Splendido album di esordio per la londinese Anna B Savage.
In “A Common Turn” la songwriter coinvolge con la sua emotività disarmante e la sua vocalità espressiva.
Non c’era alcun dubbio che la musica avrebbe avuto una parte fondamentale nella vita della londinese Anna B Savage. Figlia di due cantanti lirici, Anna ha trascorso i suoi primi compleanni nella stanza verde della Royal Albert Hall per una curiosa coincidenza: essere nata lo stesso giorno in cui morì Johann Sebastian Bach. Infatti ogni anno i suoi genitori venivano scritturati per esibirsi nell’annuale BBC Prom dedicato al compositore tedesco nella storica location di South Kensington. Dopo una silenziosa gavetta, nel 2015 la Savage ha pubblicato il suo primo EP, un’uscita prodotta da DM Stith accompagnata da poche e scarne note, ma capace di colpire nel segno per la timbrica profonda e per i testi personali che esprimevano insicurezze, domande e dubbi spesso irrisolti. Quattro canzoni che hanno intrigato due songwriters così diversi come Father John Misty e Jenny Hval, prontissimi nell’ascoltarla live in un luogo culto della musica londinese come il Cafe OTO per poi prenderla sotto la loro ala protettrice e portarla ad aprire le date europee dei loro tour.
Questo improvviso ed in qualche modo inaspettato successo non è riuscito a dissipare le sue insicurezze, anzi, probabilmente ha finito con l’aggiungerne altre che, unite ad una relazione amorosa divenuta tossica, hanno inficiato velocemente la sua capacità di scrittura e addirittura la sua salute mentale, mettendo in discussione il suo futuro non solo come musicista. I genitori hanno provato ad aiutarla facendole fare piccoli lavori amministrativi, ma non è stato così facile per lei rendersi conto di quanto avesse intrapreso una relazione dannosa non solo con il partner ma, soprattutto, con sé stessa. Lo scioglimento di questo legame nocivo è stato il primo mattone di un percorso di ricostruzione e di rinascita che ha portato l’artista a ritrovarsi, a riprendere in mano la propria vita e, finalmente, a trovare la forza di esprimere il proprio talento vocale e compositivo.
Avete presente la tipica scena delle serie tv poliziesche in cui l’investigatore unisce sul muro foto, riferimenti e indizi che possono portare all’identificazione di un omicida seriale? La Savage ha fatto la stessa cosa: in un mese ha stampato tutti i testi, li ha attaccati al muro e ha tracciato le linee verso le idee corrispondenti, assicurandosi di aver trattato nelle liriche tutti i temi importanti, collegandoli, eliminando eventuali ripetizioni ed inserendo i propri riferimenti personali e culturali (il Rocky Horror Picture Show, le Spice Girls, il piacere femminile, Nick Drake, la salute mentale, la passione per il birdwatching e per Edwyn Collins, ex leader della band di culto scozzese Orange Juice) cuciti come talismani dentro la sua musica.
Il passo successivo lo ha compiuto grazie al contatto e alla conseguente sinergia con William Doyle (FKA East India Youth) che, con la sua produzione ambiziosa ma elegante, è riuscito a dare una forma compiuta alle canzoni. I due sono stati in grado di creare A Common Turn, un disco composto da dieci tracce non certo convenzionali, piene di improvvise quanto felici intuizioni, dove l’estensione ed il timbro vocale della Savage riescono a creare intrecci con le armonie estremamente originali. Dopo il breve incipit di “A Steady Warmth” fatto di echi oscuri e deviati, l’artista inizia ad esprimere i suoi dubbi e le sue insicurezze con sconcertante sincerità e candore, come in “Corncrakes” dove, dopo un’inizio leggiadro di chitarra e voce, c’è uno stop & go che porta ad un’ansiogena accelerazione che culmina con un verso finale “I don’t feel things as keenly as I used to. I don’t know if this is even real. I don’t feel things” che toglie l’aria. Ma la Savage sa mostrarsi allo stesso tempo docile e selvaggia, come nell’alternanza vocale di “Dead Pursuit” che sottolinea tutte le sue paure passate: “Three years and still worried it’s a mediocre album. I swear I tear myself limb from limb. I don’t remember how to be me. I’m not the same” mostrando sempre una maturità vocale e compositiva sorprendente per essere un esordio.
Gli improvvisi cambi di passo che caratterizzano la gran parte delle tracce non sono mai fuori luogo, come nelle stratificazioni di suono che increspano il mare placido della chitarra e voce nella splendida “BedStuy”, per poi impennarsi in potenti rigurgiti ancestrali nella sorprendente mutazione di “Two”. Quando sembra che il suono sia scuro e denso oppure intimista e malinconico (“Baby Grand”), c’è un cambio di rotta più o meno deciso capace di prendere alla sprovvista, sempre con un’intensità emotiva assoluta. E se la quasi title track “A Common Tern” riesce a lasciare senza fiato evocando i fantasmi di Jeff Buckley, “Chelsea Hotel #3”, dietro ad una calma apparente, mette a nudo le sue fragilità e il suo rapporto con la sessualità, sottolineate da una voce autentica, vulnerabile, capace di diventare forte ed ipnotizzante nel climax del brano, quando avviene la presa di coscienza del semplice fatto che la cosa fondamentale, al di là dei dubbi, è prendersi cura di se: “New Year’s resolutions. I will learn to take care of myself. Take care of myself (if you know what I mean). Take care of myself”.
Non tragga in inganno il fatto che le canzoni inizino sempre in modo quasi convenzionale con voce e chitarra, come la splendida “Hotel”, dove la Savage mette le cuffie per ascoltare al buio Pink Moon di Nick Drake sperando di addormentarsi il prima possibile. Niente è come sembra. Il chiaroscuro, come accade spesso nella vita, è parte fondamentale anche di questo lavoro dove calma e desiderio vanno a braccetto con debolezze e dubbi. Vulnerabilità ed insicurezze espresse a chiare lettere nella conclusiva “One” che commuove nella aperta sincerità con cui la Savage descrive il controverso rapporto con il suo corpo e il conseguente approccio complicato con l’atto sessuale, per poi sottolineare con le pennate forti della chitarra una volontà non ancora raggiunta: “Cause I want to be strong. And I’d like to be fine. And I hate that it’s fueled. Even in part, by my own mind”
Probabilmente le sue aspettative erano state disilluse solo dai labirinti della sua mente, capaci di offuscare la linea sottile tra consapevolezza e fantasia, ma chissà se, dopo questo lavoro e con l’accettazione del suo enorme talento, la Savage riuscirà a autoconvincersi di essere diventata più forte. Da una parte speriamo di si, ma dall’altra, forse, questo farsi domande, scoprire piccole meraviglie nella vita di ogni giorno, farsi accalappiare dai dubbi, ce la rendono più vera ed empaticamente ancora più vicina, visto che ormai ci ha fatto diventare complici delle sue fragilità. Sono le vulnerabilità di ognuno di noi, più o meno nascoste, quelle che ritroviamo espresse con sussurri e potenza nelle 10 tracce di questo disco di disarmante sincerità fatto di tensioni e rilasci, ansie e catarsi. Non possiamo sapere come proseguirà la sua carriera, fare previsioni in campo musicale è sempre estremamente difficile e spesso si va incontro a brutte figure, ma questo è senza dubbio un esordio ammaliante.
TRACKLIST
1. A Steady Warmth 1:36
2. Corncrakes 3:43
3. Dead Pursuits 4:19
4. BedStuy 5:06
5. Baby Grand 5:16
6. Two 5:09
7. A Common Tern 4:47
8. Chelsea Hotel #3 5:02
9. Hotel 6:47
10. One 5:16