Bentrovati all’appuntamento quindicinale di Sounds & Grooves ospitato sulle splendide frequenze di RadioRock.to The Original. Stavolta finalmente si esce dalla classifica del 2016 con cui vi ho ammorbato per la bellezza di tre podcast.
In questi 80 minuti circa che trascorreremo insieme ci saranno sicuramente dei “residui” (di gran classe) di ciò che è avvenuto nel corso dell’anno appena trascorso ma sicuramente torneremo indietro nel tempo a rivisitare gruppi ed artisti che hanno caratterizzato in qualche modo gli anni ’90. Intanto potete effettuare il download del podcast anche nella versione a 320 kb/s semplicemente cliccando sul banner qui sotto.
Iniziamo quindi ricordando due grandi artisti che hanno caratterizzato la storia della musica degli ultimi 50 anni. Il primo, se ne è andato in silenzio il 7 novembre dello scorso anno. Si tratta di Leonard Cohen, maestro della poesia in musica, semplicemente uno dei più grandi poeti, cantautori e scrittori del nostro secolo. Pochi, pochissimi, hanno avuto la sua capacità di scrittura e la sua solidità melodica, nel raccontare storie dure e vere di disagio sociale, amore, misticismo, sesso e religione. Ci mancherà, e molto, la sua voce profonda, la sua eleganza, la sua magia. Magia che ci ha voluto regalare nuovamente prima di andarsene, lasciandoci un meraviglioso testamento sonoro chiamato “You Want It Darker” dal quale ho voluto proporre la splendida e profonda title track.
Il primo mese del nuovo anno ci ha portato via anche il metronomo vivente Jaki Liebezeit, uno dei musicisti più influenti della scena ‘krautrock’. Nei primi anni sessanta aveva iniziato la sua carriera come membro del quintetto di Manfred Schoof, tra i primi esponenti del free jazz europeo. Nel 1968, si era unito a Michael Karoli, Holger Czukay e Irmin Schmidt per dare vita ai Can. La band divenne in breve uno dei gruppi più influenti della scena tedesca, con il suo suono innovativo e visionario che coraggiosamente andava a pescare dal minimalismo contemporaneo (Czukay e Schmidt erano entrambi allievi di Stockhausen) alla psichedelia, incastrandosi meravigliosamente con i Velvet Underground e una certa musica etnica. La loro avanguardia si celebrò con l’uscita del seminale ‘Tago Mago’ (1971). Ascoltiamo insieme la meravigliosa “Paperhouse”, che dimostra come la loro libera sfrontatezza e anarchica purezza sia stata fonte di ispirazione per tantissimi artisti degli anni settanta e ottanta, tra cui David Bowie, Joy Division, Stone Roses e Talking Heads.
La storia dei Terminal Cheesecake può richiamare a grandi linee quella dei The Membranes per fondazione, successo di culto, scioglimento e reunion a distanza di decenni. Fondati nel 1988 sono stati attivissimi nei primi anni novanta galleggiando tra neo psichedelia e noise rock. Tra psichedelia, post-punk e musica industriale, il suono della band è sempre stato provocatorio e sperimentale. La band si è riformata nel 2013, e a fine 2016 è arrivato un nuovo album in studio intotolato “Dandelion Sauce of the Ancients”, che vede la luce a ventun anni dallo scioglimento e a ventidue dall’ultimo disco. In questo periodo di revival chi meglio di un gruppo che ha davvero vissuto il periodo noise rock britannico anni 90 può reinterpretarlo con lo stesso vigore affidandolo ai gorghi psichedelici dei giorni nostri. Ascoltate la compatta “Poultice”, trascinata da una massiccia ritmica stoner e rafforzata da una chitarra che lancia fendenti carichi di psichedelia.
I Big Sexy Noise sono stati una creatura voluta da Lydia Lunch, creatura inquieta dedita all’espressione dell’irrequietezza sfrontata e impulsiva già all’inizio della sua carriera appena diciassettenne nei Teenage Jesus And Jerks, accanto al sassofonista James Chance. Con questa nuova band torna ad immergersi nello scuro e sporco blues metropolitano insieme a tre quarti dei Gallon Drunk: James Johnston alla chitarra (ex Bad Seeds), Ian White alla batteria e Terry Edwards, organo e sax. In questo album di esordio la Lunch lascia traboccare la sua furia dalle fogne, con la sua ironica e sboccata attitudine che gli fa interpretare meravigliosamente la cover di “Kill Your Sons” di Lou Reed e la splendida ed appiccicosa “Slydell”.
Iniziamo quindi ricordando due grandi artisti che hanno caratterizzato la storia della musica degli ultimi 50 anni. Il primo, se ne è andato in silenzio il 7 novembre dello scorso anno. Si tratta di Leonard Cohen, maestro della poesia in musica, semplicemente uno dei più grandi poeti, cantautori e scrittori del nostro secolo. Pochi, pochissimi, hanno avuto la sua capacità di scrittura e la sua solidità melodica, nel raccontare storie dure e vere di disagio sociale, amore, misticismo, sesso e religione. Ci mancherà, e molto, la sua voce profonda, la sua eleganza, la sua magia. Magia che ci ha voluto regalare nuovamente prima di andarsene, lasciandoci un meraviglioso testamento sonoro chiamato “You Want It Darker” dal quale ho voluto proporre la splendida e profonda title track.
Il primo mese del nuovo anno ci ha portato via anche il metronomo vivente Jaki Liebezeit, uno dei musicisti più influenti della scena ‘krautrock’. Nei primi anni sessanta aveva iniziato la sua carriera come membro del quintetto di Manfred Schoof, tra i primi esponenti del free jazz europeo. Nel 1968, si era unito a Michael Karoli, Holger Czukay e Irmin Schmidt per dare vita ai Can. La band divenne in breve uno dei gruppi più influenti della scena tedesca, con il suo suono innovativo e visionario che coraggiosamente andava a pescare dal minimalismo contemporaneo (Czukay e Schmidt erano entrambi allievi di Stockhausen) alla psichedelia, incastrandosi meravigliosamente con i Velvet Underground e una certa musica etnica. La loro avanguardia si celebrò con l’uscita del seminale ‘Tago Mago’ (1971). Ascoltiamo insieme la meravigliosa “Paperhouse”, che dimostra come la loro libera sfrontatezza e anarchica purezza è stata fonte di ispirazione per tantissimi artisti degli anni settanta e ottanta, tra cui David Bowie, Joy Division, Stone Roses e Talking Heads.
La storia dei Terminal Cheesecake può richiamare a grandi linee quella dei The Membranes per fondazione, successo di culto, scioglimento e reunion a distanza di decenni. Fondati nel 1988 sono stati attivissimi nei primi anni novanta galleggiando tra neo psichedelia e noise rock. Tra psichedelia, post-punk e musica industriale, il suono della band è sempre stato provocatorio e sperimentale. La band si è riformata nel 2013, e a fine 2016 è arrivato un nuovo album in studio intotolato “Dandelion Sauce of the Ancients”, che vede la luce a ventun anni dallo scioglimento e a ventidue dall’ultimo disco. In questo periodo di revival chi meglio di un gruppo che ha davvero vissuto il periodo noise rock britannico anni 90 può reinterpretarlo con lo stesso vigore affidandolo ai gorghi psichedelici dei giorni nostri. Ascoltate la compatta “Poultice”, trascinata da una massiccia ritmica stoner e rafforzata da una chitarra che lancia fendenti carichi di psichedelia.
I Big Sexy Noise sono stati una creatura voluta da Lydia Lunch, creatura inquieta dedita all’espressione dell’irrequietezza sfrontata e impulsiva già all’inizio della sua carriera appena diciassettenne nei Teenage Jesus And Jerks, accanto al sassofonista James Chance. Con questa nuova band torna ad immergersi nello scuro e sporco blues metropolitano insieme a tre quarti dei Gallon Drunk: James Johnston alla chitarra (ex Bad Seeds), Ian White alla batteria e Terry Edwards, organo e sax. In questo album di esordio la Lunch lascia traboccare la sua furia dalle fogne, con la sua ironica e sboccata attitudine che gli fa interpretare meravigliosamente la cover di “Kill Your Sons” di Lou Reed e la splendida ed appiccicosa “Slydell”.
I Vanishing Twin sono stati un gruppo che ho “scoperto” a fine 2016 a playlist già completata. Non hanno fatto in tempo a convincermi per la Top 50, ma sono entrati facilmente a far parte del gruppo di outsiders. La band è stata formata da Cathy Lucas (Innerspace Orchestra), che ha voluto con sé la batterista Valentina Magaletti (Raime, Tomaga, Uuuu, Neon Neon), Susumu Mukai (Zongamin, Floating Points) al basso, Phil M.F.U. (Man From Uranus) a creare suoni dal mondo della library music, e il regista e artista visuale Elliott Arndt al flauto e percussioni. Aiutati dal produttore Malcolm Catto (Heliocentrics, DJ Shadow, The Gaslamp Killer), la strana band ha portato a compimento con ‘Choose Your Own Adventure’ un esperimento esoterico tra atmosfere retro e pop, con strumenti vintage ad evocare le strane storie del gemello assorbito nell’utero della mamma della Lucas. Si respira un’atmosfera cosmica in questo strampalato viaggio nel tempo, un fascino retro che sfiora i primi Stereolab, come dimostra lo splendido pop vintage di “Telescope”.
Chris Bell è stato l’artefice insieme ad Alex Chilton di quella magia e perfezione melodica chiamata Big Star. Nel capolavoro “#1 Record” i due si dividono la scrittura, richiamando un po’ quello che avveniva tra Lennon e McCartney nei Beatles ed inventando in qualche modo quel sottogenere che verrà tramandato come power pop. L’album di esordio ebbe un gran riscontro da parte della critica ma non fu promosso a dovere e il ritorno in termini di copie vendute fu disastroso. Demoralizzato dagli eventi, dal fatto che Chilton aveva ormai assunto la leadership e disgustato dalle regole del music business, Bell decide di uscire dal gruppo. Nel giro di pochi mesi entra in depressione e si lascia andare all’abuso di alcool e droghe pesanti. Prova ad intraprendere una carriera solista registrando molte canzoni nel periodo 1974-75, ma non farà in tempo a pubblicarle perché perderà la vita il 27 dicembre 1978 a soli 27 anni a causa di un incidente stradale, mentre si trovava a bordo della sua Triumph TR7. Fortunatamente per noi l’album è stato pubblicato postumo nel 1992 con il nome di ‘I Am The Cosmos’, e proprio da questo album ho voluto proporre la meravigliosa “You And Your Sister” a dimostrazione del grande talento compositivo di un ragazzo che ci ha lasciato troppo presto.
A proposito di power pop, è impossibile non parlare di una band scozzese che deve tantissimo proprio ai Big Star e a una certa stagione americana: i Teenage Fanclub. La loro esplosione è dovuta ad un album “Bandwagonesque”, che ha le radici proprio nel suono creato da Chilton e Bell, ma che si dimostra attuale e al passo dei tempi uscendo per la Creation nel 1991 quasi in contemporanea con ‘Loveless’ dei My Bloody Valentine. Il disincanto pop, la vibrante indole indie rock, tutto si incastra perfettamente in un album marchiato dalle penne di Norman Blake e Gerard Love che si dividono la quasi totalità dell’album lasciando poco o nulla all’altra chitarra e voce di Raymond McGinley. I tre si spartiscono meglio la torta prima in ‘Thirteen’ e poi (nel 1995) in “Grand Prix”. “Sparky’s Dream” scritta e cantata da Love, certifica la perfezione raggiunta dalla band, ogni dettaglio sembra essere al posto giusto e il suono raggiunge un perfetto equilibrio tra forza e dolcezza, genuinità e ricercatezza.
Grant-Lee Phillips non ha mai davvero inseguito la popolarità, ma la sua passione e visione musicale ispirata, almeno agli inizi, dal Paisley Underground e dal post punk. I Grant Lee Buffalo sono stati la sua consacrazione in parte anche commerciale del suo talento di musicista, e ‘Fuzzy’, l’album di esordio del trio formato insieme a Paul Kimble (basso) e Joey Peters (batteria), è uno splendido affresco di come il suo suono abbia abbandonato in parte la matrice Paisley per andare a pescare nella tradizione folk e country. Tra ballad elettriche, melodie impetuose e piccoli gioielli come la title track, l’esordio della band si rivela come un piccolo grande capolavoro, non scevro da aperte denunce politiche. Un affascinante viaggio sulle strade blu americane.
Torniamo indietro di qualche anno, metà degli anni ’80, Grant-Lee Phillips insieme al suo socio Jeffrey Clark (entrambi provenienti da Stockton, California) decidono di creare una band chiamata Shiva Burlesque. Uno dei gruppi di culto di quel periodo, un gruppo sottovalutato e rimasto sempre nell’ombra senza mai avere avuto almeno un briciolo della popolarità avuta dai Dream Syndicate o dai Rain Parade. Eppure la band ha saputo sfornare due ottimi album, l’esordio autointitolato del 1987 e lo splendido ‘Mercury Blues’ del 1990 dove il gruppo capitanato da Phillips e Clark dimostra di essere cresciuto in maniera esponenziale dal punto di vista compositivo, e l’unico punto a sfavore risulta essere l’inquietante immagine di copertina raffigurante un’inquietante immagine di Medusa. Proprio i Dream Syndicate sembrano essere il punto di riferimento di una scrittura più solida e di una voce, quella di Clark, che sembra avere acquisito una nuova consapevolezza. “Sick Friend” è l’esempio, con il suo entusiasmante crescendo, di quanto questa band sia stata sottovalutata e sia più che degna di essere riscoperta. Clark dopo lo scioglimento del gruppo non è più riuscito a trovare la passata alchimia e magia, mentre della splendida carriera di Phillips, attualmente ancora attiva con una invidiabile coerenza stilistica, abbiamo raccontato già in precedenza.
L’unione tra country e black music non è affatto una bestemmia, anzi. Basti ricordare che una delle etichette di riferimento del soul, la Stax Records, è stata fondata da Jim Stewart, un noto violinista country. Sturgill Simpson, tra i nomi più noti dell’outlaw country, con questo esordio per una major decide di creare un immaginifica guida chiamata “A Sailor’s Guide To Earth”, una sorta di concept ispirato dalle dalle lettere che il nonno spediva alla moglie dal fronte della seconda guerra mondiale. Il disco è un esuberante viaggio in mare aperto, condotto da Simpson senza esitazioni sia quando richiama il folk più manierista, sia quando addirittura rivisita in chiave Otis Redding addirittura “In Bloom” dei Nirvana! Il tutto condito dal una voce appassionata e dalla conduzione musicale dei Dap-Kings, la band orfana della compianta Sharon Jones, che è un po’ l’anima portante dell’album come dimostra la meravigliosa “Welcome To Earth (Pollywog)” che apre l’intero lavoro.
Lui ci manca, ci manca sempre molto. Sono già passati 13 anni da quel giorno tremendo in cui Elliott Smith ha deciso di porre fine alla sua esistenza terrena in un modo che ancora oggi non è stato mai del tutto chiarito. Nel 1994 Smith, non rispecchiandosi più nel suono rumoroso indie-punk-grunge dei suoi Heatmiser, ha deciso di imbracciare la chitarra acustica per permettere al suo animo e alle sue sensazioni di venire fuori in maniera più naturale. Il folk cantautorale dell’esordio ‘Roman Candle’ è schietto e sincero, gli accordi si succedono con intensità e purezza sottolineando i testi malinconici e densi dei problemi quotidiani e del mal di vivere. Successivamente i suoi dischi avranno fisionomia e arrangiamenti più corposi, ma la meraviglia e la semplicità di brani come “Condor Ave” lasciano sempre incantati. Elliott Smith ci ha lasciato tante meraviglie, scritte ed interpretate da un artista fragile e incompreso, la cui delicata e malinconica creatività ci manca ogni giorno di più.
Sui Moonshake ho scritto da poco un lungo articolo che ne ripercorre tutti i passi dagli esordi allo scioglimento. La band è stata formata da David Callahan e Margaret Fiedler nel 1990 scegliendo un nome che ne sancisse in maniera inequivocabile il legame con il krautrock (“Moonshake” è un brano che fa parte del seminale ‘Future Days’ dei Can). I due leader trovano presto un loro equilibrio pur nella diversità dell’approccio alla materia sonora, la Fiedler più propensa a creare brani eterei e di atmosfera, Callahan a preferire un tessuto urbano più duro e spigoloso. Erano due facce della stessa medaglia, l’amore per le stesse bands (Can, My Bloody Valentine, PIL, Kraftwerk) espresso in maniera completamente differente. Un incontro esplosivo, una collisione tanto inevitabile quanto evocativa. Dopo lo splendido esordio ‘Eva Luna’ in cui Pop Group, Can, Public Image Ltd. e My Bloody Valentine si stringono in un caleidoscopico girotondo, la Fiedler lascia la band lasciando la scena al solo Callahan che con il fido batterista Miguel “Mig” Moreland e l’innesto del nuovo sassofonista, flautista e clarinettista Raymond M. Dickaty, da alle stampe nel 1994 lo splendido ‘The Sound Your Eyes Can Follow’. Il suono è orgogliosamente “guaranteed guitar-free” e l’album non tradisce affatto le radici del gruppo, andando ad investigare più a fondo le marcate influenze jazz. In questo disco si inseguono senza sosta soul, jazz, funk, prendendo definitivamente i Rip Rig + Panic come numi tutelari, e mantenendo l’alternanza vocale maschile/femminile con l’innesto in cinque brani della (irriconoscibile) voce di PJ Harvey, accreditata semplicemente come Polly Harvey come nel funk nervoso intitolato “Just A Working Girl”. I Moonshake, inseriti nel filone post-rock britannico, sono stati semplicemente uno dei gruppi più originali degli anni novanta il cui unico torto è stato di essere stati troppo facili per l’avanguardia e troppo intellettuali per la massa.
Se si parla di Bristol in musica vengono sempre in mente almeno due nomi: Portishead e Massive Attack. Eppure nei primi anni novanta, la scena musicale della cittadina britannica vedeva nomi più sperimentali, come i Flying Saucer Attack, duo formato da David Pearce e Rachel Brook (coppia anche nella vita) affascinato dalla ricerca sonora, dalla musica cosmica e dalla psichedelia ambientale. Il secondo album del duo intitolato ‘Further’ vede i due allentare la coltre di rumore per far affiorare le melodie, la chitarra acustica diventa crepuscolare, la trascendenza ambient prende il sopravvento. Una sorta di folk ancestrale che mostra la piccolezza dell’uomo di fronte alla forza della natura. Prima che la voce si sgretoli nella distorsione kraut di “To The Shore”, ecco che il duo ci regala una sorta di ballata interpretata a modo loro chiamata “In The Light Of Time” prima di dividersi all’improvviso lasciando la sigla FSA nelle mani del solo Pearce. La Domino ha ristampato in splendide edizioni viniliche rimasterizzate i primi album, occasione in più per riscoprirli.
Chiudiamo il podcast rimanendo in Inghilterra e andando ancora a rovistare nello scrigno segreto del post-rock britannico. Gli Hood vengono fondati a Wetherby, cittadina non distante da Leeds, dai due fratelli Richard e Chris Adams che cercano di mediare i movimenti che in quel momento andavano per la maggiore in Inghilterra (shoegaze e britpop) con l’indie rock statunitense. Dopo alcuni 7″ e tre lavori sulla lunga distanza abbastanza acerbi e confusi, la band trova finalmente la quadratura del cerchio collaborando con Matt Elliott (all’epoca con i Third Eye Foundation) e pubblicando ‘Rustic Houses Forlorn Valleys’. L’album dilata il suono ed unisce in sei lunghi ed articolati brani il meglio del post-rock Made in England. E’ un album che in qualche modo si può paragonare al fantastico ‘Hex’ dei Bark Psychosis per il modo in cui le pause ed i silenzi riescono a vivisezionare l’anima, per i crescendo emozionali, i field recordings, i brevi giri chitarristici. Mentre i Bark Psychosis facevano un’istantanea del caos e della dispersione metropolitana, gli Hood hanno come paesaggio immaginario l’isolazionismo della campagna, con i rintocchi ovattati e la ricchezza di suoni che vanno a dipingere una serie di spettrali paesaggi rurali. “The Light Reveals The Place” rivela l’alba di un mondo dimenticato, un orizzonte immaginario dove abbandonarsi ai sogni.
E anche per stavolta è tutto. Nel prossimo podcast che sarà online venerdi 10 marzo parleremo di alcune novità molto attese come il nuovo The Flaming Lips e andremo a riscoprire una della band più originali dell’indie rock americano anni ’90, i Brainiac. Potete sfruttare la parte dei commenti qui sotto per dare suggerimenti, anche scrivere critiche (perché no), o proporre nuove storie musicali, mi farebbe estremamente piacere riuscire a coinvolgervi nella programmazione e nello sviluppo del mio website.
Vi do quindi appuntamento a tra due settimane, con un nuovo podcast da scaricare e nuove storie da raccontare, ma non mancate di tornare ogni giorno su RadioRock.to The Original. Troverete un podcast diverso al giorno, le nostre news, le rubriche di approfondimento, il blog e molte novità come lo split-pod. Siamo anche quasi in dirittura di arrivo per quanto riguarda l’atteso restyling del sito, e per questo (e molto altro) un grazie speciale va a Franz Andreani, che ci parla dei cambiamenti della nostra pod-radio e della radio in generale nel suo articolo per il nostro blog. Tutte le novità le trovate aggiornate in tempo reale sulla nostra pagina Facebook.
Se volete ascoltare o scaricare il podcast, potete farlo anche dal sito della stessa PodRadio cliccando sulla barra qui sotto. Buon Ascolto
TRACKLIST
01. LEONARD COHEN: You Want It Darker da ‘You Want It Darker’ (Columbia – 2016)
02. CAN: Paperhouse da ‘Tago Mago’ (United Artists Records – 1971)
03. TERMINAL CHEESECAKE: Poultice da ‘Dandelion Sauce Of The Ancients’ (Box Records – 2016)
04. BIG SEXY NOISE: Slydell da ‘Big Sexy Noise’ (Sartorial Records – 2009)
05. VANISHING TWIN: Telescope da ‘Choose Your Own Adventure’ (Soundway – 2016)
06. CHRIS BELL: You And Your Sister da ‘I Am The Cosmos’ (Rykodisc – 1992)
07. TEENAGE FANCLUB: Sparky’s Dream da ‘Grand Prix’ (Creation Records – 1995)
08. GRANT LEE BUFFALO: Fuzzy da ‘Fuzzy’ (Slash – 1993)
09. SHIVA BURLESQUE: Sick Friend da ‘Mercury Blues’ (Fundamental – 1990)
10. STURGILL SIMPSON: Welcome To Earth (Pollywog) da ‘A Sailor’s Guide To Earth’ (Atlantic – 2016)
11. ELLIOTT SMITH: Condor Ave da ‘Roman Candle’ (Cavity Search – 1994)
12. MOONSHAKE: Just A Working Girl da ‘The Sound Your Eyes Can Follow’ (Too Pure – 1994)
13. FLYING SAUCER ATTACK: In The Light Of Time da ‘Further’ (Domino – 1994)
14. HOOD: The Light Reveals The Place da ‘Rustic Houses Forlorn Valleys’ (Domino – 1998)