Le avventure in musica di Sounds & Grooves aprono la 14° Stagione di RadioRock.TO The Original
Un viaggio nel post-rock anni ’90 e molti altri suoni fanno parte del menu di questo episodio di Sounds & Grooves
Sono orgoglioso di aprire, con Sounds & Grooves, la 14° Stagione di www.radiorock.to. Non solo perché è bello iniziare di nuovo questa fantastica avventura, ma anche perché a distanza di anni è sempre meraviglioso registrare e dare un segnale di continuità con il passato, con quella meraviglia che Franz Andreani, Marco Artico, Flavia Cardinali, Massimo Di Roma, Michele Luches, Aldo Semenuk, Gianpaolo Castaldo avevano creato e a cui, nel mio piccolo, ho provato a dare un contributo dal 1991 al 2000. La Radio Rock in FM come la intendevamo noi è sparita da due decenni, ma in tutti questi anni di podcast sul web abbiamo cercato di tenere accesa quella fiammella per poi tentare di raddoppiarla, moltiplicarla, farla diventare un faro di emozioni e qualità musicale. Perché la passione e la voglia di fare radio, nonostante tutto, non ci è mai passata. Non siamo una radio “normale”. Non solo perché trasmettiamo in differita e attraverso podcast registrati, ma soprattutto perché andiamo orgogliosamente musicalmente controcorrente rispetto a quella che è diventata la consuetudine delle emittenti radiofoniche al giorno d’oggi. Quella libertà in musica che è diventata una mosca bianca, quella passione per la condivisione, per la ricerca, per l’approfondimento. Senza dover aderire ad una cieca linea editoriale che privilegia il commercio, ma lasciandoci guidare semplicemente dal nostro cuore e dalla nostra passione.
Negli oltre 80 minuti di “Big Wings” non troverete molte novità, anzi, a dire il vero non ne troverete alcuna. La compilazione della scaletta è andata in maniera massiva a pescare negli anni ’90. Partendo dalla psichedelia dei Flaming Lips, passati recentemente dalle nostre parti, sono andato ad approfondire il post rock britannico targato Too Pure di Long Fin Killie, Pram e Bows, il caleidoscopico mondo dei Boo Radleys e il trip hop dei mai troppo elogiati Portishead. Dopo un piccolo break con i troppo presto dimenticati Run On ed il post rock strumentale di Steve Fisk e dei suoi Pell Mell, mi sono tuffato indietro nel 1969 con i Jefferson Airplane. Sono riemerso nel 2013 ma sempre intriso nei sapori della West Coast con un Jonathan Wilson in stato di grazia prima di rientrare in pieni anni ’90 con il suono scintillante degli scozzesi Josef K e Teenage Fanclub prima di un finale dedicato a Robert Fripp con il suo migliore album solista (Exposure) e con il disco che chiude l’era anni ’70 dei King Crimson (Red), forse l’unica band dell’era progressive a suonare attuale ancora oggi. Il tutto, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
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Voi malcapitati che mi seguite da tempo, conoscete bene la mia predilezione per le alchimie sonore dei The Flaming Lips da Oklahoma City. Wayne Coyne, Steven Drozd e Michael Ivins non hanno mai smesso di sperimentare, di cambiare pelle, di giocare a modo loro sia con il pentagramma che con tutto quello che gli ruota attorno. Questa è sempre stata (forse) la loro dannazione e (sicuramente) la nostra benedizione. Un calderone istrionico che abbracciava all’inizio la psichedelia pura, ma che non ha mai disdegnato di confrontarsi con diversi altri stili musicali. Dalle sperimentazioni sul suono stesso della band con i famosi “parking lot experiments”, ovverosia 40 cassette create dal gruppo che dovevano essere suonate contemporaneamente all’interno di un parcheggio, ai giochi sul palcoscenico con le mani giganti, il supermegafono, la bolla di plastica dentro la quale Wayne Coyne si muove sul pubblico, i giochi pirotecnici, i milioni di coriandoli. Ultimamente l’ispirazione di Wayne Coyne e compagni sembra leggermente appannata, ma visto quante cose belle ci hanno fatto ascoltare nel corso degli anni, direi che possiamo perdonarli. Sono voluto tornare indietro fino al 1992, quando esce Hit To Death In The Future Head, il loro quinto lavoro in studio e primo ad essere pubblicato dalla Warner Bros. Records. Subito dopo la registrazione del disco usciranno Nathan Roberts e Jonathan Donahue (l’ultimo farà parte dei Mercury Rev) a favore dell’ingresso di Steven Drozd, tuttora compagno di merende di Coyne ed Ivins. E’ un album di cambiamento, un po’ confusionario, ma che lascia intendere quello che sarà il futuro prossimo della band. Un suono che si allontana dallo stile di eccentrica psichedelia per diventare più compatto, percorso che sfocerà nel (quasi) pop di The Soft Bulletin. “Frogs” è il perfetto brano di apertura per questo podcast.
The Boo Radleys sono una band britannica attiva negli anni ’90, stranamente mai apprezzata come avrebbe meritato. In realtà. basterebbe l’ascolto del loro miglior lavoro, Giant Steps, per rendergli giustizia una volta per tutte. Si sono formati nel 1988 a Wallasey, città non distante da Liverpool, nella Merseyside, una collocazione geografica di discreta importanza nella storia del rock. La prima formazione vedeva Rob Harrison alla batteria (sostituito prima da Rob Harrison e successivamente da Rob Cieka), il cantante-chitarrista Simon “Sice” Rowbottom, il bassista Timothy Brown ed il chitarrista e principale compositore Martin Carr. La band prese il nome da uno dei personaggi-chiave del capolavoro letterario di Harper Lee “Il buio oltre la siepe”. Il loro primo album Ichabod and I, nonostante la scarsa distribuzione ed ancora il più scarso successo, fece drizzare le antenne a quelli della Rough Trade che riuscirono a vedere il vero potenziale del gruppo. I loro primi singoli, tra cui questo splendido “Kaleidoscope”, in bilico tra shoegaze ed indie rock, vennero raccolti successivamente in un album intitolato Learning To Walk. I loro lavori successivi, pubblicati dalla Creation di Alan McGee nel suo periodo d’oro, hanno avuto maggior successo, mostrando una creatività ed un interesse multiforme sconosciuto ad altre band dello stesso periodo e della stessa etichetta. Sebbene siano stati associati al britpop, direi che ci troviamo abbastanza lontani da quel mondo anche se alcuni dei loro brani flirtano non poco con quel tipo di sonorità. Si sono sciolti nel 1999 dopo sei album in studio.
Simon Reynolds, sulle pagine del prestigioso The Wire, per spiegare il suo neologismo “post rock“, partiva dalle formazioni provenienti dalla Gran Bretagna, e da quello che è stato il suono dell’etichetta di riferimento, ovverosia la Too Pure. L’etichetta era stata fondata a Londra nel 1990 da Richard Roberts e Paul Cox, ed era salita improvvisamente alla ribalta grazie alla pubblicazione di Dry, l’album di esordio di PJ Harvey. Grazie al successo del disco, la label londinese era diventata in breve tempo il punto di riferimento per gli ascoltatori e gli addetti ai lavori meno allineati e usuali. Le band che incidevano per l’etichetta da una parte non si somigliavano affatto, ma dall’altra erano pervase dalla stessa comune voglia di sperimentare, rifacendosi a band come Pop Group o Rip Rig + Panic, ripercorrendo le strade del krautrock, usando lo studio di registrazione come nuovo strumento e delegittimando di fatto il simbolo principe del rock: la chitarra.
In questo filone si inseriscono perfettamente gli scozzesi Long Fin Killie. La band (che prendeva il nome a una famiglia di pesci d’acqua dolce ornamentali noti come killifishes, noti per la loro interessante sopravvivenza alla siccità e le curiose abitudini riproduttive) è stata formata dal polistrumentista Luke Sutherland dopo lo scioglimento dei Fenn, gruppo abbastanza noto nella zona di Glasgow per aver aperto concerti di Ride e Catherine Wheel. Insieme al leader c’erano Colin Greig al basso, David Turner alla batteria ed il chitarrista Philip Cameron. Il loro suono trasfigurava il folk classico (il leader suona mandolino e bouzouki) mischiandolo con jazz, dub e rock e dando vita ad un elettrizzante ibrido. “Pele”, tratta dal loro secondo album intitolato Valentino, ci fa tornare a quell’eccitante periodo della musica britannica.
Tra le bands di punta della scuderia Too Pure vanno assolutamente riscoperti i Pram. Originari di Birmingham, erano formati dalla cantante Rosie Cuckston, il bassista Sam Owen, il batterista Andy Weir e Max Simpson alle tastiere e campionamenti. Le loro influenze sono diverse, e spesso anche difficili da scoprire. La base di partenza è un certo tipo di jazz, con i fiati a fare da contrappunto alla sezione ritmica, ma possiamo trovare anche new wave, disturbi etnici e un certo tipo di minimalismo. Helium è il loro secondo album in studio uscito per la Too Pure, e vede la band andare a briglie sciolte con la fantasia tra rock e jazz, avanguardia e trip-hop con brani elaborati e sofisticati, come “Dancing On A Star”. La chitarra (già poco presente) sparisce quasi del tutto, lasciando l’asse tastiere/ritmica a menare le danze. Dopo un ulteriore splendido lavoro per la Too Pure (Sargasso Sea) la band si muoverà su binari più semplici e consueti prima di sciogliersi. Dopo dieci anni di silenzio, la band è tornata nel 2018 on uno splendido album intitolato Across The Meridian.
Dopo lo scioglimento dei Long Fin Killie, avvenuto nel 1998 a causa del mancato successo di pubblico, Luke Sutherland decide di formare una nuova band proprio per raccogliere più consensi. In realtà i Long Fin Killie hanno sempre ricevuto il plauso della critica per le loro composizioni mai banali, ma Sutherland chiedeva un maggior riscontro per le sua capacità compositive. La sinergia con la cantante danese, Signe Høirup Wille-Jørgensen si concretizza dietro alla ragione sociale di Bows. la specialità della casa è una sorta di trip hop di lusso con ariosi arrangiamenti, una bella sezione di archi ed innesti dub. Il primo dei due album incisi dal duo si intitola Blush, e si apre proprio con la splendida “Big Wings” che da il titolo al podcast. Dopo un secondo album, pubblicato sempre dalla Too Pure, Sutherland decide di chiudere anche questa esperienza. Attualmente vive a Londra, dove si divide tra la sua nuova carriera di scrittore e quella di musicista non più a tempo pieno.
Ufficialmente i Portishead, nati a Bristol dall’incontro tra l’ingegnere del suono e musicista Geoff Barrow e la cantante Beth Gibbons, sono semplicemente in pausa di riflessione. Di fatto non incidono insieme da11 anni. Barrow, dopo aver collaborato in studio alla nascita di una vera pietra miliare del trip-hop, Blue Lines dei Massive Attack, era rimasto talmente affascinato da quelle sonorità da decidere di formare un gruppo per svilupparle secondo le sue idee e la sua personalità. Trovato il perfetto contraltare vocale in Beth Gibbons, aveva già formato di fatto il primo nucleo della band che che prese il nome dalla città dove era cresciuto, Portishead, nel Somerset, Sud-Ovest Inglese. Dummy, il loro album di esordio, vede la formazione allargata a trio con l’inserimento del chitarrista di estrazione jazz Adrian Utley, ed è una collezione di visioni cinematiche segnate dai ritmi pennellati da Barrow che alternano ballate languide a movimenti sincopati. Il tutto cesellato dalla voce di Beth Gibbons che sussurra, invoca al cielo, emoziona. Difficile scegliere un solo brano che possa rappresentare tanta meraviglia. Alla fine la scelta è caduta su “Sour Times”. Dopo essere stati la band cardine del movimento trip-hop insieme ai Massive Attack, i tre si sono presi una lunga pausa prima di tornare dopo 11 anni. L’album Third, uscito nel 2008, risulta personale ed attuale anche a distanza di così tanto tempo, convincendo senza mai riciclare lo schema vincente dell’esordio con intuizioni geniali e l’inserimento di suggestioni kraut rock.
Ho appena tolto una discreta patina di polvere da un disco che anni fa girava abbastanza frequentemente sul mio lettore CD. Start Packing è stato l’esordio sulla lunga distanza di una band chiamata Run On, che nel 1996 metteva in pratica una mirabolante combinazione di improvvisazione e di affascinanti aperture pop, un suono tanto eclettico quanto stranamente accessibile. La band era formata dai coniugi Rick Brown e Sue Garner insieme ad Alan Licht e David Newgarden. Il gruppo era molto intrigante come dimostra questa splendida “Baap”, ma un anno più tardi, dopo un paio di EP, effettuò una brusca frenata. Licht ha continuato ad essere estremamente attivo come artista in bilico tra minimalismo e sperimentazione, mentre Brown e la Garner hanno saltuariamente collaborato con i Tortoise ed altre band post-rock prima di riapparire insieme nel 1999 con un album intitolato Still, dopodiché decisero di far perdere le loro tracce. Fortunatamente da qualche anno Rick Brown è tornato a far risplendere il suo talento grazie alla sinergia con il chitarrista Che Chen nei 75 Dollar Bill.
Strano destino quello dei Pell Mell. Pur essendo attivi dal 1981, sono rimasti pressoché sempre nell’anonimato nonostante uno dei suoi fondatori, il tastierista Steve Fisk, sia stato uno dei produttori più influenti del grunge anni ’90 (Soundgarden, Nirvana, Boss Hog, Screaming Trees). Ma Fisk non si è limitato a questo, visto che è stato in tempi recenti dietro alla console per gruppi come Low e Car Set Headrest. Autori di 4 album devoti al sound di Link Wray e Duane Eddy con una spruzzata di Morricone, esclusivamente strumentali, i Pell Mell erano già post rock ben 13 anni prima che il termine venisse inventato visto che la loro prima cassetta risale al 1981. Tutti i loro dischi sono estremamente godibili e sostanzialmente intercambiabili. Per il podcast ho scelto l’unico album uscito per una major: Interstate pubblicato dalla Geffen nel 1995: un lavoro esemplare di rock strumentale per chitarra, organo e batteria. Ascoltate la splendida ed evocativa “Nothing Lies Still Long” per credere. Magari se avessero avuto una voce ad arricchire la loro tavolozza sonora avrebbero avuto maggior appeal, ma non avremo mai la controprova.
Durante la compilazione della Rock ‘N’ Roll Time Machine poteva mancare all’appello la band statunitense di rock psichedelico per definizione? Certo che no! Nel 1967 i Jefferson Airplane dopo l’ingresso di Grace Slick in formazione, hanno pubblicato due dischi meravigliosi: Surrealistic Pillow e After Bathing At Baxter’s. Difficile se non impossibile scegliere tra i due titoli, due classici assoluti del gruppo californiano. Il secondo, uscito a soli sei mesi di distanza dal primo, presenta una struttura ancora più complessa, andando a sostituire i brani più brevi con delle mini suites che mettevano in evidenza la scrittura di Paul Kantner e proprio Grace Slick a scapito di quello che fino ad allora era stato il maggior compositore del gruppo: Marty Balin. Nel 1969 quell’utopia di “peace & love” si stava sfaldando sotto gli occhi di tutti, ma nonostante tutto la band con Volunteers cercò con tutte le proprie forze di aggrapparsi a quel sogno, anche se l’apparente contraddizione tra il nuovo status economico della band (al culmine della propria popolarità) e l’appoggio sociale alla protesta studentesca iniziava a far scricchiolare una macchina apparentemente perfetta. Per il podcast ho scelto la splendida versione della “Wooden Ships” di David Crosby, che vede come ospiti lo stesso Crosby e Stephen Stills all’organo, e lo straordinario session man Nicky Hopkins al piano. Il brano verrà pubblicato, in una differente versione, sul disco d’esordio di Crosby, Stills & Nash. Nonostante le polemiche che suscitò alla sua uscita, il disco (tanto contraddittorio quanto meraviglioso), ebbe un enorme successo commerciale. Volunteers fu, per il fondatore Marty Balin e per il batterista Spencer Dryden, l’ultimo in assoluto all’interno del gruppo
Mettiamo subito le cose in chiaro. Jonathan Wilson possiede un talento cristallino. Il compositore, polistrumentista e produttore californiano aveva fatto centro pieno con i suoi ultimi due album prima di scivolare sulla sua megalomania che lo ha portato con Rare Birds ad abbracciare le soluzioni più pompose e stratificate degli anni ’80. Il suo album precedente, Fanfare (per me disco dell’anno nel 2013) aveva colpito critica e pubblico per l’abilità delle costruzioni armoniche e per gli splendidi arrangiamenti. Nel suo splendido artigianato folk e dalle reminiscenze della west-coast dei seventies, si è fatto accompagnare da alcuni numi tutelari di ieri (Graham Nash, David Crosby, Jackson Browne e Roy Harper) e altri nomi emergenti di oggi (Josh Tillman meglio conosciuto come Father John Misty), che lo hanno aiutato a veicolare il suo impeto e la sua retromania nella costruzione di canzoni che funzionano davvero. “Illumination” è solo una delle perle di un disco da riassaporare poco per volta.
E’ durata davvero poco la stagione degli scozzesi Josef K, band formata nel 1979 a Edinburgo da Paul Haig (chitarra e voce), Ronnie Torrance (batteria), Malcolm Ross (chitarra, voce, violino e tastiere) e dall’ex-roadie David Weddell (basso) che aveva rimpiazzato il primo bassista Gary McCormack. I componenti del gruppo si erano conosciuti nella Firrhill High School e avevano preso il nome dal protagonista del romanzo di Franz Kafka intitolato Il Processo. Poche le testimonianze pubblicate: qualche singolo, un disco mai uscito per un eccesso di perfezionismo, ed un altro pubblicato quando la band era ormai già sciolta. Questo atteggiamento snob ha contribuito a creare uno status di culto. In realtà la band ha avuto effettivamente un grande merito di traghettare il post punk in una forma nuova di pop che andava a sfiorare la new wave in una profumata e fresca alternanza di chiari e scuri come dimostra “It’s Kinda Funny”.
Il power pop sotto la bandiera con la croce di Sant’Andrea ha senza alcun dubbio come gruppo di riferimento i Teenage Fanclub di Glasgow. E’ il 1986, quando Norman Blake e Raymond McGinley si uniscono al batterista Francis MacDonald e al bassista e cantante Gerard Love dando vita ad un gruppo che continua a sfornare dischi anche ai giorni nostri con il medesimo entusiasmo e con grande coerenza artistica. Un gran giorno il 4 novembre 1991 per la storica Creation Records fondata da Alan McGee. Nello stesso giorno l’etichetta pubblica Loveless dei My Bloody Valentine e quello che probabilmente resta il vertice della band scozzese: Bandwagonesque. Un disco di frizzanti melodie e equilibrato songwriting tra rock e pop, ad inseguire Neil Young e Big Star, come nella splendida “Alcoholiday”. Nonostante l’investitura dei Nirvana, con Kurt Cobain che insiste per far aprire loro diverse date del tour di Nevermind e gli elogi della critica, l’album non vende quanto merita, 70.000 copie nel Regno Unito, poco più del doppio negli Stati Uniti. Ma il combo scozzese non ha mai rinunciato ad incidere meraviglie scintillanti.
Dopo aver sciolto temporaneamente i King Crimson, nel 1977 Robert Fripp si trasferisce a New York che in quel momento è il centro della prima ondata punk e del movimento che sarebbe diventato celebre con il nome new wave. Fripp stabilisce subito dei contatti con gli artisti della scena cercando di assorbire quelle sonorità all’interno del proprio metodo creativo, che comprende anche l’uso dei frippertronics, un sistema di tape loop sviluppato con Brian Eno. Fripp concepisce inizialmente Exposure come la terza parte di una trilogia che comprende anche Sacred Songs di Daryl Hall e il secondo album di Peter Gabriel (noto comunemente come Scratch), entrambi prodotti da lui. Gli agenti di Daryl Hall si oppongono però all’idea, nel timore che una musica così sperimentale possa danneggiare il potenziale commerciale del cantante, e insistono anche perché Exposure sia accreditato anche a lui. Fripp sceglie invece di usare la voce di Hall in sole due canzoni, sostituendolo con Peter Hammill e Terre Roche in altre tracce. Il progetto della trilogia non viene quindi realizzato come previsto inizialmente, anche se tutti e tre gli album vengono poi distribuiti. “Urban Landscape” e “I May Not Have Had Enough Of Me But I’ve Had Enough Of You” (con il nuovo titolo “NYCNY” e un nuovo testo scritto e cantato da Hall) vengono pubblicati anche sull’album di Hall, e un’altra versione di “Exposure” appare sul disco di Gabriel. Per il podcast ho scelto la devastante strumentale “Breathless”. Nel 2006, è stata pubblicata dall’etichetta di Fripp, la DGM, una nuova edizione rimasterizzata in due CD: il primo disco contiene l’album originale del 1979 e l’altro una nuova versione con tracce bonus.
Visto che ne abbiamo appena parlato, chiudiamo il podcast con l’ultimo album dei King Crimson prima del temporaneo scioglimento. All’epoca della pubblicazione di Red (ottobre 1974) non solo i KC sono ridotti a trio (Robert Fripp, Bill Bruford e John Wetton), ma sono anche praticamente già sciolti. Il leader durante le registrazioni era già frustrato dalle dinamiche del music business, che lo porteranno allo scioglimento del gruppo e al successivo periodo di allontanamento dalla musica. David Cross e Ian McDonald appaiono solo come saltuari session men, e l’album risulta uno dei più duri, viscerali ed originali della band, in bilico tra le nevrosi di “One More Red Nightmare” e il capolavoro “Starless”. “Fallen Angel”, primo brano cantato dell’album, contiene l’ultima traccia di chitarra acustica registrata da Fripp con i King Crimson ed è condotta magistralmente dalla voce divina di Wetton.
Un grazie speciale va, come sempre, a Franz Andreani per la sua passione, la gestione di questa banda di pazzi e per la splendida riorganizzazione del sito già attiva da un paio di anni. A cambiare non è stata solo la versione grafica del sito, ma anche la “filosofia” della podradio, con le rubriche che vanno ad integrarsi nella programmazione regolare sotto l’hashtag #everydaypodcast. Da giugno 2019 è attivo lo splendido canale YouTube della Radio, una nuova formula senza interruzioni ne spot per ascoltare la vostra-nostra musica preferita. Iscrivetevi numerosi, vi aspettiamo! Naturalmente ogni aggiornamento e notizia sarà nostra premura comunicarla sulla nostra pagina Facebook.
Nel 10° Episodio di Sounds & Grooves troverete la prima parte della temutissima classifica dei migliori dischi del 2018 secondo il giudizio insindacabile della redazione di Sounds & Grooves…che poi sarei io. 🙂 In quasi 100 minuti di musica andremo ad ascoltare le posizioni dalla 30° alla 16° dove troverete ii suoni più “classici” di E, Parquet Courts, Shame, Reverend Horton Heat e Ty Segall, e quelli più complessi di Dwarfs of East Agouza, Young Mothers, Heather Leigh. Passando per la (quasi) disco music in chiave funk-kraut dei Cave, le sonorità cupe di Wrekmeister Harmonies e Skull Defekts, l’inaspettato ritorno dei Wingtip Sloat, l’eccitante suono dei Moon Relay e l’eleganza di Neneh Cherry. Il tutto, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
Intanto se volete potete sfruttare la parte riservata ai commenti qui sotto per darmi suggerimenti, criticare (perché no), o proporre nuove storie musicali. Mi farebbe estremamente piacere riuscire a coinvolgervi nella programmazione e nello sviluppo del mio sito web.
Se volete ascoltare o scaricare il podcast, potete farlo anche dal sito della stessa PodRadio cliccando sulla barra qui sotto. Buon Ascolto
TRACKLIST
01. THE FLAMING LIPS: Frogs da ‘Hit To Death In The Future Head’ (1992 – Warner Bros. Records)
02. THE BOO RADLEYS: Kaleidoscope da ‘Kaleidoscope (EP)’ (1990 – Rough Trade)
03. LONG FIN KILLIE: Pele da ‘Valentino’ (1996 – Too Pure)
04. PRAM: Dancing On A Star da ‘Helium’ (1994 – Too Pure)
05. BOWS: Big Wings da ‘Blush’ (1999 – Too Pure)
06. PORTISHEAD: Sour Times da ‘Dummy’ (1994 – Go! Beat)
07. RUN ON: Baap da ‘Start Packing’ (1996 – Matador)
08. PELL MELL: Nothing Lies Still Long da ‘Interstate’ (1995 – DGC)
09. JEFFERSON AIRPLANE: Wooden Ships da ‘Volunteers’ (1969 – RCA Victor)
10. JONATHAN WILSON: Illumination da ‘Fanfare’ (2013 – Bella Union)
11. JOSEF K: It’s Kinda Funny da ‘The Only Fun In Town’ (1981 – Postcard Records)
12. TEENAGE FANCLUB: Alcoholiday da ‘Bandwagonesque’ (1991 – Creation Records)
13. ROBERT FRIPP: Breathless da ‘Exposure’ (1979 – EG)
14. KING CRIMSON: Fallen Angel da ‘Red’ (1974 – Island Records)