Ecco l’ultimo podcast del 2023 di Sounds & Grooves per RadioRock.TO The Original
In questa nuova avventura in musica troverete un avvio adrenalinico ed alcuni outsider usciti quest’anno
Eccoci di nuovo puntuali con l’appuntamento quindicinale di Sounds & Grooves che per il 18° anno consecutivo impreziosisce (mi piace pensarlo) lo straordinario palinsesto di www.radiorock.to. 18 anni…siamo diventati maggiorenni!!!! A pensarci è incredibile che sia passato già così tanto tempo da quando abbiamo iniziato questa folle ma fantastica avventura. Come (credo) sappiate, la nostra podradio è nata per dare un segnale di continuità con quella meravigliosa radio del passato che molti custodiscono nel cuore e a cui ho provato a dare un piccolo contributo dal 1991 al 2000.
Sappiamo tutti benissimo che la Radio Rock in FM come la intendevamo noi è sparita da tanto tempo, ma in tutti questi anni di podcast sul web abbiamo cercato di tenere accesa quella fiammella per poi tentare di moltiplicarla, facendola diventare un faro di emozioni e qualità musicale. Perché la passione e la voglia di fare radio, la voglia di ascoltare e di condividere la musica di qualità, nonostante tutto, non ci è mai passata.
Questa creatura dopo quasi 4 lustri continua orgogliosamente a remare controcorrente, cercando quella libertà in musica che nell’etere è ormai diventata una mosca bianca, ed esprimendo con forza la passione per la condivisione, per la ricerca, per l’approfondimento. Non dobbiamo aderire ad una cieca linea editoriale che ormai spinge esclusivamente il pulsante play dei servizi di streaming, ma ci lasciamo guidare semplicemente dal nostro cuore e dalla nostra passione. Fulvio Savagnone, Marco Artico, Giampiero Crisanti, Franz Andreani, Flavia Cardinali, Francesco Cauli, Ivan Di Maro, Massimo Santori aka Moonchild, Maurizio Nagni ed io proviamo ogni giorno a coinvolgervi con i nostri podcast regolari e con le rubriche tematiche di approfondimento, sperando di farvi sentire sempre di più parte di questa fantastica avventura.
Questo ottavo episodio stagionale avrà un inizio adrenalinico con il punk californiano degli X e l’energia dei MX-80 Sound. Andremo poi a ripercorrere alcue cose della classifica dello scorso anno, come gli straordinari Horse Lords e i trascinanti Yard Act. Ci sono anche alcuni artisti che pur facendo uscire dischi interessanti, non hanno raggiunto le prime 30 posizioni, come il gran ritorno di Jad Fair con i suoi unici Half Japanese e la conferma dei Black Pumas. Siamo andati anche a ritrovare l’ispirata scrittura di Ryley Walker, le meraviglie retro-psichedeliche degli Stereolab e il dissacrante suono dei Dead Rider Trio. Il nuovo King Krule non mi ha convinto del tutto, allora sono andato a ritroso nel tempo per trovarlo in gran forma, non prima di aver riscoperto le meraviglie dei One Arm e il blues senza tempo degli eterni 15-60-75 The Numbers. Il gran finale sarà appannaggio di alcune meraviglie soul come i catalani The Excitements e il fascino strumentale dei The Budos Band. Il tutto, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
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L’ultimo podcast dell’anno solare inizia con una grande dose di energia pura. Gli X sono stati una delle band cardine del punk statunitense. Formati nel 1977 a Los Angeles, tranne un breve periodo, hanno sempre mantenuta invariata la loro formazione che comprende Exene Cervenka (voce), John Doe (basso e voce), Billy Zoom, (chitarra), e D.J. Bonebrake (batteria). A differenza degli altri gruppi punk dell’epoca, gli X hanno sempre avuto diverse influenze, prima tra tutte il rockabilly, grande passione di Billy Zoom, ma anche al country ed al blues. Non a caso tutti i componenti della band (escluso proprio Zoom) hanno formato un progetto parallelo, quello dei Knitters, band dedita al country rock.
Altra influenza fondamentale è quella dei Doors, non a caso i primi quattro album sono stati prodotti proprio dal tastierista della storica band Ray Manzarek. Altra particolarità, quella di avere una frontman…donna, e quella delle due voci che si alternano al canto. Infatti molte canzoni sono cantate dalla sola Exene Cervenka, altre da John Doe, altre sono cantate da entrambi. Los Angeles, uscito nel 1980, lavoro di esordio, rimane a distanza di anni come uno dei dischi fondamentali della storia del punk. “The World’s A Mess, It’s In My Kiss” è il brano di chiusura di un disco feroce e delirante, vero manifesto dell’inquietudine che permeava L.A. e gran parte della California tra i ’70 e gli ’80. Il gruppo è tornato nel 2020, dopo 27 anni di silenzio, con Alphabetland, disco che miracolosamente, dopo così tanto tempo, ha mantenuto intatta la loro straordinaria carica.

Restiamo in ambientazioni adrenaliniche pubblicate nel 1980 ascoltando una band di Bloomington, Indiana che sul finire degli anni ’70 si trasferisce a San Francisco venendo a contatto con un’istituzione della scena sperimentale e underground: i The Residents. Nonostante il mezzo passo falso del debutto Hard Attack (che nel 1977 aveva venduto sì e no un centinaio di copie costringendo la Island a licenziarli), i MX-80 Sound vennero accolti dalla Ralph Records di proprietà degli stessi Residents andando a formare con i signori dell’occulto, i Chrome e i Tuxedomoon il cosiddetto “quadrato di San Francisco”, formato dai quattro gruppi più importanti della scena musicale locale dell’epoca.
Bruce Anderson e i suoi compagni d’avventura licenziarono nel 1980 questo Out Of Tunnel. L’impatto sarà molto più grande di quello dell’esordio, diventerà presto un disco di culto, un vorticoso art-punk graffiato da geniali intuizioni rumoriste e dalle scorribande del sassofono suonato dal secondo chitarrista Rich Stim. In “Follow That Car” vengono fuori le influenze del gruppo (Pere Ubu su tutti), ma filtrate da una sensibilità e capacità di scrittura che la rendono una traccia inarrestabile, tumultuosa e entusiasmante. Un disco ed una band importantissimi per molto alternative rock e hardcore americano negli anni a venire.

Ormai non c’è dubbio che il termine post-punk è stato usato un po’ a casaccio: calderone dai confini labili in cui è stato infilato un po’ di tutto, dagli Squid agli Idles. Nel caso degli Yard Act da Leeds capitanati da James Smith, viene facile accomunarli ai Gang Of Four per origini geografiche e ai The Fall per omonimia di cognome. in realtà non si manca di molto il bersaglio, visto che c’è una certa analogia tra James e Mark E. (facendo i debiti distinguo) nel declamare versi cinici, spigolosi e sarcastici a punzecchiare la classe politica britannica, e per quanto riguarda le chitarre taglienti non così lontane da uno dei gruppi più importanti della “vera” scena post-punk a cavallo tra i 70 e gli 80.
The Overload era un album molto atteso in UK e non solo, visto il notevole riscontro avuto da critica e pubblico dell’EP di debutto intitolato Dark Days che aveva fatto drizzare le antenne alla Island, pronta a metterli sotto contratto. L’esordio sulla lunga distanza dei giovanissimi inglesi lo scorso anno ha colpito nel segno: un punk declamato con ritmi talvolta funkeggianti, a volte pop ma con modalità eclettiche ed intelligenti, con la verbosità torrenziale di Smith a dominare il proscenio. “Tall Poppies” è il brano più lungo ed intrigante di un album centrato e molto interessante, dove i quattro ragazzi di Bristol mostrano una notevole personalità. Chissà se il secondo album, previsto per i primi mesi del 2024 saprà riconfermarsi a questi livelli.

Lo scorso anno è arrivata la grande conferma di un gruppo che già negli anni passati era riuscito davvero ad entusiasmarmi. Gli Horse Lords sono in quattro, suonano insieme dal 2010 e vengono da Baltimora. La struttura è quella (quasi) classica di un gruppo rock: Owen Gardner (chitarra), Max Eilbacher (basso ed elettronica), Sam Haberman (batteria) e Andrew Bernstein (sax e percussioni), ma le finalità sono totalmente diverse. Gli Horse Lords agiscono come un malware che si annida nel cuore del rock, lo corrompe e lo muta in un’altra entità. Si potrebbe chiamare math rock, ma non ci sono ne equazioni ne spigoli, ci sono spirali di suono che vengono dagli studi musicali dei singoli musicisti. Tutti e quattro i componenti del gruppo hanno studiato classica contemporanea, in particolare Gardner ha iniziato suonando il banjo ed è studioso di blues americano e folk africano della Mauritania, Eilbacher studia elettronica e suona il basso solo con gli Horse Lords, Bernstein ha studiato a lungo percussioni africane, mentre Haberman è l’elemento più prettamente rock e “selvaggio”.
Il quartetto di Baltimora è tornato nel corso del 2022 con Comradely Objects, l’ennesimo capolavoro di una band capace di perseguire e di raggiungere una visione unitaria non solo musicale ma anche politica. L’inquieta e sfaccettata visione musicale del quartetto ma delinea un ritratto emozionante della rivoluzione in corso. Non è facile descrivere il suono di questi quattro hackers del rock,. Quello che esce fuori dai solchi di questo quinto album è di grande complessità, visto che coesistono complicate poliritmie, potenti soluzioni sperimentali, afrofuturismi suggestivi, e grooves minimalisti. Un impegno sociale espresso da partiture strumentali, loop ritmici in grado di incresparsi e mutare pelle sotto i nostri occhi quasi senza che ce ne accorgiamo, un abbandonarsi al flusso sonoro per poi controllarlo e focalizzarlo al meglio. Se avete bisogno di nuovi stimoli in musica e di un gruppo che suona come nessun altro, gli Horse Lords fanno assolutamente per voi. Ascoltate “Mess Mend” e mi darete ragione.

A volta la strada per la pubblicazione di un album può diventare davvero lunga e tortuosa se i primi tasselli del puzzle non vanno subito al posto giusto. Nel 1992, a Parigi, Rose-Laure Daniel (basso e voce), Isabelle Vigier (chitarra) e Marine Laclavère (batteria) danno vita al progetto One Arm prendendo il nome da un racconto del drammaturgo e poeta americano Tennessee Williams. Le tre ragazze fanno parte senza sosta della scena musicale post-punk e no wave parigina e europea prima di sciogliersi nel 1997. Un anno dopo, digerito l’abbandono della Vigier, la sezione ritmica della band decide di riprendere il progetto facendolo partire di nuovo con due nuovi compagni di avventura. Una strada apparentemente folle visto che i nuovi arrivati componevano anche loro la sezione ritmica di un gruppo appena sciolto, La Mâchoire. L’innesto della batteria di Dilip Magnifique e del basso di Rico Herry ha dato vita ad un ibrido e simmetrico quartetto: due donne, due uomini, due bassi e due batterie. Ma anche stavolta il destino volta loro le spalle, l’etichetta che doveva produrre il loro atteso esordio fallisce e i componenti della band si salutano tornando ad essere geograficamente distanti.
Bisognerà aspettare altri 15 anni per far si che qualcosa si muovesse di nuovo sul fronte One Arm. L’interesse della Atypeek Music ha portato la band a riprendere i vecchi demo, arricchirli, remixarli e trasformarli nella versione definitiva che troviamo nella loro prima uscita sulla lunga distanza, finalmente pubblicata ad inizio 2021, che prende il nome di un loro antico progetto alternativo: Mysore Pak. Due bassi, due batterie, samples, field recordings capaci di shakerare post-rock britannico anni ’90 (quella meravigliosa estetica sonora che faceva capo all’etichetta Too Pure), funk, krautrock, new wave e musica industriale in un calderone febbrile di grande effetto. Come nella trascinante “Real” che ha il compito di aprire l’album. I quattro musicisti hanno messo su un album di sicura suggestione, capace di colpire con complesse trame ritmiche che vengono costantemente trafitte dagli inserimenti ispiratissimi degli effetti e dalle bordate di suoni meravigliosamente organizzati.

Uno dei due chitarristi degli U.S. Maple (autori di 5 pregevoli album dal 1995 al 2003 e perfetta incarnazione di quel fenomeno che andava sotto il nome di Now Wave), Todd Rittmann, nel 2009 ha creato i Dead Rider, un nuovo progetto con cui portare a compimento la sua missione di scomporre e ricomporre vari generi musicali. Rittmann con i suoi nuovi compagni di avventura: Matthew Espy, batteria, Andrea Faugh, tromba e tastiere, e Thymme Jones, elettronica, tastiere, fiati e batteria (questi ultimi due anche nei Cheer-Accident) ci avevano già convinto nel 2014 con un album intitolato Chills On Glass, che aveva incantato per il gioco degli incastri, e per l’abilità di Rittmann e compagni di creare un’equilibrata alchimia tra ingredienti apparentemente molto diversi, per poi confermarsi 3 anni dopo cambiando riferimenti stilistici ma facendo di nuovo centro.
Su Crew Licks l’obiettivo del restauro diventava la black music, e il dipanarsi delle nove tracce era come il gioco della pentolaccia, con i quattro che dopo aver messo nella pignatta di terracotta soul, funk, psichedelia anni’70, si divertivano a colpirla a turno con violente mazzate. Stavolta la creatura feroce e mutante di Rittmann cambia leggermente nome, riducendosi a trio (non è più della partita Thymme Jones) ma ospitando la voce del britannico Paul Williams, di cui poco si sa se non che è stato il manager dell’attore Crispin Glover. Una sorta di Tom Waits quasi più roco, perfetto per sottolineare i pestoni storti e dilatati di questa band che riesce sempre a stupire per l’ennesima rivisitazione e reinvenzione della materia rock-blues come dimostra la splendida “Not A Point On A Scale”. I Dead Rider, o Dead Rider Trio, ormai sono tra i miei preferiti in assoluto, e per qualità e varietà stilistica (merce rara al giorno d’oggi) non mi stancherei mai di ascoltarli.

Diavolo di un Jad Fair. Sembra aver trovato davvero l’elisir di lunga vita musicale. Sono passati ben 45 anni da quel 1/2 Gentlemen/Not Beasts che ha svelato al mondo il suo talento, ma non ne vuol sapere (giustamente) di abdicare. Il suo progetto Half Japanese è sempre stato un concentrato di originalità ed energia allo stato puro. Anche senza il supporto del fratello David, che lasciò la band all’inizio degli anni ’80, Jad ha continuato imperterrito attraversando le decadi e conquistando il cuore di altri musicisti come, ad esempio, Kurt Cobain. La sua musica non sarà rivoluzionaria come 45 anni fa, ma ha ancora il potere di stupire e coinvolgere per varietà ed intelligenza compositiva.
Jump Into Love, uscito quest’anno per la Fire Records, dovrebbe essere il ventunesimo album degli Half Japanese. Ed è davvero un ottimo disco, dove Jad, accompagnato dal suoi sodali da anni come il chitarrista/tastierista John Sluggett (membro di lunga data della band di Moe Tucker), il bassista Jason Willett, il chitarrista Mick Hobbs e il batterista Gilles Rieder, si lasciano andare in dodici tracce stralunate e varie che ipnotizzano e lasciano sempre stupefatti per la loro originalità, come nella trascinante “Shining Sun” inserita in scaletta. Lunga vita a Jad Fair!!!
“Positivity is positively positive and positively present. Hold on to it. It’s OK.”
Jad Fair

Nello scorso episodio ,seppur in maniera trasversale, abbiamo parlato di un gruppo che, senza dubbio, è stato tra i più importanti ed ispirati degli anni novanta. Nel 1988 Tim Gane è uno dei membri dei McCarthy, gruppo che, dopo un inizio a spron battuto, era sul punto di implodere. Durante un concerto dei McCarthy a Parigi, galeotto fu l’incontro con la cantante Lætitia Sadier, che, prima collabora con la band nel loro ultimo lavoro in studio, poi diventa partner in crime (e successivamente anche nella vita privata) di Tim Gane in una nuova formazione chiamata Stereolab. Il fatto di essere quasi opposti nei gusti musicali (kraut-rock e minimalismo per Gane, pop e musica leggera francese dei ’60 per la Sadier) più che un ostacolo diventa un vero e proprio trampolino di lancio per una delle formazioni più intelligenti, intriganti, ipnotiche ed imitate degli anni ’90 e non solo. I due creano una nuova etichetta, la Duophonic, anche se per le prime uscite faranno capo alla Too Pure, label fondamentale per la diffusione del post-rock britannico dei ’90 e per aver sdoganato il talento di PJ Harvey.
Anche gli Stereolab verranno inseriti nel calderone di gruppi come Pram, Moonshake, Laika, Long Fin Killie, ma avranno una carriera molto più lunga e un’importanza notevole su moltissimi gruppi per gli arrangiamenti psichedelici, il cantato pop spesso in francese della Sadier e il motorik ritmico. La loro prima fase di carriera tocca il suo vertice nel 1993 con il secondo lavoro intitolato Transient-Random Noise Bursts With Announcements, album capolavoro che segna gli Stereolab come vera e propria band di riferimento dell’epoca, i due insieme a Duncan Brown (basso), la compianta Mary Hansen (chitarra e voce), Andy Ramsay (batteria) e Morgan Lhote (tastiere), con inserimenti del sax di Ray Dickarty e del vibrafono di John McEntire (Gastr Del Sol, Tortoise, Sea And Cake) successivamente daranno vita ad una fase più accessibile rimanendo sempre nell’alveo della sperimentazione. L’irresistibile incedere di “Tone Burst” è perfetto nello stabilire le coordinate sonore di una band stratosferica. Dopo aver subito diversi colpi avversi della sorte nel 2002 con la tragica morte di Mary Hanson in un incidente stradale e la fine del rapporto sentimentale tra la Sadier e Gane, il gruppo ha continuato ad andare avanti fino al 2009, anno in cui è iniziato un periodo di pausa interrotto dieci anni dopo solo per riprendere l’attività live.

Abbiamo parlato più di una volta su queste pagine di Ryley Walker, un songwriter -chitarrista dell’Illinois capace con il suo talento di intraprendere un affascinante percorso partito da una perfetta integrazione della sua scrittura con il retaggio della scena folk britannica degli anni ’70. Dopo il successo di Primrose Green, Walker ha evidenziato degli album seguenti la splendida irrequietezza di un artista sempre in cerca di cambiamento. Nei i solchi dei suoi album possiamo trovare non solo tutte le influenze apertamente dichiarate durante l’arco della sua carriera, ma anche altre ispirazioni e riferimenti sempre nuovi oltre a mostrare una notevole personalità e unicità. Il tutto messo al servizio di una scrittura non facile ma sempre perfettamente a fuoco tra rilassamenti bucolici e momenti sperimentali, accordi aperti e accelerazioni sincopate improvvise. Un itinerario tortuoso, irrequieto, alla ricerca di una strada che sembra difficile da trovare, ma che all’improvviso appare in tutto il suo splendore davanti all’ascoltatore.
Questa irrequietezza mostrata apertamente in musica purtroppo non ha risparmiato il Ryley Walker uomo. Nel 2018, dopo essersi trasferito a New York City, la sua dipendenza da alcool e droghe è arrivata ad un punto critico, costringendolo a chiedere aiuto e ad abbandonare le scene per un periodo di riabilitazione necessario visto il difficile stato fisico e psicologico in cui versava. La sua nuova vita è iniziata due anni fa con la creazione della sua personale label chiamata Husky Pants Records è con un album, Course In Fable, prodotto da un personaggio cardine della storia recente di Chicago in musica come John McEntire. Course In Fable è lo specchio un artista che ha sempre voglia di progredire artisticamente, che si annoia facilmente e che è giunto in una fase di piena maturità artistica in cui riesce con disinvoltura a creare un incredibile e avventuroso equilibrio tra sperimentazione e struttura classica, riuscendo a non ripetere mai le stesse soluzioni. “A Lenticular Slap” è uno dei vertici dell’album, quasi 8 minuti dove ci si perde e ci si ritrova, mentre Walker si diverte a piazzare piccoli labirinti di complessità variabile da cui ne esce con sorprendente facilità grazie ad aperture armoniche e melodiche di tale bellezza liberatoria da togliere il fiato.

Adesso andiamo a parlare di un ragazzo ancora giovane ma che ha dato già dimostrazione di un grande talento compositivo. Notevolissimo il processo di crescita del londinese Archy Marshall aka King Krule. Il giovanissimo prodotto della working class britannica già aveva colpito moltissimo pubblico e addetti ai lavori nel 2013 con lo splendido 6 Feet Beneath The Moon, ma nel 2017 saprà fare ancora meglio con un doppio album intitolato The Ooz. Marshall agisce come un mutaforma schizoide tra cantautorato classico, modernità, post-punk, swing e jazz con una maturità compositiva clamorosa per i ventitré anni che aveva all’epoca della pubblicazione di questo disco.
Un interprete multiforme, un talento classe 1994 che fortunatamente non sembra essersi perso per strada e che (spero) ci regalerà ancora moltissime cose negli anni a seguire (anche se il Space Heavy pubblicato proprio a giugno di quest’anno personalmente non mi ha entusiasmato più di tanto). Ma il tempo e il talento sono dalla sua parte. La “Dum Surfer” inserita in scaletta non è solo una delle tracce più belle del disco, ma uno dei miei ascolti preferiti di sei anni fa.

A pensarci bene è una sorta di cosciente e lucida follia. La pazzia meravigliosa di una band che in 50 anni di attività ha pubblicato una decina scarsa di album senza mai avere un vero contratto discografico. I The Numbers da mezzo secolo tengono alto nella notte il fuoco sacro del blues di cui si vantano (a ragione) di conoscere a menadito la mappa, compresi quegli angoli più nascosti che comunicano con i ripostigli jazz. I fratelli Kidney (Robert, chitarra e voce e Jack, tastiere e armonica) insieme a Terry Hynde al sax, Bill Watson al basso e Clint Alguire alla batteria, dal loro nascosto angolo di Kent nell’Ohio hanno sempre prodotto musica, anche senza inflazionare il mercato. In questo mezzo secolo la band ha dato spettacolo sul palco, collaborato con personaggi del calibro di David Thomas, Anton Fier e partecipato ad alcune delle varie incarnazioni dei Golden Palominos.
La loro è una visione singolare ma vera del blues, un’immagine reale dell’America proletaria, interpretata senza inutili tecnicismi e fronzoli. La loro intenzione nel festeggiare il mezzo secolo di attività era di registrare la loro musica in un modo che potesse mettere in risalto il rischio e la vulnerabilità dell’esecuzione. La band ha festeggiato nel 2020 il mezzo secolo di attività con un album registrato quasi tutto in presa diretta, lasciando che la tecnologia avesse il minor impatto possibile. Il risultato, Endure: Outliers On Water Street, è l’ennesimo album autoprodotto (e per questo non di facilissima reperibilità) capace di raggiungere un livello di eccellenza. I lunghi anni di silenzio non sembrano aver arrugginito l’impatto sonoro della band che con la lunga e stratificata “And Whirl Around” ci fanno fare il giro del blues in 9 minuti, con un prolungato inciso strumentale a metà del brano ed un incrocio sax-armonica che vorremmo non finisse mai.

Nel film The Commitments, diretto da Alan Parker, c’è una famosa frase con cui Jimmy Rabbitte, (il manager del gruppo che da il titolo al libro/film) cerca di convincere i musicisti da lui raccolti nei modi più disparati, a diventare fervidi adepti del culto della soul music: “Gli Irlandesi sono i più negri d’Europa, i Dublinesi sono i più negri di Irlanda e noi di periferia siamo i più negri di Dublino, quindi ripetete con me ad alta voce: “Sono un negro e me ne vanto!”” E se a qualcuno allora poteva sembrare strano, ma non più di tanto in realtà, di trovare (sia pure sugli scaffali di una libreria o al cinema) un gruppo a Dublino che voleva diffondere alle masse il verbo del soul, cosa si può pensare di un gruppo formato da sette elementi, capitanato da una ragazza arrivata direttamente dagli anni ’60, Koko Jean Davis, (impressionante la sua somiglianza con una Tina Turner giovane), e che viene dalla…Catalogna?
Questo gruppo si chiama The Excitements: due chitarre, due sassofoni, basso e batteria con pianoforte e tromba a fare capolino spesso e volentieri. Si formano nel 2010 grazie all’incontro di due appassionati di soul e rhythm‘n’blues, Adrià Gual (chitarra ritmica) e Daniel Segura (basso), che raccolgono altri adepti alla causa del soul e riescono a fare bingo grazie all’incontro con l’incredibile talento vocale e la devastante presenza on stage della piccola ma inarrestabile Koko Jean Davis, nata in Mozambico, cresciuta negli States e vissuta in Brasile prima del fortunato approdo in Catalogna. Nel 2013 uscì il loro secondo album, Sometimes Too Much Ain’t Enough, che presentava, oltre ad alcune cover, anche alcune tracce originali che non sfiguravano affatto come il megablues “I’ve Bet And I’ve Lost Again“. Il suono, la passione, il fuoco che arde sono elementi che nel mondo musicale attuale non si trovano facilmente, e quando li troviamo non possiamo che attingerne a piene mani con soddisfazione. Certo, dispiace dar torto al simpatico Jimmy Rabbitte, ma chi poteva solo lontanamente immaginare che i neri più neri d’Europa fossero di stanza a Barcellona e non nella periferia di Dublino. Purtroppo Koko è andata per la sua strada e il gruppo, dopo un cambio di cantante, non ha saputo ripetere l’energia pulsante dei primi lavori.

Quando nel 2019 i Black Pumas hanno pubblicato il loro debutto autoprodotto, il duo originario di Austin, Texas, ha scatenato una reazione tanto entusiasmante quanto inaspettata. Per il cantautore Eric Burton e il chitarrista/produttore Adrian Quesada ci sono state ben sette nomination ai Grammy Award (tra cui Album Of The Year) e elogi piovuti da importanti testate come Pitchfork e Rolling Stone. Immaginiamo quindi la pressione sul duo nell’entrare in sala di incisione per mettersi al lavoro sul loro attesissimo secondo album. La band ha cercato in qualche modo di ampliare la propria tavolozza per includere diverse forme musicali
Ecco qui che in Chronicles Of A Diamond troviamo una cura certosina negli arrangiamenti e nelle orchestrazioni, per una musica che presenta un ibrido di soul e pop sinfonico, escursioni nel jazz-funk afroamericano e nella psichedelia, registrata cercando di catturare l’energia dei loro concerti. Non a caso il primo brano del disco, “More Than a Love Song”, è già da anni presente nella scaletta dei loro concerti ma non era stata mai incisa in studio. Un brano potente, sinuoso, con grandi cambi di ritmo e una notevole parte vocale che rappresenta perfettamente la visione musicale di un gruppo che sicuramente venderà moltissimo. Ho voluto inserire i Black Pumas in scaletta perché trovo questo disco un prodotto valido ma non così tanto da inserirlo nella mia Top 30 che troverete già dal prossimo podcast.

Chiudiamo il podcast con un gruppo che non ascoltavo da qualche tempo ma che mi è tornato in mente guardando un episodio di The Bear, serie tv di cui vi sto parlando (anche troppo…) da qualche episodio a questa parte. Loro fanno parte, anzi sono un vero pilastro, della Daptone Records, etichetta che da parecchi anni a questa parte ha contribuito alla rinascita di un genere musicale emozionale come il soul grazie ad artisti come Antibalas, Menahan Street Band e i compianti Sharon Jones & The Dap-Kings e Charles Bradley. Nati a Staten Island, New York, The Budos Band da quasi vent’anni hanno messo su un impianto sonoro che mescola un flusso sonoro che mette in pista afrobeat, funk, soul, ethno jazz, musica etiope, rhythm & blues e psichedelia.
Originali, vintage, esclusivamente strumentali ma clamorosamente trascinanti, i nove componenti del gruppo già dal primo album uscito nel 2005 (grazie anche all’aiuto di Gabriel Roth (aka Bosco Mann) e Neal Sugarman co-fondatori della Daptone), hanno saputo creare un mood unico, con uno straordinario equilibrio sonoro tra la ricca sezione fiati e la ritmica. “River Serpentine” è uno dei brani più coinvolgenti e trascinanti di The Budos Band III, album uscito nel 2010 e registrato negli ormai storici studi di proprietà dell’etichetta, gli House of Soul Studios di Bushwick, Brooklyn. Un gran finale di podcast tra fanfare e chitarre funk, con un ritmo strabiliante.
Un grazie speciale va, come sempre, a Franz Andreani per la sua passione, la gestione di questa banda di pazzi e per la splendida riorganizzazione del sito già attiva da qualche anno. A cambiare non è stata solo la versione grafica del sito, ma anche la “filosofia” della podradio, con le rubriche che vanno ad integrarsi nella programmazione regolare sotto l’hashtag #everydaypodcast. Sulla nostra pagina Facebook troverete quotidianamente ogni upload del sito e, ormai da tempo, è attivo anche lo splendido canale YouTube della Radio, una nuova formula senza interruzioni ne spot per ascoltare la vostra-nostra musica preferita. Iscrivetevi numerosi, vi aspettiamo!
Nel prossimo episodio, il primo del 2024, troverete la prima parte della mia Playlist dedicata alle migliori uscite del 2023, secondo l’insindacabile giudizio della redazione di Sounds & Grooves, con le posizioni dalla #30 alla #16. Il tutto sarà, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
Intanto se volete potete sfruttare la parte riservata ai commenti qui sotto per darmi suggerimenti, criticare (perché no), o proporre nuove storie musicali. Mi farebbe estremamente piacere riuscire a coinvolgervi nella programmazione e nello sviluppo del mio sito web.
Per suggerimenti e proposte, scrivetemi senza problemi all’indirizzo e-mail stefano@stefanosantoni14.it.
Potete ascoltare o scaricare il podcast anche dal sito di Radio Rock The Original cliccando sulla barra qui sotto.
Buon Ascolto
TRACKLIST
01. X: The World’s A Mess, It’s In My Kiss da ‘Los Angeles’ (1980 – Slash)
02. MX-80 SOUND: Follow That Car da ‘Out Of The Tunnel’ (1980 – Ralph Records)
03. YARD ACT: Tall Poppies da ‘The Overload’ (2022 – ZEN F.C. – Island Records)
04. HORSE LORDS: Mess Mend da ‘Comradely Objects’ (2022 – Rvng Intl.)
05. ONE ARM: Real da ‘Mysore Pak’ (2021 – Alara)
06. DEAD RIDER TRIO: Not A Point On A Scale da ‘Dead Rider Trio Featuring Mr. Paul Williams’ (2018 – Drag City)
07. HALF HAPANESE: Shining Sun da ‘Jump Into Love’ (2023 – Fire Records)
08. STEREOLAB: Tone Burst da ‘Transient Random-Noise Bursts With Announcements’ (1993 – Duophonic Ultra High Frequency Disks)
09. RYLEY WALKER: A Lenticular Slap da ‘Course In Fable’ (2021 – Husky Pants Records)
10. KING KRULE: Dum Surfer da ‘The Ooz’ (2017 – XL Recordings)
11. 15-60-75 THE NUMBERS: And Whirl Around da ‘Endure (Outliers On Water Street)’ (2020 – 15-60-75 Self-Released)
12. THE EXCITEMENTS: I’ve Bet And I’ve Lost Again da ‘Sometimes Too Much Ain’t Enough’ (2013 – Penniman Records)
13. BLACK PUMAS: More Than A Love Song da ‘Chronicles Of A Diamond’ (2023 – ATO Records)
14. THE BUDOS BAND: River Serpentine da ‘The Budos Band III’ (2010 – Daptone Records)
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SEASON 18 EPISODE 08: “A Lenticular Slap” https://t.co/SXqEEAHytb il #podcast da leggere e da ascoltare registrato per @RadiorockTO
— SoundsAndGrooves (@SoundsGrooves) January 17, 2024