Ecco il primo podcast del 2024 di Sounds & Grooves per RadioRock.TO The Original
In questo nono episodio troverete le posizioni dal #30 al #16 della classifica 2023 di Sounds & Grooves
Eccoci di nuovo puntuali con l’appuntamento quindicinale di Sounds & Grooves che per il 18° anno consecutivo impreziosisce (mi piace pensarlo) lo straordinario palinsesto di www.radiorock.to. 18 anni…siamo diventati maggiorenni!!!! A pensarci è incredibile che sia passato già così tanto tempo da quando abbiamo iniziato questa folle ma fantastica avventura. Come (credo) sappiate, la nostra podradio è nata per dare un segnale di continuità con quella meravigliosa radio del passato che molti custodiscono nel cuore e a cui ho provato a dare un piccolo contributo dal 1991 al 2000.
Sappiamo tutti benissimo che la Radio Rock in FM come la intendevamo noi è sparita da tanto tempo, ma in tutti questi anni di podcast sul web abbiamo cercato di tenere accesa quella fiammella per poi tentare di moltiplicarla, facendola diventare un faro di emozioni e qualità musicale. Perché la passione e la voglia di fare radio, la voglia di ascoltare e di condividere la musica di qualità, nonostante tutto, non ci è mai passata.
Questa creatura dopo quasi 4 lustri continua orgogliosamente a remare controcorrente, cercando quella libertà in musica che nell’etere è ormai diventata una mosca bianca, ed esprimendo con forza la passione per la condivisione, per la ricerca, per l’approfondimento. Non dobbiamo aderire ad una cieca linea editoriale che ormai spinge esclusivamente il pulsante play dei servizi di streaming, ma ci lasciamo guidare semplicemente dal nostro cuore e dalla nostra passione. Fulvio Savagnone, Marco Artico, Giampiero Crisanti, Franz Andreani, Flavia Cardinali, Francesco Cauli, Ivan Di Maro, Massimo Santori aka Moonchild, Maurizio Nagni ed io proviamo ogni giorno a coinvolgervi con i nostri podcast regolari e con le rubriche tematiche di approfondimento, sperando di farvi sentire sempre di più parte di questa fantastica avventura.
In questo nono episodio stagionale troverete, come consuetudine per il primo podcast dell’anno, la prima parte della mia personale classifica del 2023. In questo spazio, come quasi ogni anno, ho voluto semplicemente buttare giù, come appuntandoli su un taccuino, gli album che negli ultimi 12 mesi ho ascoltato di più, e che sono riusciti maggiormente a coinvolgermi, e condividere con voi le mie emozioni. Nonostante ci siano un milione di classifiche sparse nel web, sia quelle compilate dalla varie (più o meno trendy) music webzines e magazines, che quelle postate sui vari profili personali dei social networks, credo che da ognuna di queste ci sia sempre da qualcosa da imparare, uno o più nomi da annotare per poi approfondire con curiosità. Oggi troverete le mie posizioni dalla #30 alla #16. Il tutto, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
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Prima di partire con questo viaggio in musica potete effettuare il download del podcast anche nella versione a 320 kb/s semplicemente cliccando sul banner qui sotto.
Iniziamo il podcast con il disco che si trova al #30 della mia playlist annuale. Qualche anno fa avevamo già parlato della batterista e cantante Andrya Ambro e del suo interessante e scorbutico approccio alla no wave che l’aveva portata alla formazione del duo Talk Normal insieme alla chitarrista Sarah Register. Le due avevano fatto in tempo ad incidere un paio di album prima di sciogliersi definitivamente. Con la creazione di un nuovo progetto chiamato Gold Dime, la Ambro aveva deciso di portare avanti quanto prodotto con Talk Normal, riducendo leggermente l’aggressività della proposta ma aumentandone l’approccio scuro ed industriale già dall’ottimo debutto intitolato Nerves. Con No More Blue Skies la ragione sociale Gold Dime è approdata al terzo capitolo dove, insieme all’intensa forza percussiva e vocale della Ambro, troviamo il basso di Ian Douglas-Moore, la chitarra di Brendan Winick, il sax contralto di Jeff Tobias, quello alto di Kate Mohanty e la viola e violino di Jessica Pavone. Un gruppo affiatato nel riprendere i tipici canovacci del noise-rock di stanza nella Grande Mela, riducendo la potenza rispetto al precedente My House ma ampliandone la tavolozza sonora e mantenendo intatta una sorta di energia primordiale che è la forza propulsiva delle sette tracce di cui è composto l’album. Con questa nuova uscita Andrya Ambro è rimasta fedele a un suono ormai definito e consolidato, spingendosi allo stesso tempo verso un ampliamento della propria tavolozza sonora, completata da testi astratti ma emozionanti. Se non vi siete avvicinati ancora alla musica di Gold Dime questo è il momento giusto per farlo, se invece già siete entrati nel suo scuro mondo, No More Blue Skies non potrà che appagare i vostri padiglioni auricolari. L’ansiogena “Denise” è stata la mia scelta per rappresentare un lavoro estremamente coinvolgente.
Dopo le ultime sperimentazioni in ambito dark folk insieme ai compagni di etichetta The Body, nel corso del 2023 sono tornate le sonorità ossessive, pesanti e distorte dei Big|Brave, trio composto da Robin Wattie (chitarra e voce), Mathieu Ball (chitarra) e la nuova arrivata Tasy Hudson (batteria). Loro si collocano in quel nebuloso spazio tra il metal e la sperimentazione, alternando una schiacciante e drammatica pesantezza con una leggerezza eterea e meditativa, in una modalità che pochi dei loro colleghi riescono a percorrere con successo. A fine febbraio è uscito il loro sesto lavoro in studio intitolato Nature Morte, il primo dopo il passaggio dalla Southern Lord alla Thrill Jockey. I tre sono riusciti a colorare di inquietudine le canzoni della loro natura morta, creando una sensazione di bellezza in decadimento, accompagnata da accordi sospesi in una quiete contemplativa. L’album, che troviamo al #29, esplora la follia della speranza, le conseguenze del trauma e spesso si concentra sulla sottomissione della femminilità in tutte le sue pluralità. Robin Wattie ha parlato così del disco: “È violento e terribile. È schiacciante e allarmante. È catastrofico e scoraggiante”. Le sei tracce in scaletta, aperta da “Carvers, Farriers And Knaves”, sono dilatate ed esplorano il pericoloso crocevia tra ambient, metal sperimentale e avant-rock, evolvendosi in un mondo dove l’elettricità si sparge in bordate improvvise. La voce straziante di Wattie è tagliente, spettrale, ottundente, ma l’aggressività riesce talvolta a placarsi in lussureggianti oasi meditative. Senza dubbio il trio canadese ha fatto un altro centro pieno.
Non è mai facile mescolare rumore e melodia. Bisogna conoscere bene i materiali di partenza e miscelarli con grandissima cura nelle dosi corrette perché il rischio che il risultato finale possa esplodere in malo modo è sempre altissimo. Ma quando l’alchimia funziona è sempre un piacere incredibile per le orecchie, come possono dimostrare le discografie di Hüsker Dü, Sugar o Dinosaur Jr. Dan Friel, cantante, chitarrista e compositore elettronico di Brooklyn, ha passato molti anni ad affinare le sue capacità chimiche, prima con i Parts & Labor poi come solista, per poi creare gli Upper Wilds, progetto che condivide con il bassista Jason Binnick e il batterista Jeff Ottenbacher. Se il noise pop e in generale il perfetto equilibrio tra cataclismi sonori e orecchiabilità è la vostra cup of tea, il consiglio è di non perdere assolutamente il quarto album degli Upper Wilds intitolato Jupiter, disco breve ma estremamente intenso che tra melodie post hardcore ed effetti di chitarra densi e selvaggi si fa strada sempre più a fondo nella nostra galassia arrivando al #28 della nostra classifica. Il concept, se vogliamo chiamarlo così, poteva anche dare luogo a banalità clamorose: grandiose narrazioni interstellari e le storie di varia umanità che sembrano quasi sparire di fronte a un universo che sembra in continua espansione. Per rappresentare il disco ho scelto la lunga e trascinante jam psichedelica “10’9″” che, con un ritmo quasi doom o stoner, paragona l’uomo più alto del mondo proprio a Giove, che da lassù strizza l’occhio a un mondo troppo piccolo. La chitarra trascinante e la voce melodica di Dan Friel, il basso roboante di Jason Binnick e la batteria incessante di Jeff Ottenbacher hanno dato vita ad una piccola epopea memorabile.
Incredibile pensare che sono passati ormai tredici anni da quando Mark Linkous ha deciso di andarsene definitivamente da un mondo nel quale stava sempre più scomodo. Il testamento sonoro che ci ha lasciato Mark, nascosto dietro al moniker di Sparklehorse, è però di inestimabile valore. A partire dall’album di esordio, un caleidoscopio sonoro dalla copertina apparentemente gioiosa ma in realtà leggermente inquietante dal nome tanto complicato quanto (quasi) impronunciabile: Vivadixiesubmarinetransmissionplot. 16 brani diversi per lunghezza e ispirazione, ma tutti permeati di quella malinconia di fondo che segnerà l’opera omnia di Linkous. Fragilità e oscurità sono state spesso considerate sinonimi di Sparklehorse e, con un po’ di frustrazione da parte di Mark, la storia di come il suo cuore si sia brevemente fermato dopo un’overdose accidentale durante il tour del 1996 è diventata parte della sua mistica dell’abisso. Il fratello minore di Mark, Matt, insieme alla moglie Melissa ha setacciato scatole di nastri e CD per catalogare e conservare alcune registrazioni inedite e dare vita ad album postumo, intitolato Bird Machine. Mark aveva già deciso sia il titolo che la lista dei brani, che il fratello ha ritrovato in appunti scritti a mano. Alcune canzoni erano prossime al completamento, mentre altre avevano bisogno solo di un attenta e mai invasiva correzione, l’aggiunta di una sottile strumentazione e di voci di accompagnamento in alcuni casi, un altro attento mixaggio in altri, per prendere il volo come nella meravigliosa “Falling Down” inserita in scaletta. Qualcuno ha messo il disco nel calderone delle ristampe, ma ho voluto inserirlo al #27 tra gli album del 2023 per la qualità delle tracce e per la felicità di aver ritrovato quel mix di ironia, meraviglia e depressione che il suo talento ci ha saputo donare.
Qualche mese fa la Amish Records, etichetta discografica di Brooklyn che opera dal 1996 in diversi ambiti musicali, dall’avant rock all’outsider folk, dal free jazz all’elettronica sperimentale, ha ristampato Parlor Tricks And Porch Favorites, album che nel 2001 aveva rivelato al pubblico il talento di Pat Gubler, nascosto dietro al moniker di P.G. Six. Un folk psichedelico che si inseriva perfettamente in una sorta di revival dell’epoca (che portò alla ribalta artisti come Devendra Banhart), e che si affacciava spesso e volentieri sulle coste britanniche (Fairport Convention, Bert Jansch, Anne Briggs). Quasi inaspettatamente. ben 12 anni dopo il suo ultimo lavoro solista, ecco che il polistrumentista ritira fuori la sigla P.G. Six che appare in bella vista sulla bucolica copertina di un nuovo album intitolato Murmurs & Whispers, uscito il 1 settembre per la benemerita Drag City. I mormorii e sussurri di un artista tornato in punta di piedi, che apre le danze suonando un’arpa celtica Triplett 34 corde modello fine anni ’80 con un’ intensa sensibilità, ci fa capire già dalle prime note che stiamo per entrare in un luogo completamente fuori dal tempo. Dopo gli arrangiamenti elettrici dei precedenti album, Gubler fortunatamente ha deciso di tornare a comporre quello che gli riesce meglio: canzoni capaci di contenere silenzi evocativi, come dimostra la commovente e suggestiva “Tell Me Death”. Il disco, registrato in un ambiente bucolico nelle campagne a nord di New York da Mike Fellows, ci fa ritrovare a distanza di tanti anni il talento speciale di Pat Gubler nel creare suoni terreni con aspirazioni trascendenti. Murmurs & Whispers è un album breve ma di grande intensità emotiva, così empatico e fuori da ogni rotta commerciale da risultare (paradossalmente) incredibilmente attuale e da meritare la posizione #26.
Ormai non c’è dubbio che se si parla di una certa (nuova) scena chiamata in maniera abbastanza imprecisa post punk (ma sarebbe quasi più centrato chiamarla post-post-punk) associata all’Irlanda, il primo nome che viene a mente è quello dei Fontaines D.C. E non potrebbe essere altrimenti visto il successo e la qualità mostrata dai ragazzi di Dublino nei loro tre album pubblicati. Ma con l’uscita del secondo lavoro i The Murder Capital capitanati dal cantante James McGovern hanno dimostrato che in quanto a profondità ed emotività non meritano affatto di restare sullo sfondo della scena irlandese. Già dall’esordio When I Have Fears nel 2019 la band aveva tracciato delle coordinate ben precise: chitarre lancinanti e più abrasive dei concittadini alternate a momenti riflessivi e drammatici. Al posto di inflazionare il mercato, i dublinesi si sono presi qualche anno di pausa per lasciar sedimentare nuove suggestioni sonore e iniziare un percorso che dall’oscurità dell’esordio potesse passare verso nuove tracce meno urgenti e più profonde e consapevoli. Una specie di percorso di “guarigione” evidente già dal titolo del nuovo lavoro. Gigi’s Recovery, che trovate al #25, è un disco più introspettivo, ma senza dimenticare la capacità di sfornare ritornelli da cantare a squarciagola. Le canzoni hanno una notevole profondità emotiva, e un fascino profondo che possiamo trovare anche negli elementi sghembi che amano inserire anche nei brani più lineari. “Ethel” è senza dubbio uno dei brani migliori e più emozionali del lotto.
Il 2023 è stato l’anno che ha visto un grandissimo e gradito ritorno. Il tempo passa ma gli Yo La Tengo, che hanno corso contro il tempo per quasi quattro decenni, continuano clamorosamente a resistere al ticchettio dell’orologio. L’ultima vittoria del trio si chiama This Stupid World, un’incantevole serie di canzoni riflessive che sono state prodotte in proprio, visto che il giudizio di Ira Kaplan, Georgia Hubley e James McNew è abbastanza solido e collaudato da mantenere alti gli standard della band e abbastanza agile da poter creare cose nuove. Alla base di quasi tutti i brani del nuovo album c’è il trio che riesce a suonare quasi in presa diretta, dando al tutto un’impressione di immediatezza, mantenendo i loro classici ritmi ipnotici. Il tempo continua a scorrere e noi continuiamo a cercare di fare qualcosa per evitarlo, una dichiarazione provocatoria ma chiara che suggerisce la volontà di combattere contro le avversità. Questo realismo porta al risoluto ottimismo del brano di chiusura di This Stupid World, “Miles Away”, che vede il passare del tempo e le variabili impazzite della vita come cose da affrontare piuttosto che come motivi per disperarsi. “You feel alone / Friends are all gone,” canta dolcemente la Hubley, “Keep wiping the dust from your eyes”. Un grande ritorno di una delle band più amate dell’indie rock a stelle e strisce che sorprendentemente è arrivato addirittura in cima alla classifica annuale di un magazine dedicato alla musica di avanguardia come il britannico The Wire. Per me è stato in ogni caso uno splendido ascolto che si posiziona al #24.
La londinese Anna B Savage nello straordinario esordio intitolato A Common Turn aveva messo a nudo le vulnerabilità di ognuno di noi, più o meno nascoste, e le aveva espresse con sussurri e potenza in 10 tracce composte da disarmante sincerità, tensioni e rilasci, ansie e catarsi. La recensione che ho avuto il privilegio di scrivere per OndaRock terminava così: “Non possiamo sapere come proseguirà la sua carriera, fare previsioni in campo musicale è sempre estremamente difficile e spesso si va incontro a brutte figure, ma questo è senza dubbio un esordio ammaliante”. C’era dunque una giustificata e alta aspettativa per il secondo lavoro della cantautrice britannica dopo l’uscita lo scorso anno di un EP intitolato These Dreams. Fortunatamente i dubbi della vigilia sono stati dissipati dalla pubblicazione di in|FLUX, che troviamo al #23. L’atteso ritorno della Savage ha confermato tutto quello che di buono si era detto sul suo conto. Stavolta a dare man forte alla songwriter c’è Mike Lindsay (Tunng) che la porta per mano come e più della precedente collaborazione con William Doyle ad un uso sapiente dell’elettronica. Anche qui, come nell’esordio, troviamo una disarmante sincerità, una vulnerabilità che si trasforma in una evidente e subitanea empatia. Troviamo di nuovo, ancora più consapevole, quel cambio di passo all’interno delle canzoni capace di stupire, l’alternanza tra momenti di quiete e quelli di intensità emotiva assoluta come nella bellissima “Touch Me”. In più c’è una nuova consapevolezza di artista e di essere umano che colpisce e convince. Una straordinaria conferma.
Continuiamo la nostra classifica arrivando al #22, posizione che ci consente un’immersione nello splendido mondo sonoro del folk britannico. nello specifico incontriamo una delle figure cardine del movimento folk revival inglese degli anni ’60 come Shirley Collins. La sua voce ipnotica è tornata a farsi sentire nel 2016 ed il suo ritorno sulle scene è stato una specie di miracolo. L’allora 81enne aveva registrato in maniera diretta, tra le mura della sua residenza nel Sussex, canzoni della tradizione britannica, americana e cajun, interpretate con la sua perizia ed il suo carisma. Nel 2023, al compimento del suo 88° anno di età, la Collins è ancora una ragazzina quando si trova accanto alle canzoni che canta, come l’intensa “High And Away” scritta dal suo collaboratore di lunga data Pip Barnes. Canzoni di cui è stata custode nel corso di una vita luminosa come quella descritta da una qualsiasi delle sue ballate. Gli antenati di molte delle sue canzoni erano per lo più coetanei quando furono portati alla ribalta e registrati negli anni Cinquanta e Sessanta, e Shirley rivendica ora lo status di anziana e portatrice di tradizione come quando le fecero da mentori quando era una ragazza del Sussex dagli occhi vispi e dai capelli ricci. Ma l’incantesimo di Shirley non è solo quello di evocare canzoni, è anche quello di evocare la terra. C’è una musa tranquilla nel nuovo Archangel Hill (titolo scelto in onore del patrigno di Shirley, che così aveva chiamato Mount Caburn, un punto di riferimento vicino alla casa dei Collins a Lewes), che profuma del gesso delle South Downs, il paesaggio che si è saldato nelle ossa di ogni generazione dei Collins, quella catena di colline calcaree nel sud dell’Inghilterra che si estendono dall’Hampshire, attraversano il Sussex e culminano nelle scoscese scogliere della Beachy Head. Il disco è un insegnamento crepuscolare, un promemoria della fine dei tempi da parte di Shirley, che ci ricorda quanto sia importante rendere omaggio alle generazioni precedenti.
Saliamo di una posizione, trovando al #21 una delle voci più belle, eleganti ed incontaminate del panorama musicale odierno. Una voce malinconica, inebriante e ipnotizzante quella di Meg Baird, che molti (spero) ricordano come membro di un gruppo di folk psichedelico chiamato Espers. Ma la californiana ha anche collaborato con successo con l’arpista Mary Lattimore ed è batterista (!) e cantante nell’interessante progetto Heron Oblivion. Come solista, la Baird ha interrotto ad inizio anno un silenzio che durava da ben otto anni (il precedente Don’t Weigh Down The Light risale al 2015) facendo uscire un nuovo album intitolato Furling. Il disco, pubblicato dalla Drag City, mostra l’unica superstite del progetto Espers (Greg Weeks ormai è un professore d’inglese a tempo pieno mentre di Brooke Sietinson si sono perse le tracce) cambiare leggermente registro, mettendo il pianoforte al centro delle sue composizioni. La Baird espande la sua tavolozza e distribuisce le sue molteplici sfaccettature in uno dei suoi lavori più ricchi, co-producendo e registrando l’album con Charlie Saufley, suo partner e compagno di band negli Heron Oblivion. Il folk si tinge ora di psichedelia, ora di jazz, ammaliando e convincendo grazie ad un suono più corposo. Anche a distanza di quasi un anno, visto che è stato pubblicato a gennaio, Furling è rimasto uno degli album più convincenti di questo 2023. Ascoltate “Star Hill Song” per credere.
Maurice Louca: compositore egiziano, manipolatore di beats e tastierista, appassionato di musica mediorientale e free jazz. Sam Shalabi: chitarrista canadese compositore di moltissime colonne sonore di film indipendenti e membro fondatore dei Shalabi Effect e Land Of Kush. Alan Bishop: contrabbassista e sassofonista americano, appassionato di tradizioni mediorientali e fondatore dei Sun City Girls. Nel 2012 ad Agouza, distretto di Giza, periferia del Cairo, questi tre musicisti si sono trovati a condividere lo stesso appartamento, decidendo di unire le proprie forze creando un nuovo progetto che potesse sposare in qualche modo la tradizione musicale del medio oriente, con la psichedelia e l’improvvisazione. Così sono nati i The Dwarfs Of East Agouza, che già dal loro album di esordio intitolato Bes ci hanno preso per mano portandoci in un viaggio tra dune desertiche ed asteroidi siderali, una sorta di psichedelia etnica che lascia molto all’improvvisazione e al flusso emozionale dei musicisti, come nella miglior tradizione del genere. Nel quarto album del trio intitolato High Tide In The Lowlands che troviamo al #20, i musicisti in due lunghe tracce continuano e completano questo viaggio incredibile mescolando tradizioni mediorientali, jazz, psichedelia, folk, con una capacità di improvvisazione che non ha eguali. L’ennesimo flusso lisergico ed estatico, come nell’apertura di “Baka Of The Future”, un’esperienza magica ed immaginifica da vivere aprendo mente ed orecchie.
C’è un sottile filo che unisce la musica di Jayne Dent aka Me Lost Me a quella di Richard Dawson. Non è solo l’aria condivisa di Newcastle Upon Tyne, ma un modo curioso, giocoso ed in qualche modo distopico di declinare la musica folk, substrato comune ai due. Nato come progetto solista nel 2017, dopo due album in crowdfunding, Arcana (2018) e The Good Noise (2020), e l’EP The Circle Dance (2021), Me Lost Me è diventato una sorta di collettivo che prevede la collaborazione regolare dei musicisti jazz Faye MacCalman al clarinetto e John Pope al contrabbasso. Dai club folk di Sheffield all’università di belle arti a Newcastle, Jayne Dent ha costruito, grazie alla sua curiosità e al suo talento, una modalità compositiva capace di unire la tecnologia di studio e l’elettronica al songwriting tradizionale. Una combinazione di folk tradizionale, field recordings, effetti elettronici, art pop, improvvisazione, che colpisce nel segno, soprattutto in questo album intitolato RPG, che porta la musica tradizionale a cavallo del tempo dalle tradizioni arcaiche dei racconti popolari fino al futuro, senza paura ma con una giocosa curiosità. Il disco è stata una delle più piacevoli scoperte dell’anno, capace di far innamorare sia chi ama la tradizione sia chi preferisce la sperimentazione: una serie di paesaggi sonori metà strada tra antico e moderno, con la una magistrale miscela di radici folk, elettronica e arrangiamenti intriganti, resa ancora più solida e convincente da una voce ricca e piena di sfumature che, anche a livello lirico, riesce a bilanciare elementi ambientali surreali e fantastici con ambienti ordinari e quotidiani. Ascoltate lo splendido loop di synth arricchito da clarinetto, registrazioni di uccelli che cinguettano e percussività rotolante di una “Heat!” che a tratti ricorda la migliore Björk, Una splendida sorpresa e un disco di tale profondità sonora da renderlo di difficile collocazione all’interno di un genere definito ma perfetto per occupare la posizione #19.
Saliamo di una posizione. Al #18 troviamogli australiani Lloyd Swanton (basso), Chris Abrahams (piano e tastiere) e Tony Buck (batteria). I tre sono tornati ad inebriarci con un nuovo (stavolta doppio) album a nome The Necks. Un album come sempre splendido intitolato Travel e formato da quattro lunghe tracce. Una vertigine, un saliscendi emotivo, un abbandonarsi al flusso musicale inscenato dai tre, tra mimimalismo e jazz, improvvisazione e rapimento emotivo, con inserimenti di battiti elettronici per aumentare la tensione. I brani sono stati registrati durante le loro consuete improvvisazioni live in studio alternando piano e Hammond, suggestioni elettroniche e pause ad effetto, un flusso sonoro che non aggiunge altro a quello già prodotto dal trio ma che allo stesso tempo non smette di emozionare e coinvolgere. I quattro lunghi brani di cui è composto il disco vorremmo che non finissero mai, come l’incedere di “Bloodstream”, portandoci sul serio a fare un viaggio in un’altra dimensione, e lasciandoci, una volta terminato l’ascolto, con il desiderio di ripartire al più presto.
Quanto prodotto negli ultimi anni dalla sassofonista e compositrice Matana Roberts è estremamente importante non solo musicalmente ma anche dal pinto di vista culturale e sociale. La sua visione musicale è estremamente affascinante ed è incredibile la quantità di idee messe in mezzo dall’artista nella saga Coin Coin, pubblicata dalla Constellation e arrivata quest’anno al suo quinto capitolo. La sassofonista di Chicago con i suoi fidi e numerosi collaboratori (tra cui doveva esserci anche la compianta Jaimie Branch di cui abbiamo parlato in precedenza e citata nelle note di copertina), ha messo in piedi una potente visione sonora che attinge a piene mani non solo dalla storia della sua famiglia, ma in generale dalla storia della schiavitù degli afroamericani, riscoprendola e mettendola in primo piano. Il suo viaggio antropologico-musicale prosegue con l’uso sapiente del sax, della voce e dei synth analogici, in sedici tracce che alternano jazz più classico ad esplosioni free, spoken word e cori antichi, improvvisazioni noise e bordate elettroniche mettendo di nuovo una donna al centro della narrazione e confermandosi ancora una volta (pur nella non facile fruizione del disco), come uno dei personaggi cardine della musica di avanguardia contemporanea. Ascoltate il trittico “We Said / Different Rings / Unbeknownst” che apre Coin Coin Chapter Five: In The Garden, e non faticherete a capire perché il disco merita la posizione #17.
Chiudiamo la prima parte della nostra classifica svelando la posizione #16. In un mondo musicale che sembra girare ad una velocità vorticosa, la cantautrice di Buffalo (New York) Julie Byrne si è presa un lungo tempo per comporre e registrare il suo terzo lavoro. Se il precedente Not Even Happiness nel 2017 era piaciuto a molti, sono sicuro che lo stesso succederà con questo The Greater Wings che appare anche più saldo e maturo del già ottimo predecessore. Il suo folk psichedelico e orchestrale aggiunge un tocco atmosferico di synth al suo riconoscibile fingerpicking, per rendere ancora più maturo un lavoro che colpisce per la profondità degli arrangiamenti e le splendenti aperture melodiche. La scomparsa del suo fedele produttore e collaboratore di sempre Eric Littmann a soli 31 anni, ha contribuito a dilatare i tempi di uscita del disco, anche se l’unica canzone composta dopo la prematura scomparsa del compagno è la conclusiva e struggente “Death Is The Diamond”. Una malinconia di fondo che avvolge come una rinfrescante brezza marina, ma capace di trasformarsi in luce di accecante bellezza come nella “Summer Glass” che potete ascoltare nel podcast. Con questo album la Byrne ci offre la sua versione più convincente e coinvolgente, mostrando un cantautorato maturo e personale.
Un grazie speciale va, come sempre, a Franz Andreani per la sua passione, la gestione di questa banda di pazzi e per la splendida riorganizzazione del sito già attiva da qualche anno. A cambiare non è stata solo la versione grafica del sito, ma anche la “filosofia” della podradio, con le rubriche che vanno ad integrarsi nella programmazione regolare sotto l’hashtag #everydaypodcast. Sulla nostra pagina Facebook troverete quotidianamente ogni upload del sito e, ormai da tempo, è attivo anche lo splendido canale YouTube della Radio, una nuova formula senza interruzioni ne spot per ascoltare la vostra-nostra musica preferita. Iscrivetevi numerosi, vi aspettiamo!
Nel prossimo episodio troverete la seconda ed ultima parte della mia Playlist dedicata alle migliori uscite del 2023, secondo l’insindacabile giudizio della redazione di Sounds & Grooves, con le posizioni dalla #16 alla #1. Siete curiosi di sapere chi ci sarà sul podio? Il tutto sarà, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
Intanto se volete potete sfruttare la parte riservata ai commenti qui sotto per darmi suggerimenti, criticare (perché no), o proporre nuove storie musicali. Mi farebbe estremamente piacere riuscire a coinvolgervi nella programmazione e nello sviluppo del mio sito web.
Per suggerimenti e proposte, scrivetemi senza problemi all’indirizzo e-mail stefano@stefanosantoni14.it.
Potete ascoltare o scaricare il podcast anche dal sito di Radio Rock The Original cliccando sulla barra qui sotto.
Buon Ascolto
TRACKLIST
01. GOLD DIME: Denise da ‘No More Blue Skies ’ (2023 – No Gold)
02. BIG|BRAVE: Carvers, Farriers And Knaves da ‘Nature Morte’ (2023 – Thrill Jockey)
03. UPPER WILDS: 10’9″ da ‘Jupiter’ (2023 – Thrill Jockey)
04. SPARKLEHORSE: Falling Down da ‘Bird Machine’ (2023 – Anti-)
05. P.G. SIX: Tell Me Death da ‘Murmurs & Whispers’ (2023 – Drag City)
06. THE MURDER CAPITAL: Ethel da ‘Gigi’s Recovery’ (2023 – Human Season)
07. YO LA TENGO: Miles Away da ‘This Stupid World’ (2023 – Matador)
08. ANNA B SAVAGE: Touch Me da ‘in|FLUX’ (2023 – City Slang)
09. SHIRLEY COLLINS: High And Away da ‘Archangel Hill’ (2023 – Domino)
10. MEG BAIRD: Star Hill Song da ‘Furling’ (2023 – Drag City)
11. THE DWARFS OF EAST AGOUZA: Baka Of The Future da ‘High Tide in The Lowlands’ (2023 – Sub Rosa)
12. ME LOST ME: Heat! da ‘RPG’ (2023 – Upset The Rhythm)
13. THE NECKS: Bloodstream da ‘Travel’ (2023 – Northern Spy)
14. MATANA ROBERTS: We Said – Different Rings – Unbeknownst da ‘Coin Coin Chapter Five: In The Garden’ (2023 – Constellation)
15. JULIE BYRNE: Summer Glass da ‘The Greater Wings’ (2023 – Ghostly International)
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SEASON 18 EPISODE 09: “Playlist 2023 – Part 1” https://t.co/s7bfrZriY7 il #podcast con la Prima Parte della mia #playlist 2023 è disponibile da leggere e ascoltare.
— SoundsAndGrooves (@SoundsGrooves) January 19, 2024