Eccoci di nuovo sulle onde sonore di RadioRock.to The Original per l’appuntamento quindicinale con le nuove avventure in musica di Sounds & Grooves.
Altri 83 minuti da trascorrere insieme andando ad ascoltare alcuni dei dischi più interessanti usciti in questo primo scorcio di 2017 oltre ai soliti ripescaggi di gruppi che hanno in qualche modo caratterizzato la storia degli ultimi decenni in rock. Prima di partire con questo viaggio in musica potete effettuare il download del podcast anche nella versione a 320 kb/s semplicemente cliccando sul banner qui sotto.
Lo tsunami del Punk si è abbattuto sulle terre emerse musicali nel 1976, devastando territori e radendo al suolo le ultime vestigia del progressive. L’epicentro del terremoto che generò cotanta onda fu negli Stati Uniti, in particolare il 7″ dei Ramones intitolato “Blitzkrieg Bop”, anche se poi fu geniale il caro buon vecchio Malcom McLaren ad esportare il movimento in UK creando i Sex Pistols che fecero sconquassi nel regno della perfida Albione. Ma non tutti sanno che (parafrasando una celebre rubrica de La Settimana Enigmistica) un gruppo australiano esordì ben prima dei Pistols, condividendo quasi con gli stessi Ramones la primogenitura del movimento punk. Sto parlando dei The Saints, gruppo formato a Brisbane, in Australia, dal cantante e chitarrista Chris Bailey che, ispirati da band proto-punk come Stooges e MC5, nel settembre 1976 registrano e pubblicano in Gran Bretagna il loro primo singolo intitolato “(I’m) Stranded”. La rivista Sounds lo proclama addirittura “singolo di questa e di ogni settimana”, e il gruppo firma un contratto con la EMI per la pubblicazione di tre album, il primo dei quali, intitolato proprio come il singolo di debutto, uscirà nel febbraio 1977, prima di tantissimi gruppi punk più noti al grande pubblico come gli stessi Pistols o i The Clash.
A 40 anni di distanza possiamo dire che “Marquee Moon” dei Television ha raggiunto un incredibile quanto singolare conquista, quella di trascendere l’etichetta “punk” e di suonare ancora fresco e attuale ai giorni nostri. Un vero classico dall’inizio alla fine. Il disco è allo stesso tempo una rivisitazione della psichedelia dei ’60, ma messa in pratica in era punk, reinventandosi e facendo diventare i Television di fatto i padri fondatori della nascente new wave. La band di Tom Verlaine fu l’artefice della scena punk newyorkese che faceva capo al noto locale CBGB, rock club situato nel Lower East Side di Manhattan, ma nonostante ciò furono gli ultimi di quella scena a pubblicare l’album di esordio. Ma valeva la pena aspettare tanto, la splendida “Elevation” che apre la seconda facciata, mostra i duelli tra le nervose sei corde di Verlaine e Richard Lloyd, mentre i lunghi assoli di chitarra del leader della band, lancinanti ed ossessivi, ricchi di tremoli e di feedback, lo consacrano tra i chitarristi più innovativi di sempre. Il loro rock inquieto e psichedelico ha segnato con la sua nevrotica desolazione urbana una nuova era, e “Marquee Moon” è un album che non deve mancare negli scaffali di ogni rock addicted che si rispetti.
I Brainiac sono stati una band fuori dagli schemi e dall’immenso potenziale che sfortunatamente non ha mai fatto in tempo ad esplodere in tutto il suo goliardico genio. Come troppo spesso accade, è stata una tragedia a porre fine alla loro storia nel momento in cui stavano raccogliendo i frutti di un duro lavoro e diventare una stella del firmamento musicale. Dopo aver limato il loro suono nei primi due lavori facendo viaggiare i brani con un’alternanza di pause e accelerazioni ricca di pathos e di tensione emotiva, la firma con la prestigiosa Touch And Go aveva dato finalmente alla band di Dayton, Ohio, la visibilità che meritava. La struttura delle canzoni di ‘Hissing Prigs in Static Couture’ è sempre più isterica e psicotica, le tracce sembrano respirare e contorcersi vivendo di vita propria, abbandonando quasi completamente la tradizionale struttura almeno per una buona metà dell’album. Lo stridulo falsetto di Tim Taylor sbraita raddoppiandosi, le nevrotiche linee di synth lanciano la chitarra in orbita, il basso pulsa vigoroso. Il disco viene chiuso dalla tensione garage di “I Am A Cracked Machine”, dove il cantato di Taylor supera sempre il livello rosso in una veemente interpretazione, degno finale di un album fondamentale per ogni fan che si rispetti dell’Indie Rock anni ’90. Ma il loro quarto album non vedrà mai la luce. La notte del 23 maggio 1997 Tim Taylor perde la vita in un incidente automobilistico mentre stava tornando a casa dallo studio di registrazione. I Brainiac si sciolgono con effetto immediato. Auto-ironici, stravaganti, geniali. Chissà cosa sarebbe successo se la loro storia non si fosse così drammaticamente interrotta.
James George Thirlwell non è mai stato un personaggio “normale”. Australiano trapiantato a Londra alla fine degli anni ’70, ha avuto modo di entrare in contatto con gruppi come Throbbing Gristle, Birthday Party, Cabaret Voltaire, Nurse With Wound che hanno contribuito a plasmare la sua personale visione sinfonico-apocalittica della musica industriale. Agendo dietro al moniker di Foetus declinato in diverse varianti (You’ve Got Foetus On Your Breath, Foetus Interruptus, Scraping Foetus Off The Wheel), manipola suoni rappresentando il caposaldo dell’industrial music dell’epoca. ‘Nail’ uscito nel 1985 è l’apice della sua fantasia visionaria, prendendo in prestito la magniloquenza di Richard Wagner, e piegandola ai suoi scopi di potente e dinamitarda discesa degli inferi accompagnata dalla fanfara. Ecco che “The Throne Of Agony” diventa una sorta di mostro mutante mezzo punk e mezzo synth-pop, preso per mano dal reiterato tema di “Mission Impossible” che accompagna il sarcastico ed efferato Thirlwell verso una solenne e tenebrosa esaltazione. L’album è il capolavoro di un artista tanto misconosciuto quanto di enorme talento.
Ho già parlato nello scorso podcast della via britannica al post rock e al suono dei gruppi della Too Pure presentando i Moonshake. La band formata da David Callahan e Margaret Fiedler aveva trovato un perfetto equilibrio pur nella diversità dell’approccio alla materia sonora, la Fiedler più propensa a creare brani eterei e di atmosfera, Callahan a preferire un tessuto urbano più duro e spigoloso. Erano due facce della stessa medaglia, l’amore per le stesse bands (Can, My Bloody Valentine, PIL, Kraftwerk) espresso in maniera completamente differente. Un incontro esplosivo, una collisione tanto inevitabile quanto evocativa. Ma dopo l’uscita di “Eva Luna” questo equilibrio si spezza: Callahan rimane con i Moonshake mentre la Fiedler insieme al bassista John Frenett e al produttore Guy Fixen, da vita ai Laika, band che continuerà sul binario intrapreso dai Moonshake accentuando esclusivamente la vena melodica e la percussività psichedelica. Così l’album di esordio ‘Silver Apples Of The Moon’ viene registrato senza chitarre (come orgogliosamente rivendica anche il secondo album dei Moonshake uscito quasi contemporaneamente), ma mentre la band di Callahan si infila in un suono scuro e torbido, i Laika scelgono un approccio diverso portandoci in una sorta di poliritmica foresta tropicale disegnata con colori pastello, condotti da un insistente e fluido basso dub come dimostra la splendida “Coming Down Glass”.
Il lungo viaggio dei Julie’s Haircut è arrivato alla settima fermata, un momento cruciale per la band emiliana perché ‘Invocation and Ritual Dance of My Demon Twin’ viene pubblicato da una delle etichette più importanti del mondo in ambito psichedelico, la britannica Rocket Recordings. Dal 2005 la musica del gruppo si è mossa verso territori più sperimentali, concentrandosi maggiormente sull’improvvisazione e la ricerca sonora, senza perdere contatto con il groove e la melodia che hanno caratterizzato la loro musica fin dalla formazione avvenuta nel 1994. Il collettivo giunge quindi ad un crocevia importante del proprio percorso evolutivo, e lo supera splendidamente salendo sul razzo simbolo della label britannica per esplorare il cosmo dal punto di vista della loro metà oscura. C’è tanto all’interno di questo ambizioso lungo viaggio, la psichedelia tout court, le suggestioni del Miles Davis elettrico, il krautrock, tracce di afro-beat, aperture orientaleggianti, ma il tutto è veicolato ottimamente svolgendosi in una trama avvincente e suggestiva che va assaporata e assorbita con calma, ascoltate per credere l’ipnotica “Salting Traces”. Tra voci impalpabili, ipnotiche circolarità che dilatano lo spazio sonoro, improvvisazioni, fiati evocativi e spirito anarchico, l’album si snoda in maniera eccelsa portandoci in un mondo tanto oscuro quanto affascinante, consegnandoci un gruppo che è cosa buona e giusta inserire nell’eccellenza della nostra (martoriata) Italia in musica.
I The Membranes sono un gruppo formato agli albori degli anni ’80 dal bassista John Robb. Rimasero attivi dal 1981 al 1989, incidendo 6 album ed una manciata di singoli ed EP. Il loro art-punk interessante e spigoloso, arguto e scazzato, ma non privo di una spiccata componente pop, riuscì a catturare solo lo status di gruppo di culto e l’ammirazione di una piccola fetta di pubblico tra cui, fortunatamente, c’erano anche alcuni personaggi di un certo rilievo per la storia del rock tra cui John Peel, Mark Stewart e Steve Albini. Dopo lo scioglimento del gruppo, Robb si dedicò quasi esclusivamente al mestiere di giornalista, sia televisivo per la BBC sia come autore di libri, pubblicando, tra le altre cose, anche una splendida retrospettiva sul periodo punk intitolata Punk Rock: An Oral History, fino a quando nel 2010 decise di riformare la band. Il album doppio album uscito nel 2015 ed intitolato ‘Dark Matter/Dark Energy’, ce li fa ritrovare in forma strepitosa. La band di Blackpool mostra subito un’energia ed una forza inaudita. aggredendo subito il malcapitato ascoltatore con l’epico assalto di “The Universe Explodes Into A Billion Photons Of Pure White Light”, dove sembra che questi 26 anni non siano mai passati, vista la forza con cui Robb maltratta il suo basso e strepita al microfono, mentre nel finale le tastiere e le scariche elettriche della batteria hanno come risultato un’esplosione siderale che squarcia il cielo. La band si ricorda del suo passato meravigliosamente anarchico, riprendendo i suoni da loro sciorinati e sintetizzati negli anni ’80 ma attualizzandoli dinamicamente ai giorni nostri e aumentandone ancora, se possibile, l’energia ed il groove.
Nel 1986 iniziò la carriera dei The Flaming Lips, un gruppo proveniente da Oklahoma City destinato ad avere un gran successo tra follie psichedeliche, trovate geniali, uno spiccato talento per la melodia ed una rara bravura compositiva. Wayne Coyne e compagni, dopo l’uscita dell’ottimo ‘The Terror’ nel 2013 sembravano aver perso lo smalto che li aveva sempre contraddistinti, perdendosi un po’ tra riproposizioni di dischi triti e ritriti (Dark Side Of The Moon ed il recentissimo Sgt. Pepper) e collaborazioni quantomeno spiazzanti come quella con Miley Cyrus. Va bene che sono sempre stati un po’ fuori di testa, basti pensare ai parking lot experiments, con 40 cassette da suonare contemporaneamente in un parcheggio, e all’album ‘Zaireeka’ formato da 4CD che dovevano essere suonati in sincrono per avere l’effetto dovuto, ma la loro lucida follia sembrava aver perso ora quell’inventiva che l’ha sempre resa speciale. Il nuovo “Oczy Mlody” ripropone in parte il copione di ‘The Terror’, ma lo stato di desolazione cosmica sembra voler in parte cambiare pur mantenendo quella psichedelia sporcata dai synth e screziata di elettronica. La paranoia opprimente tratteggiata dal disco precedente sembra attenuarsi, facendo apparire delle fiabe sognanti, eteree come in “There Should Be Unicorns” dove la mitologia viene evocata in musica e sbeffeggiata nel testo (“At first there should be unicorns. The ones with the purple eyes, not the ones with green eyes. Whatever they give them, they shit everywhere”). Certo, forse non ci sono canzoni degne di essere ricordate, ed effettivamente non è facile trovare strade sempre diverse e innovative per una band arrivata al quindicesimo album in studio, ma anche se non fa gridare al miracolo, “Oczy Mlody” è sempre un bel sentire.
Sulla forza rabbiosa degli Sleaford Mods già mi sono espresso più di una volta, dopo l’a recente uscita dell’EP intitolato ‘T.C.R.’, era molto atteso il loro esordio sulla lunga distanza per la storica etichetta britannica Rough Trade. Il primo disco dopo Brexit del duo punk-hop di Nottingham formato da Jason Williamson e Andrew Fearn, è al solito devastante, il solito concentrato di invettive feroci condite da una base musicale sempre all’altezza della situazione. ‘English Tapas’ descrive in maniera rabbiosa il declino di una nazione che si sente superiore alle altre, che Williamson sputa fuori in un flusso inarrestabile e non facile da capire per noi italiani. I due spiattellano con cruda onestà le piaghe non solo inglesi ma sociali in generale, lanciando frecciate avvelenate agli appassionati della cucina biologica, ai cultori del fitness, alla dipendenza da droga e alcool, al tessuto sociale in un flusso ininterrotto. “Drayton Manored” parla di un viaggio verso il supermercato per fare il carico di alcool dopo aver passato la notte in un parco divertimenti, viaggio descritto come un viaggio su Marte. Sull’ossessiva base di Fearn, il suo compare sbraita parlando dell’incomunicabilità tra esseri umani “Have you ever wondered why you wonder why?”. La loro formula è ormai facilmente identificabile, ma la semplicità con cui i due la fanno evolvere rimanendo fedeli a loro stessi è meravigliosamente spaventosa. Nessun gruppo incarna meglio di loro la vera essenza del punk, nessuno rimane a livelli così qualitativamente alti al giorno d’oggi. Sleaford Mods: in assoluto i #1.
L’affannosa e lunga ricerca da parte di Guy Blakeslee di un’identità di songwriter capace di scrivere canzoni perfette sembra davvero essere arrivata a compimento. Dopo un’inquieta ricerca sonora con gli psych-rockers The Convocation Of… e dopo aver sfornato prestazioni non proprio del tutto convincenti con la sua Entrance Band, il songwriter di Baltimora ha rispolverato la sigla Entrance, in pausa da oltre un decennio. Nei 40 minuti del nuovo “Book Of Changes” c’è la vera rinascita di un artista che, inoltrandosi nella profondità dell’anima, riesce a dimostrare prima a se stesso e poi agli altri di essere un vero, grande songwriter. Blakeslee riesce a parlare d’amore evitando facilonerie e banalità, trovando un equilibrio agrodolce e travolgente: un gioiello di scrittura che risulta solido e raffinato. Difficile non lasciarsi incantare dalla forza espressiva e dal solenne lirismo di chi ha trovato una liberazione emotiva dopo aver subito cicatrici sul corpo e nel cuore. Liberazione che diventa catarsi nell’inno finale di “Revolution Eyes”, la cui coda strumentale vorremmo non finisse mai.
L’inizio degli anni ’90 è stato uno splendido periodo per la Creation Records di Alan McGee. La label riuscì a pubblicare nel giro di pochi anni la bibbia del nascente movimento shoegaze (‘Loveless’ dei My Bloody Valentine) e l’incredibile unione tra indie rock e dancefloor (‘Screamadelica’ dei Primal Scream), senza dimenticare band di nicchia ma splendide come House Of Love, Teenage Fanclub, The Boo Radleys, e il boom incredibile degli Oasis. E i Ride direte (a ragione) voi? Come darvi torto. La band di Oxford (da pochissimo tornata sulle scene con un nuovo singolo dopo anni di silenzio, ascoltalo qui), è stata tra le più grandi ad unire la psichedelia inglese con distorsioni noise, il tutto condito con un senso pazzesco per la melodia. I pedali degli effetti della chitarra ricercati con insistenza e ossessione (tanto da dare al movimento il nome di shoegazing) sono stati solo uno degli elementi che hanno contribuito a fare dei Ride i paladini del genere. L’onda che nasce sulla copertina del loro primo disco sulla lunga distanza intitolato ‘Nowhere’, rappresenta il suono della band in perfetto equilibrio tra rumore e melodia, tensione e rilassamento, luci ed ombre. “Vapour Trail” ha il compito di chiudere l’intero lavoro (le ultime tre tracce nell’edizione in CD sono delle bonus tracks tratte dall’EP ‘Fall’ uscito nello stesso anno) in maniera sognante ed epica.
Sono passati sette anni da quando Mark Linkous ha deciso di andarsene definitivamente da un mondo che non sentiva suo. Il testamento sonoro che ci ha lasciato Mark nascosto dietro al moniker di Sparklehorse è però di inestimabile valore. A partire dall’album di esordio, un caleidoscopio sonoro dal nome quasi impronunciabile ‘Vivadixiesubmarinetransmissionplot’. 16 brani diversi per lunghezza e ispirazione, ma tutti permeati di quella malinconia di fondo che segnerà l’opera omnia di Linkous. C’è il folk rock dei Byrds, prima fonte d’ispirazione, ma c’è molto altro, arrangiamenti lo-fi, ballate acustiche, lunghi country rock, e una splendida canzone power pop come “Rainmaker”. Durante il tour di promozione al disco durante che vede gli Sparklehorse al fianco dei Radiohead, Linkous viene trovato in overdose di valium e antidepressivi, svenuto nella sua stanza d’albergo a Londra, incosciente con le gambe bloccate sotto il corpo. Questo causò un arresto cardiaco durato due o tre minuti. Linkous venne ricoverato in ospedale, rischiò di perdere entrambe le gambe e subì numerosi e dolorosi interventi chirurgici. Ne uscirà vivo, ma la depressione non lo abbandonerà mai, portandolo al suicidio il 6 marzo 2010. It’s a sad and beautiful world Mark, I agree.
C’è un’iconica scena del film Alta Fedeltà (diretto da Stephen Frears, e tratto dall’omonimo romanzo di Nick Hornby), quando John Cusack, nel ruolo di Rob Gordon (Rob Fleming nel libro) titolare del negozio Championship Vinyl scommette con uno dei suoi dipendenti che venderà cinque copie di ‘The Three E.P.’s’ dei The Beta Band e per farlo mette a tutto volume “Dry The Rain”. La Beta Band era stata formata nel 1997 dagli scozzesi Steve Mason e Gordon Anderson, poi sostituito da Richard Greentree. Insieme al batterista Robin Jones e al DJ John Maclean, avevano dato vita ad un pop rock estremamente interessante, in bilico tra lo-fi e hip-hop, tra intriganti bozzetti psichedelici e una più completa forma canzone. Nonostante abbiano avuto la personalità di non aggregarsi al gregge adulante del brit-pop di quegli anni, il gruppo non riuscì mai a convincere del tutto pubblico e critica, finendo per sciogliersi definitivamente nel 2004. Steve Mason non ha mai arrestato il suo percorso sonoro, dopo aver inciso con i due strambi moniker King Biscuit Time e Black Affair, l’ex-cantante dei Beta Band ha continuato a sviluppare la sua personalità con album molto interessanti. L’ultimo disco uscito in ordine di tempo si chiama ‘Meet The Human’, disco estremamente gradevole con la scrittuta di Mason che spazia dallo psych-pop alla folktronica con ottimi risultati come non sentivamo dai momenti più ispirati della sua ex band, come dimostra l’ottima “Hardly Go Through”.
E chiudiamo il podcast con un genere che non è propriamente nella mie corde: l’hip-hop. Ma in questo caso la crew formata dal rapper (e attore di teatro) Daveed Diggs e dai produttori William Hutson e Jonathan Snipes dimostra di essere (fortunatamente) solo lontana parente di quelle che fanno parte del luccicante mondo del mainstream. Dopo la meraviglia suscitata dall’album di esordio, nel 2016 la crew di hip-hop sperimentale chiamata clipping. è tornata con l’atteso secondo lavoro intitolato ‘Splendor & Misery’. I tre mettono insieme un concept tanto debole nella trama fantascientifica (protagonista è l’unico schiavo sopravvissuto su una nave cargo interstellare di cui si infatua il computer di bordo), quanto meravigliosamente a fuoco nell’estensione musicale che mostra una conoscenza della materia black plasmata in beat che suonano assolutamente nuovi e terribilmente affascinanti. Una scossa forte al piattume della scena hip-hop mainstream come dimostra la splendida “All Black”.
E anche per stavolta è tutto. Nel prossimo podcast che sarà online venerdi 31 marzo andremo alla riscoperta dei band così diverse ma così importanti come US Maple e Pavement. Potete sfruttare la parte dei commenti qui sotto per dare suggerimenti, anche scrivere critiche (perché no), o proporre nuove storie musicali, mi farebbe estremamente piacere riuscire a coinvolgervi nella programmazione e nello sviluppo del mio website.
Vi do quindi appuntamento a tra due settimane, con un nuovo podcast da scaricare e nuove storie da raccontare, ma non mancate di tornare ogni giorno su RadioRock.to The Original. Troverete un podcast diverso al giorno, le nostre news, le rubriche di approfondimento, il blog e molte novità come lo split-pod. Siamo anche quasi in dirittura di arrivo per quanto riguarda l’atteso restyling del sito, e per questo (e molto altro) un grazie speciale va a Franz Andreani, che ci parla dei cambiamenti della nostra pod-radio e della radio in generale nel suo articolo per il nostro blog. Tutte le novità le trovate aggiornate in tempo reale sulla nostra pagina Facebook.
Se volete ascoltare o scaricare il podcast, potete farlo anche dal sito della stessa PodRadio cliccando sulla barra qui sotto. Buon Ascolto
TRACKLIST
01. THE SAINTS: (I’m) Stranded da ‘(I’m) Stranded’ (EMI – 1977)
02. TELEVISON: Elevation da ‘Marquee Moon’ (Elektra – 1977)
03. 3RA1N1AC: I Am A Cracked Machine da ‘Hissing Prigs In Static Couture’ (Touch And Go – 1996)
04. SCRAPING FOETUS OFF THE WHEEL: The Throne Of Agony da ‘Nail’ (Self Immolation, Some Bizzare – 1985)
05. LAIKA: Coming Down Glass da ‘Silver Apples Of The Moon’ (Too Pure – 1994)
06. JULIE’S HAIRCUT: Salting Traces da ‘Invocation And Ritual Dance Of My Demon Twin’ (Rocket Recordings – 2017)
07. THE MEMBRANES: The Universe Explodes into A Billion Photons Of Pure White Light da ‘Dark Matter/Dark Energy’ (Cherry Red – 2015)
08. THE FLAMING LIPS: There Should Be Unicorns da ‘Oczy Mlody’ (Warner Bros. Records – 2017)
09. SLEAFORD MODS: Drayton Manored da ‘English Tapas’ (Rough Trade – 2017)
10. ENTRANCE: Revolution Eyes da ‘Book Of Changes’ (Thrill Jockey – 2017)
11. RIDE: Vapour Trail da ‘Nowhere’ (Creation Records – 1990)
12. SPARKLEHORSE: Rainmaker da ‘Vivadixiesubmarinetransmissionplot’ (Capitol Records – 1995)
13. STEVE MASON: Hardly Go Through da ‘Meet The Humans’ (Double Six Recordings – 2016)
14. CLIPPING.: All Black da ‘Splendor & Misery’ (Sub Pop – 2016)