Il lungo viaggio dei Julie’s Haircut è arrivato alla settima fermata, un momento cruciale per la band emiliana perché Invocation and Ritual Dance of My Demon Twin viene pubblicato da una delle etichette più importanti del mondo in ambito psichedelico, la britannica Rocket Recordings, che ha nel roster nomi come The Heads, White Hills, Gnod, Anthroprophh e i nostri Ufomammut e Lay Llamas solo per citarne alcuni. Dal 2005 la musica del gruppo si è mossa verso territori più sperimentali, concentrandosi maggiormente sull’improvvisazione e la ricerca sonora, senza perdere contatto con il groove e la melodia che hanno caratterizzato la loro musica fin dalla formazione avvenuta nel 1994.
Il collettivo giunge quindi ad un crocevia importante del proprio percorso evolutivo, e lo supera splendidamente salendo sul razzo simbolo della label britannica per esplorare il cosmo dal punto di vista della loro metà oscura. Si, perché proprio la grafica di copertina, una celebre fotografia delle dive gemelle del cinema muto Dolly Sisters vestite di perle, è il punto di partenza per una nuova espressività emozionale, creata dalla loro metà uguale ma così diversa. Già il precedente Ashram Equinox del 2013 aveva mostrato il raggiungimento di una certa maturità espressiva e compositiva, che nel nuovo lavoro si mostra in tutto il suo splendore sciamanico già nell’apertura di “Zukunft”, undici minuti di rigogliosa vegetazione jazz-psichedelica che va a lambire gli oscuri sentieri cosmici di Tangerine Dream e Popol Vuh creando un affresco siderale senza tempo cui contribuisce in maniera fondamentale il sax del membro aggiunto Laura Agnusdei. La successiva tribale “The Fire Sermon” vede il ritorno della voce, elemento che rimane spesso in secondo piano, una suggestione ancestrale che fa capolino nella fitta trama psichedelica senza mai richiedere troppa attenzione. In “Orpheus Rising” ecco il pulsare ossessivo del basso, lo sbuffare del sax, la voce più presente anche se a volte filtrata, il motorik reiterato a gettare un ponte tra i due gemelli, tra il passato ed il presente della band. “Deluge” va avanti a spallate tra distorsioni violente e un muro di feedback che solo a tratti viene scalfito dai fiati alla Morphine. “Salting Traces” si apre con un intro di percussioni che ricorda da vicino “Reflection” dei Tool di Lateralus, e il paragone non risulti così peregrino, c’è la psichedelia ripetitiva e a tratti claustrofobica di fondo ad unire il tutto. La grande varietà di questo esoterico trip viene confermata dalle due ipnotiche danze folk/orientaleggiante/droniche chiamate “Cycles” e “Koan” (un mistico e sussurrato viaggio nel viaggio), e dall’esponenziale accrescimento dinamico della Doorsiana “Gathering Light”.
C’è tanto all’interno di questo ambizioso lungo viaggio, la psichedelia tout court, le suggestioni del Miles Davis elettrico, il krautrock, tracce di afro-beat, aperture orientaleggianti, ma il tutto è veicolato ottimamente svolgendosi in una trama avvincente e suggestiva che va assaporata e assorbita con calma.
Tra voci impalpabili, ipnotiche circolarità che dilatano lo spazio sonoro, improvvisazioni, fiati evocativi e spirito anarchico, l’album si snoda in maniera eccelsa portandoci in un mondo tanto oscuro quanto affascinante, consegnandoci un gruppo che è cosa buona e giusta inserire nell’eccellenza della nostra (martoriata) Italia in musica.