La carriera di Guy Blakeslee inizia a Baltimora nel 1998 insieme agli psych-rockers The Convocation Of…, per poi proseguire accarezzando un approccio meditabondo allo stoner come Entrance Band, o tuffandosi nella psichedelia dei ’60 e nelle acque torbide del delta del Mississippi come Entrance. La sua inquietudine lo ha portato ad incidere anche un paio di album con il suo vero nome, una sorta di sghembo indie rock cantautorale con il quale però non è mai riuscito ad incidere davvero e ad innalzarsi sopra ad una stiracchiata sufficienza. Cosa sia successo nel frattempo non lo sapremo mai. Se non tutto, molto sembra essere cambiato dopo un decennio durante il quale la sigla Entrance è rimasta ferma ai box. La sua affannosa e lunga ricerca di un’identità di songwriter capace di scrivere canzoni perfette sembra davvero essere arrivata a compimento. Un’orchidea bianca in mano, una camicia da dandy, un titolo, “Book of Changes”, che la dice tutta su quello che troviamo nei solchi del disco.
In poco più di 40 minuti c’è la vera rinascita di un artista che, inoltrandosi nella profondità dell’anima, riesce a dimostrare prima a se stesso e poi agli altri di essere un vero, grande songwriter. Il tema conduttore del disco non è solo il cambiamento, ma soprattutto l’amore, rappresentato dall’orchidea in copertina, il fiore esteticamente perfetto che da secoli rappresenta la raffinatezza, l’eleganza, l’armonia, ma anche e soprattutto la passione, la sensualità. Durante i dieci brani del disco sembra quasi che sia sempre il momento giusto per innamorarsi. Basta ascoltare il breve incipit strumentale di “Warm And Wild” per avere la sensazione che persino nei momenti più scuri della nostra esistenza, quando ci sembra di essere circondati da persone negative, il sorriso della persona amata possa lanciare un incantesimo così potente che dovremmo essere davvero matti per lasciarcela scappare. Un’impressione che permane anche quando una strada (“The Avenue”) separa momentaneamente due persone, una strada che va sempre attraversata guardando bene da entrambi i lati per evitare sorprese spiacevoli: “And the best of friends have to part sometimes. So why not you and I?”. Ha viaggiato tanto Blakeslee, per scoprire tornando a casa che le risposte alle sue domande erano inaspettatamente semplici. L’artista del Maryland snocciola un parlare d’amore scevro di banalità e di faciloneria, un’urgenza emotiva che si dispiega perfettamente con la lucentezza pop di “Always The Tight Time”.
C’è anche spazio per l’amore non corrisposto, come quello per “Molly”, che non riesce a trovare un suo equilibrio perché si innamora sempre così facilmente, un amore cantato con un ispirato vibrato su un tappeto di acustica psichedelia ai limiti del flamenco, i cui arrangiamenti ricordano da vicino i mai dimenticati Love di Arthur Lee. E ancora quello per una misteriosa donna (“Winter Lady”), il cui cuore invernale non viene scaldato nemmeno dal primo sole primaverile. Ma a scaldare il cuore definitivamente c’è questa insistente percezione di rinascita, il guardare il mondo attraverso occhi la cui miopia è stata finalmente corretta da un cambiamento importante. Come in “I’d Be A Fool”, in cui la profondità espressiva della voce del songwriter trova un sostegno impeccabile nei cori di Jessica Tonder e negli archi di Paz Lenchantin (attuale membro dei Pixies, già sodale di Blakeslee negli Entrance Band ed ex bassista di Zwan e A Perfect Circle). E ancora il vibrato alt country di “The Avenue” in punta di fingerpicking, il fischiettare di “Summer’s Child” che grazie ai cori di Hale May e Lael Neale si dispiega in una sorta di gospel folk che si innalza verso il cielo. Difficile non lasciarsi incantare dalla forza espressiva e dal solenne lirismo di chi ha trovato una liberazione emotiva dopo aver subito cicatrici sul corpo e nel cuore. Liberazione che diventa catarsi nell’inno finale di “Revolution Eyes”, la cui coda strumentale vorremmo non finisse mai. La ricerca di Blakeslee si è rivolta essenzialmente sul recupero della “canzone”, quella che si può facilmente riprodurre con voce e chitarra o pianoforte, una tradizione potente del cui recupero il songwriter ha voluto fortemente far parte.
“Era fondamentale per me che le canzoni di questo album si potessero cantare con il semplice ausilio di una chitarra o di un pianoforte… le sovrastrutture e i suoni aggiunti durante la registrazione sono stati la ciliegina sulla torta per espandere l’esperienza sonora dell’ascoltatore, ma il cuore della canzone sono rimasti il testo e la melodia. Ho voluto fare la mia parte per dimostrare che la tradizione non si è persa. Credo che all’interno di una canzone ci sia ancora moltissima energia.”
Il disco è stato registrato con l’ausilio di David Vandervelde (polistrumentista e collaboratore di Father John Misty e Jay Bennett) in una dozzina di studi differenti, e vede Blakeslee suonare molti strumenti tra cui chitarra, piano, xilofono e l’autoharp con cui conduce la splendida, oscura e intensa “Leaving California”. Sono dieci affreschi di amore in cui l’artista mette in primo piano il suo microcosmo di amore e di sconfitta, alternando i vari stati d’animo che queste stesse storie hanno portato con loro: dall’incontrollabile entusiasmo alle attese piene d’ansia al telefono, dalla depressione più acuta alla determinazione ricolma di speranza. “Book Of Changes” è un disco intimo dall’equilibrio agrodolce e travolgente, un gioiello di scrittura che risulta forse ancora più solido e raffinato per le poche aspettative che ormai nutrivamo per l’abilità di songwriter di Blakeslee.