, dimenticati precursori del Paisley Underground, gruppi senza tempo come Breathless, Young Marble Giants e Lambchop, l’eclettismo sonoro dei Levitation e il songwriting di Lael Neale e Entrance. Il gran finale è appannaggio delle meraviglie oniriche dei Labradford, della scrittura dolente e commovente di Vic Chesnutt e di un ispiratissimo Oren Ambarchi. Il tutto, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
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Iniziamo il podcast parlando dei The Heads, gruppo che è stato senza dubbio un patrimonio importante della psichedelia inglese degli anni ’90. Band bristoliana di culto, hanno saputo scrivere pagine importanti di un suono capace di tendere allo spazio ampliandone i limiti. Paul Allen, uno dei due chitarristi della band insieme a Simon Price (che continua a declinare psichedelia liquida sotto il nome di Kandodo), ha intrapreso dal 2012 un viaggio nascosto dietro al moniker di Anthroprophh accompagnato dal basso di Gareth Turner e dalla batteria di Jesse Webb.
Con questo nuovo progetto Allen perpetua la tradizione sonora bristoliana con assalti sonori precisi e rumorosi. Uno sciamanico space-rock psichedelico, tra tribalismo acido e coordinate heavy cosmiche, soprattutto nel secondo album Outside The Circle, uscito nel 2017. Il disco, pubblicato dall’etichetta più associabile ad un certo tipo di musica acida e noise come la Rocket Recordings, riesce a coniugare facilmente la tendenza ai viaggi sonici interstellari con i droni, gli assalti all’arma bianca con l’ispirazione garage, come dimostra la “Dead Man On The Scene” inserita in scaletta.
Senza ombra di dubbio uno dei gruppi da cui gli Anthroprophh hanno tratto ispirazione sono stati i Loop con i loro viaggi psichedelici. Fondati a Londra nel 1985 dal chitarrista Robert Hampson, sono stati estremamente importanti per quella scena neopsichedelica inglese che affondava le radici nel kraut rock creando un suono che verrà preso a piene mani dalla corrente shoegazing. Tre album al loro attivo dal 1987 al 1990 prima della reunion e della conseguente pubblicazione dell’EP Array 1 nel 2015. La coesistenza di rumore e melodia, la ritmica pesante, la circolarità psichedelica li hanno resi assolutamente fondamentali come dimostra questa splendida “Fade Out”, title track del loro secondo album in studio pubblicato nel 1989.
I Loop sapevano come colpire per pesantezza ed impatto e il diabolico Hampson dimostrava spesso l’abilità enorme di saper azionare uno scambio nascosto tra i binari mandando un treno in corsa sui binari di pesanti feedback chitarristici, creando un’atmosfera scura e solo apparentemente immobile. Terminata l’avventura nel 1991, Hampson insieme all’altro chitarrista dell’ultima formazione dei Loop, Scott Dawson, cambiò strada con il meraviglioso isolazionismo dei Main, ma quella è un’altra storia, forse più adatta alla rubrica Droni e Bordoni. Come detto, nel 2013 i Loop si sono riformati con una formazione che ricalca l’epoca dell’ultimo lavoro in studio Gilded Eternity e comprende Robert Hampson, John Wills, Neil Mackay e Scott Dowson. Se siete interessati, l’intera discografia dei Loop è stata ristampata una decina di anni fa.
44 anni fa usciva il primo EP di un gruppo che, pur teoricamente venendo fuori dalla scena del punk californiano, optava per un suono che in maniera straordinaria univa ambientazioni scure ad aperture pop, brandelli di elettronica ed un gusto per le colonne sonore Morriconiane. I Wall Of Voodoo, così si chiamavano, faranno poi uscire due album straordinari, incentrati sulla voce inconfondibile e sui testi evocativi e talvolta drammatici di Stan Ridgway. Il cantante californiano lascerà il gruppo all’apice del successo (insieme al tastierista Bill Noland e al batterista Joe Nanini), vista la situazione interna sempre più caotica, con un grande uso di droghe e un comportamento fuori controllo da parte dei musicisti, oltre a un comportamento losco da parte del management e dell’etichetta discografica. L’esordio solista non sarebbe potuto essere più riuscito e significativo. The Big Heat esce nel 1986, e Ridgway ha il controllo completo della situazione e di quelli che sono i suoi obiettivi.
Psichedelia, radici country, un equilibrio mantenuto perfettamente tra malinconia e allegria, con i suoi straordinari personaggi a loro modo eroici a far capolino da ogni brano. Come nella conclusiva ballata da cowboy chiamata “Camouflage”, raccontata in prima persona da un giovane soldato dei Marines degli Stati Uniti durante la guerra del Vietnam che durante una missione di ricerca e distruzione si separa dalla sua pattuglia. Da solo nella giungla, si sente circondato e comincia ad avere paura, ma in quel momento, un soldato invincibile che si presenta come Camouflage arriva in suo soccorso e i due combattono insieme riuscendo a tornare alla base. Il soldato solo successivamente verrà informato che Camouflage era un soldato morto la sera prima che aveva espresso il desiderio di salvare un giovane marine.
Il podcast prosegue con un altro artista che non ho mai passato nei miei podcast come meritava. Graham Parker è nato ad Hackney, East London, nel 1950, fan dei Beatles e della musica soul già da giovanissimo iniziò a suonare la chitarra e a comporre le sue canzoni già permeate di rabbia e ribellione. La sua attitudine di pub rocker lo portò ad incontrare moltissimi musicisti, tra cui quelli che poi diventarono la sua backing band per molti anni: i The Rumour. Il gruppo, composto da musicisti provenienti da seminali band proto-punk, era composto dai chitarristi Brinsley Schwarz e Martin Belmont, il bassista Andrew Bodnar, il tastierista Bob Andrews e il batterista Steve Goulding. Insieme iniziarono la loro fortunata relazione nel 1976 con l’album di debutto Howlin’ Wind.
La sinergia tra Graham Parker & The Rumour continuò fino al 1980 trovando la definitiva consacrazione nel 1979 con il loro quarto album intitolato Squeezing Out Sparks, che stranamente non riporta la denominazione “& The Rumour” sulla copertina, ma solo sulle etichette del vinile. Nell’album Parker mise per un attimo da parte la sua vocazione soul, lasciando da parte la sezione fiati in favore di un suono più diretto. Paradossalmente i Clash nello stesso anno stavano facendo il percorso opposto, utilizzando la sezione fiati dei Rumour. Anche nei testi l’approccio era il medesimo, con Parker che cercava di catturare l’essenza della vita nelle periferie inglesi. “Local Girls” riflette questo disegno da parte di Parker ed è specchio fedele di uno dei migliori album usciti dalla penna di questo straordinario musicista britannico.
Quante volte abbiamo parlato su queste pagine di quella fantastica scena di neo-psichedelia californiana dei primi anni ’80 chiamata Paisley Underground. L’abbiamo spesso associata a gruppi come The Dream Syndicate, Rain Parade, Thin White Rope, The Long Ryders o Green On Red, tanto per citare quelli più famosi. Pochi però si ricordano dei True West, nati nella Sacramento Valley californiana. Dal 1979 al 1981, il cantante Gavin Blair e il chitarrista Russ Tolman sono stati compagni di band nei The Suspects, una band di Davis, California, con Steve Wynn e Kendra Smith prima che gli ultimi due fondassero i The Dream Syndicate. Già dall’inizio la doppia chitarra solista di Tolman e Richard McGrath li distingueva dagli altri gruppi del Paisley, attirando l’attenzione di Tom Verlaine dei Television.
Nel 1984 uscì il loro primo album vero e proprio intitolato Drifters, che vedeva anche l’organo dell’ospite Chris Cacavas. Il disco, pur non essendo così psichedelico come l’EP di esordio, aveva la sua forza nella scrittura, nell’evidenziare le radici folk-rock e nella sovrapposizione delle due chitarre come dimostra la splendida “And There The Rain” inclusa nel podcast, scritta proprio dai due chitarristi. Il gruppo ebbe un discreto successo in Europa prima di fare da supporto ai R.E.M. nel tour di Fables Of The Reconstruction. Ma il troppo tempo trascorso in tour e il mancato contratto con una major portarono il gruppo a sciogliersi, salvo poi riunirsi solo nel 2006. Richard McGrath è stato successivamente chitarrista proprio del gruppo di Stan Ridgway.
I Levitation sono una band da riscoprire senza alcun dubbio. Formati nel 1990 a Londra, avevano nelle proprie fila il frontman Terry Bickers (ex chitarrista dei The House of Love), il batterista David Francolini, il chitarrista Christian Hayes (già collaboratore dei Cardiacs), il bassista Laurence O’Keefe e il tastierista Robert White. Una storia breve ma intensa quella del quintetto, capace di un visionario rock psichedelico e liquido. Il loro debutto, Coterie, era in realtà una raccolta dei primi singoli, ma ebbe un fortunato riscontro sia di critica che di pubblico. Il successivo Need For Not vedeva un passo in avanti con una psichedelia garage condotta dalla batteria torrenziale di Francolini e alcuni tracce ispirate da Echo & The Bunnymen.
“Smile” è una vecchia canzone già inserita in Coterie in versione live, e qui registrata in studio a trascinarci in una sorta di trance mistica. Terry Bickers, che già aveva dato segni di squilibrio mentre militava nei The House Of Love tentando di togliersi la vita, perderà via via interesse nel progetto, e, complice il tentativo di accasarsi presso una major, lo farà franare del tutto. La band farà uscire Meanwhile Gardens due anni più tardi con alcune canzoni registrate da Bickers prima che il cantante prendesse la decisione di lasciare il gruppo.
Gli Young Marble Giants si formano a Cardiff, Galles, formati dai due fratelli Moxham, Stuart chitarra e organo e Phil al basso, e dalla cantante Alison Statton. I tre sono stati sempre associati, a torto o a ragione, al movimento post-punk, ma naturalmente il loro approccio alla materia era molto diverso da quello che di solito viene associato a quel genere. Si potrebbe dire che anche se i tre amavano togliere piuttosto che aggiungere, la tesi di partenza era in ogni caso la stessa: l’odio per qualsiasi musica suonasse barocca e per gli assoli interminabili. Il loro è stato una specie di miracolo, lodato dalla critica e diventato presto oggetto di culto, tanto che la loro reunion on stage nel 2007 è stata, giustamente, un enorme successo.
E’ un post punk minimale quello distribuito nelle quindici brevi canzoni che compongono il loro unico album Colossal Youth prima che l’EP Salad Days ne decretasse la fine. Melodie algide capaci di scavare un solco importante e testi che narravano di adolescenza, alienazione, confusione guidate da una drum machine, dal basso importante di Philip, dall’organo di Stuart e dalla voce glaciale e quasi sussurrata di Alison Statton. “Music For Evenings” con il suo ipnotico giro di basso, è un perfetto esempio della capacità dei tre di scrivere canzoni senza tempo. L’album è stato ristampato nel 2007 dalla Domino sia in versione doppio cd che in vinile, motivo in più per non perdersi questo pezzo della storia del rock.
Di lei abbiamo parlato poco, ma il suo talento ed una crescita esponenziale ci fa essere molto ottimisti su una carriera fatta di splendide pubblicazioni. Lael Neale nasce in Virginia, in una fattoria in aperta campagna, salvo poi trasferirsi nella tentacolare e caotica Los Angeles. Due album pubblicati, l’acerbo I’ll Be Your Man e Acquainted With Night, che vedeva l’inizio della collaborazione con l’etichetta Sub Pop e soprattutto con il songwriter e produttore Guy Blakeslee aka Entrance, i cui suggerimenti hanno aperto alla Neale un mondo nuovo fatto di maggior consapevolezza e personalità. Lo scoppio della pandemia ha spinto la cantautrice a tornare nella sua fattoria in Virginia dove “guardando il mondo da lontano ed entrando in sintonia con i propri ritmi, ha scritto e registrato costantemente per due anni da sogno, spinta dal bisogno di fare ordine nel caos”.
Nato in isolamento, il terzo album Star Eaters Delight è stato un veicolo per tornare, non solo alla civiltà, ma alla bellezza della creatività. Arrangiamenti delicati per un indie-folk in cui spicca talvolta una sorta di intimità a volte persino umoristica, alternando Shakespeare a riferimenti autobiografici. “Faster Than The Medicine” galoppa attraverso una nebbiosa campagna inglese immaginaria, freneticamente spinta dalla drum machine incorporata nel suo ormai caratteristico Omnichord. “Sebbene si tratti di un disco sulle contrapposizioni – campagna contro città, umanità contro tecnologia, solitudine contro relazione – l’intenzione più profonda è quella di guarire, di venire a patti con le nostre differenze e di rimettere insieme i pezzi rotti”. Sicuramente, dopo aver prodotto il suo lavoro più riuscito, sono molto curioso di vedere dove il talento esploso di Lael Neale ci porterà la prossima volta. Incrociamo le dita.
Visto che lo abbiamo appena nominato, parliamo proprio di Guy Blakeslee, la cui lunga e affannosa ricerca di un’identità di cantautore capace di scrivere canzoni perfette è sembrata essere arrivata finalmente a compimento qualche anno fa. La sua inquietudine lo ha portato ad incidere anche un paio di album con il suo vero nome, una sorta di sghembo indie rock cantautorale con il quale però non è mai riuscito ad incidere davvero e ad innalzarsi sopra ad una stiracchiata sufficienza. Cosa sia successo nel frattempo non lo sapremo mai. Se non tutto, molto sembra essere cambiato dopo un decennio durante il quale la sigla Entrance è rimasta ferma ai box.
Nei poco più di 40 minuti del suo lavoro del 2017 Book Of Changes (leggi la recensione) c’è stata la vera rinascita di un artista che, inoltrandosi nella profondità dell’anima, è riuscito a dimostrare prima a se stesso e poi agli altri di essere un vero, grande autore ed interprete. L’artista del Maryland ha snocciolato un parlare d’amore scevro di banalità e di faciloneria. Un amore cantato con un ispirato vibrato su un tappeto di acustica psichedelia ai limiti del flamenco, i cui arrangiamenti ricordano da vicino i mai dimenticati Love di Arthur Lee. Difficile non lasciarsi incantare dalla forza espressiva e dal solenne lirismo di chi ha trovato una liberazione emotiva dopo aver subito cicatrici sul corpo e nel cuore. Liberazione che diventa catarsi nell’inno finale di “Revolution Eyes”, la cui coda strumentale vorremmo non finisse mai.
I Lambchop sono un gruppo attivo da ben 3 decenni, che riesce, anno dopo anno, ad essere incredibilmente sempre unico pur cambiando ogni volta qualche ingrediente. Solo quel diavolo di Kurt Wagner, con la sua capacità di scrivere canzoni meravigliosamente senza tempo poteva farmi apprezzare addirittura una delle invenzioni più atroci della storia della musica: il vocoder, usato sia nel 2016 in FLOTUS (acronimo di For Love Often Turns Us Still), che nel 2019 in This (Is What I Wanted To Tell You), dove il nostro è riuscito a spargere emozioni pur flirtando in modo evidente con l’elettronica glitch. Molte volte abbiamo ripercorso la storia di questo gruppo straordinario, per questo podcast sono voluto tornare indietro fino all’alba del nuovo millennio.
La maestria assoluta di Wagner nella scrittura di splendenti meraviglie, tra bassi pulsanti, archi sospesi nel cielo e il pianoforte a tinteggiare il tutto, si dispiega prepotente già dal 2000, dove Wagner con Nixon (dopo il controverso What Another Man Spills) ha voluto sperimentare qualcosa di nuovo, riuscendo ad arrangiare accordi e melodia arrivando alla produzione di un nuovo suono sorprendente, dove il country degli esordi si stempera in una sorta di folk-soul-pop onirico e affascinante, come dimostra la bellezza di “Nashville Parent”. che già dal titolo strizza l’occhio alla base di partenza del collettivo. Anno dopo anno, Wagner è riuscito a mantenere inalterata la magia di un gruppo che non smette mai di affascinare ed emozionare, come ha confermato l’ennesimo centro di The Bible uscito due anni fa.
Due anni fa, in un 2022 scuro e confuso (non che questo 2024 sia molto meglio), un lampo di vera luce a rischiarare la via è stato senza dubbio il grande (e per certi versi inaspettato) ritorno dei Breathless di Dominic Appleton, Ari Neufeld e Gary Mundy dopo ben 10 anni di silenzio. Certo erano in pochi ad aspettarsi il ritorno della band inglese, soprattutto dopo il grave incidente occorso al batterista Tristram Latimer Sayer. Ma i tre “superstiti” non si sono persi d’animo, lavorando con una batteria elettronica che non ha minimamente scalfito le potenzialità emozionali ed immaginifiche del gruppo, quella capacità di essere un faro nella nebbia, un suono delicato ma non certo timido.
E se See Those Colours Fly è stato un disco assolutamente magnifico, stavolta sono voluto tornare indietro nel tempo fino al 1986, anno in cui il quartetto britannico pubblicava The Glass Bead Game (Il Gioco delle Perle di Vetro, inevitabile il riferimento al famoso romanzo di Herman Hesse) iniziando a condurci con la consueta maestria su sentieri emotivi fuori dal tempo. Un disco che richiama i passi più importanti dell’etichetta 4AD, con il loro essere disperatamente malinconici e contraddittoriamente romantici. Un disco introspettivo e ipnotico, tra psichedelia e la new wave più scura. Un maestoso crocevia tra post-punk, psichedelia, dream-pop e shoegaze, un flusso sonoro struggente ed evocativo che rischiara l’oscurità di questi tempi inquieti con brani meravigliosi come la “See How The Land Lies” che chiude il disco e che potete ascoltare all’interno del podcast.
Un duo di Richmond composto da Carter Brown (tastiere) e Mark Nelson (chitarre, nastri e voce) chiamato Labradford ha inaugurato nel 1993 con un album meraviglioso come Prazision LP la stagione della Kranky, etichetta di culto e riferimento del genere tra elettronica e post-rock. C’è molto nei gruppi della Kranky dell’estetica post-rock codificata da Simon Reynolds e di cui abbiamo parlato più di una volta su queste pagine: il recupero del krautrock tedesco, del folk britannico, della psichedelia più chitarristica, dell’elettroacustica, e, più di tutto, dell’elettronica analogica e del minimalismo. I droni elettronici di Brown e Nelson sono lenti ma inesorabili, le chitarre spesso mandate in loop, i riferimenti ai Tangerine Dream molto chiari, con poco rumorismo e molto ambient.
Nel successivo A Stable Reference c’è in aggiunta il basso di Robert Donne a rendere il sound più corposo e nel loro Labradford del 1996 c’è anche una drum machine a rendere il tutto più solido e una voce che non si limita a bisbigliare. Difficile replicare un disco così riuscito, ma un anno dopo ecco uscire Mi Media Naranja (“La mia dolce metà” in spagnolo), a rendere il suono sempre più evocativo ed isolazionista, aggiungendo una sezione di archi e iniziando dai titoli dei brani: una sola, semplice, lettera. Uno dei brani capaci di sublimare la loro trance sonora è senza dubbio l’onirica e scura “S” che i porta in un mondo sempre più rarefatto e intrigante. Mark Nelson abbandonerà il progetto Labradford nel 2000 proseguendo però fino ai giorni nostri una strada inaugurata nel 1998 sotto il nome di Pan•American.
A cavallo tra i ’90 e gli anni 2000 ci sono stati diversi songwriters che hanno saputo tracciare una linea importante e toccare le corde giuste dell’emozione. In particolare quattro ragazzi tanto talentuosi quanto fragili psicologicamente sono riusciti ad emozionarmi in maniera importante, quattro ragazzi che sono stati vittime della loro stessa fragilità interiore scegliendo la medesima strada per allontanarsi da questo mondo. Vic Chesnutt, Elliott Smith, Mark Linkous aka Sparklehorse e Jason Molina. Anche se quest’ultimo non ha proprio volontariamente lasciato questo piano dell’esistenza ma in qualche modo è come se lo avesse fatto lentamente ma inesorabilmente. Aveva grandi problemi con l’alcool e non avere l’assicurazione sanitaria negli Stati Uniti difficilmente perdona…
Tornando a Chesnutt, nel 1983 fu vittima di un tremendo incidente stradale mentre guidava sotto effetto di alcool. Perse il controllo della vettura finendo in un canale, uscendone con gli arti inferiori paralizzati e rimanendo su una sedia a rotelle per il resto della sua vita. Questo non impedì a Chesnutt di iniziare una carriera musicale che trovò una svolta con il trasferimento a Athens, Georgia, e l’interesse di Michael Stipe che produsse i suoi primi due lavori. North Star Deserter è il suo penultimo lavoro, uscito per la Constellation, e che vede la sinergia con i Silver Mt. Zion e con Guy Picciotto dei Fugazi. Quattro facciate dove si mescolano perfettamente il songwriting dolente di Chesnutt con le atmosfere cinematiche e tragiche del collettivo canadese. “Splendid” è solo una delle sofferte meraviglie di questo album di cui consiglio assolutamente l’ascolto. Una scrittura magistrale ed ipnotica, tormentata e affascinante. Sono passati quasi 15 anni da quel tragico giorno, ma Vic Chesnutt non smette mai di mancarci.
Chiudiamo il podcast in bellezza con un musicista trasversale ed estremamente creativo. Il chitarrista e sperimentatore australiano Oren Ambarchi è interessato a trascendere l’approccio strumentale convenzionale, soprattutto quando agisce sul suo strumento principe. Nel corso della sua carriera, come solista e in sinergia con moltissimi artisti ha esplorato i più svariati mondi sonori, facendo diventare qualsiasi strumento suonasse una sorta di laboratorio viaggiante per indagare sul suono. Un percorso avventuroso che lo ha portato ad esplorare minimalismo, elettronica, afrobeat, psichedelia ed altri inquieti suoni. Il ritorno di Ambarchi solista si intitola Shebang, la conclusione di una sorta di trilogia basata su esperimenti ritmici iniziata con Quixotism (2014) e proseguita due anni più tardi con l’ottimo Hubris.
Sebbene sia naturalmente Ambarchi il mattatore di questa lunga suite di 35 minuti con la sua chitarra trattata (e a volte irriconoscibile tanto è interfacciata con ogni sorta di marchingegno elettronico), sono molti i musicisti che si avvicendano a dare manforte al nostro eroe. In primis il batterista Joe Talia, poi il clarinetto di Sam Dunscombe, il leggendario maestro di pedal steel B.J.Cole (T. Rex, Walker Brothers, Loudon Wainwright, John Cale, Bjork, Elvis Costello, Bert Jansch e Spiritualized), la chitarra a 12 corde di Julia Reidy, il piano di Chris Abrahams (Necks, Springtime), il contrabasso di Johan Berthling e l’immancabile cameo di Jim O’Rourke, che con il synth è il valore aggiunto della seconda parte dell’album. Il risultato è un gioco di specchi che funziona perfettamente, ad incarnare l’amore per il minimalismo, l’elettronica, il suono ECM. 35 minuti che per quanto rigorosi e dettagliati non risultano mai freddi, al contrario, risultano divertenti, colorati ed ipnotici come dimostra la III parte inserita in scaletta.
Un grazie speciale va, come sempre, a Franz Andreani per la sua passione, la gestione di questa banda di pazzi e per la splendida riorganizzazione del sito già attiva da qualche anno. A cambiare non è stata solo la versione grafica del sito, ma anche la “filosofia” della podradio, con le rubriche che vanno ad integrarsi nella programmazione regolare sotto l’hashtag #everydaypodcast. Sulla nostra pagina Facebook troverete quotidianamente ogni upload del sito e, ormai da tempo, è attivo anche lo splendido canale YouTube della Radio, una nuova formula senza interruzioni ne spot per ascoltare la vostra-nostra musica preferita. Iscrivetevi numerosi, vi aspettiamo!
Nel prossimo episodio andremo a celebrare il lavoro di Steve Albini, che ha lasciato un vuoto enorme in tutti gli amanti della musica alternativa, andando a proporre alcuni dei migliori dischi da lui prodotti: da Songs: Ohia ai Don Caballero, dai Jesus Lizard agli OM, da The Breeders ai Pixies, dai Dirty Three a Joanna Newsom.
Il tutto sarà, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
Intanto se volete potete sfruttare la parte riservata ai commenti qui sotto per darmi suggerimenti, criticare (perché no), o proporre nuove storie musicali. Mi farebbe estremamente piacere riuscire a coinvolgervi nella programmazione e nello sviluppo del mio sito web.
Per suggerimenti e proposte, scrivetemi senza problemi all’indirizzo e-mail stefano@stefanosantoni14.it.
Potete ascoltare o scaricare il podcast anche dal sito di Radio Rock The Original cliccando sulla barra qui sotto.
Buon Ascolto
TRACKLIST
01. ANTHROPROPHH: Dead Man On The Scene da ‘Outside The Circle’ (2014 – Rocket Recordings)
02. LOOP: Fade Out da ‘Fade Out’ (1988 – Chapter 22)
03. STAN RIDGWAY: Camouflage da ‘The Big Heat’ (1986 – I.R.S. Records)
04. GRAHAM PARKER & THE RUMOUR: Local Girls da ‘Squeezing Out Sparks’ (1979 – Vertigo)
05. TRUE WEST: And Then The Rain da ‘Drifters’ (1984 – New Rose Records)
06. LEVITATION: Smile da ‘Need For Not’ (1992 – Rough Trade)
07. YOUNG MARBLE GIANTS: Music For Evenings da ‘Colossal Youth’ (1980 – Rough Trade)
08. LAEL NEALE: Faster Than The Medicine da ‘Star Eaters Delight’ (2023 – Sub Pop)
09. ENTRANCE: Revolution Eyes da ‘Book Of Changes’ (2017 – Thrill Jockey)
10. LAMBCHOP: Nashville Parent da ‘Nixon’ (2000 – Merge Records)
11. BREATHLESS: See How The Land Lies da ‘The Glass Bead Game’ (1986 – Tenor Vossa Records)
12. LABRADFORD: S da ‘Mi Media Naranja’ (1997 – Kranky)
13. VIC CHESNUTT: Splendid da ‘North Star Deserter’ (2007 – Constellation)
14. OREN AMBARCHI: III da ‘Shebang’ (2022 – Drag City)
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Un #podcast che porta avanti ed indietro nel tempo. Dalla psichedelia alla magia di Stan Ridgwaypassando per il ripescaggio dei True West e chiudendo con le emozioni di Vic Chesnutt. In copertina, una splendida @laelnealemusic https://t.co/OLj3vuJYlw
— SoundsAndGrooves (@SoundsGrooves) May 23, 2024