Ecco il settimo podcast di Sounds & Grooves per il 18° anno di RadioRock.TO The Original
In questa nuova avventura in musica troverete un ricordo doveroso di Shane MacGowan
Eccoci di nuovo puntuali con l’appuntamento quindicinale di Sounds & Grooves che per il 18° anno consecutivo impreziosisce (mi piace pensarlo) lo straordinario palinsesto di www.radiorock.to. 18 anni…siamo diventati maggiorenni!!!! A pensarci è incredibile che sia passato già così tanto tempo da quando abbiamo iniziato questa folle ma fantastica avventura. Come (credo) sappiate, la nostra podradio è nata per dare un segnale di continuità con quella meravigliosa radio del passato che molti custodiscono nel cuore e a cui ho provato a dare un piccolo contributo dal 1991 al 2000.
Sappiamo tutti benissimo che la Radio Rock in FM come la intendevamo noi è sparita da tanto tempo, ma in tutti questi anni di podcast sul web abbiamo cercato di tenere accesa quella fiammella per poi tentare di moltiplicarla, facendola diventare un faro di emozioni e qualità musicale. Perché la passione e la voglia di fare radio, la voglia di ascoltare e di condividere la musica di qualità, nonostante tutto, non ci è mai passata.
Questa creatura dopo quasi 4 lustri continua orgogliosamente a remare controcorrente, cercando quella libertà in musica che nell’etere è ormai diventata una mosca bianca, ed esprimendo con forza la passione per la condivisione, per la ricerca, per l’approfondimento. Non dobbiamo aderire ad una cieca linea editoriale che ormai spinge esclusivamente il pulsante play dei servizi di streaming, ma ci lasciamo guidare semplicemente dal nostro cuore e dalla nostra passione. Fulvio Savagnone, Marco Artico, Giampiero Crisanti, Franz Andreani, Flavia Cardinali, Francesco Cauli, Ivan Di Maro, Massimo Santori aka Moonchild, Maurizio Nagni ed io proviamo ogni giorno a coinvolgervi con i nostri podcast regolari e con le rubriche tematiche di approfondimento, sperando di farvi sentire sempre di più parte di questa fantastica avventura.
Questo settimo episodio stagionale inizierà con un ricordo doveroso di Shane MacGowan con una delle mia canzoni preferite dei Pogues, mentre l’epico punk-folk dei New Model Army ci farà saltare prima di inserirci nei binari deviati (e devianti) tra noise e improvvisazione dei Party Dozen. Poi troverete un trittico tra post-rock, math-rock e slowcore con alcuni pesi massimi del genere: June Of 44, Battles e Codeine. Ascolteremo l’affascinante retro-psichedelia dei Glyders, prima di un piccolo break con i troppo presto dimenticati Run On che faranno da apripista per introdurci nel cosmico universo retro-futurista di Tim Gane con i Turn On e i Cavern Of Anti-Matter. E se i Breathless ci incantano ancora dopo 10 anni di silenzio, i The God In Hackney colpiscono per inglobare diversi generi musicali, dal jazz al rock, risultando eclettici e mai banali. Dopo il cantautorato maturo di Julie Byrne, sarà l’Irlanda a chiudere il podcast così come lo aveva aperto con la voce potente e colma di ricordi di Brigid Mae Power. Il tutto, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
Seguite il nostro hashtag: #everydaypodcast
Download, listen, enjoy!!!
Prima di partire con questo viaggio in musica potete effettuare il download del podcast anche nella versione a 320 kb/s semplicemente cliccando sul banner qui sotto.
Iniziamo il podcast con il giusto tributo a Shane MacGowan che ci ha lasciato da pochissimo a 65 anni. Un’età che per un artista che ha sempre vissuto “on the edge” nessuno pensava che potesse raggiungere. Nonostante abbia raggiunto la popolarità con i The Pogues, lui è stato molto più di un semplice cantante noto per le sue vicende alcooliche. Il gruppo nasce nel 1982 a King’s Cross, nel nord di Londra con il nome di Pogue Mahone, anglicizzazione dell’irriverente espressione gaelica póg mo thóin (baciami il sedere), suonando musica folk irlandese con un approccio decisamente punk rock. Accanto a strumenti usuali quindi del primo genere, come flauto, banjo, mandolino, fiddle e fisarmonica appaiono quindi percussioni e strumenti a corda più innovativi, che sfociano in canzoni da ritmi molto veloci, tradizionali e brani originali.
I fondatori sono quindi Shane MacGowan (voce e chitarra folk), Jeremy “Jem” Finer (banjo), Spider Stacy (flauto), si aggiungeranno successivamente James Fearnley (fisarmonica), Andrew Ranken (percussioni), Cait O’Riordan (basso). Per far capire il personaggio, quando nel novembre 1991 venne buttato fuori dal gruppo a causa dei problemi di alcol e dei continui ritardi alle prove e ai concerti, MacGowan esclamò: “Come mai ci avete messo così tanto?”. Non era facile trovare una sola canzone che potesse rappresentare un artista e poeta così straordinario, alla fine la scelta è caduta sulla prima canzone del gruppo irlandese che ho “suonato” nella mia carriera radiofonica, la splendida “Thousands Are Sailing” tratta dal terzo lavoro in studio If I Should Fall From Grace With God. Ci mancheranno le sue storie cantate con la sua voce roca, sguaiata e inconfondibile. Ciao Shane!
Ci spostiamo dall’Irlanda all’Inghilterra, anche se i Pogues si sono formati a Londra, per andare a trovare un gruppo che si è formato a Bradford, nel West Yorkshire, nell’autunno del 1980, prendendo il nome dall’esercito permanente formato nel 1645 dai parlamentari durante la prima guerra civile inglese: New Model Army. la band è stata fondata dal cantante, chitarrista e principale autore Justin Sullivan, il bassista Stuart Morrow e il batterista Phil Tompkins, anche se Sullivan è tuttora l’unico membro fondatore rimasto visti i numerosi cambi di formazione in oltre 40 anni di attività. L’amore per il punk rock, il folk e l’impegno politico ha reso il gruppo estremamente popolare per l’energia e la passione trasmesse dai musicisti soprattutto sul palco.
Dopo il successo dell’esordio intitolato Vengeance, il gruppo viene messo sotto contratto da una major come la EMI, capace di dare più visibilità discografica a Sullivan e compagni. Thunder And Consolation è il quarto album in studio del gruppo e terzo per la EMI, pubblicato il 15 marzo 1989. L’album ha rappresentato una pietra miliare nel catalogo dei New Model Army, visto che probabilmente è stato il loro album di maggior successo, capace di raggiungere la posizione n. 20 nella UK Albums Chart. L’album ha anche permesso alla band di aprirsi nuovi orizzonti musicali, visto l’ingresso in pianta stabile nel quartetto del violinista Ed Alleyne-Johnson a dare un’impronta folk. “Vagabonds” è un inno straordinario, soprattutto nella versione live. Il disco è stato anche l’ultimo album per il bassista Jason “Moose” Harris, sostituito da Nelson nel successivo album in studio della band, Impurity (1990).
Ci stiamo avvicinando alla fine dell’anno, il che vuol dire che le temutissime classifiche stanno per arrivare. Lo scorso anno ero rimasto molto sorpreso dall’assoluta mancanza di italico inchiostro virtuale versato per uno dei gruppi che più mi aveva colpito: gli australiani Party Dozen. Ammetto spudoratamente che anche io ero arrivato a scoprire in netto ritardo il duo formato a Sidney dalla sassofonista Kirsty Tickle e dal batterista Jonathan Boulet, visto che l’album The Real Work è il terzo della loro discografia. Un progetto nato dall’amore per l’improvvisazione, una passione che farebbe fatica a reggersi in piedi se non ci fossero della basi ben solide a sostenerla. E a sostenere i Party Dozen e a dargli un pochino di quella popolarità che meritano, ci aveva pensato Nick Cave, con il suo contributo vocale a “Macca The Mutt”, uno dei brani più trascinanti dell’ultimo album in studio. Il drumming potente di Boulet, il soffio vigoroso e le urla nel sassofono di Tickle insieme ad un uso intelligente dell’elettronica, formano un quadro intrigante e compiuto, con atmosfere variabili dal noise alla psichedelia.
Un suono che riesce, come per magia, a fermarsi un attimo prima di diventare inaccessibile. The Real Work è una foschia allucinatoria tra spasmi di improvvisazione, echi di Stooges, doom, noise, jazz. Un treno che più volte rischia di deragliare e che per pura magia rimane sempre ben saldo sui binari, condotto con maestria da due musicisti capaci di sperimentare tracciando una strada adrenalinica di notevole impatto che, speriamo, non rimarrà limitata ad una fama sotterranea. La “Major Beef” inserita in scaletta è solamente uno degli episodi intriganti di un disco che, lo ammetto spudoratamente, è riuscito davvero ad entusiasmarmi, tanto da scriverne la recensione del disco su OndaRock e da assegnargli la posizione #6 nella mia personale classifica.
I June Of 44 sono una band formata nel 1994 dall’unione di Jeff Mueller (membro fondatore degli Shipping News) alla chitarra e voce, Doug Scharin alla batteria (ex Codeine), Fred Erskine al basso e tromba (dagli Hoover) e Sean Meadows (dai Lungfish) alla chitarra. Hanno esordito con un album (Engine Takes To The Water) che ereditava dai Rodan l’amore per il rock disarticolato e sperimentale, mentre prendeva dagli Hoover gli spunti hardcore e i rigurgiti di improvvisazione. Il successivo Tropics And Meridians dimostra ancora l’abilità dei quattro nel costruire trame strumentali imprevedibili e cariche di tensione. La loro caratteristica principale sta nel saper cambiare ritmo, espandendo e d’un tratto comprimendo il loro suono.
L’EP The Anatomy Of Sharks, uscito a breve distanza da Tropics And Meridians, contiene tre pezzi registrati nelle stesse sedute di quell’album, e sono tra i migliori in assoluto della loro produzione. I brani mostrano il meglio della band, gli spunti vocali densi di teatralità di Jeff Mueller, le continue stasi e accelerazioni, sperimentalismi dissonanti, dilatazioni sospensive, cambi di ritmo e una persistente tensione drammatica. Il successivo Four Great Points sembra addirittura superiore ai precedenti. Introdotto dalla straordinaria “Of Information & Belief”, i quattro sfoggiano tutto il loro arsenale sonoro, trascinando l’ascoltatore, con la varierà delle soluzioni sonore, in un mondo sinuoso, sospeso e rarefatto. Il quartetto produrrà poi solo un disco non all’altezza dei precedenti (Anahata) prima di sciogliersi.
Abbiamo parlato più di una volta su queste pagine della perfezione math rock dei Don Caballero. La svolta per la formazione statunitense c’è stata con l’ingresso in pianta stabile del chitarrista Ian Williams, poi pronto ad evidenziare anche le sue ambizioni sperimentali nei due dischi registrati con il tentacolare batterista Kevin Shea sotto il nome di Storm & Stress. Nel 2002 il chitarrista decide di creare una nuova formazione con cui mettere nero su bianco le sue composizioni. A Williams si unisce prima l’altro chitarrista/tastierista Tyondai Braxton (figlio dello straordinario Anthony), poi un batterista potente e preciso come John Stanier (Helmet, Tomahawk).
Il gruppo prende il nome di Battles ed entra in studio con il bassista Dave Konopka e nel maggio del 2007 ecco arrivare Mirrored negli scaffali dei negozi, preceduto da un paio di EP esclusivamente strumentali. Il disco presenta coordinate leggermente diverse dagli EP, con brani cantati ed un suono generale che mostra una maggiore coesione tra i quattro musicisti. Grande abilità strumentale, quasi matematica come nei gruppi precedenti di Williams, ma anche una maggiore attitudine “ballabile”, se vogliamo chiamarla così, estremamente vitale senza un ipertecnicismo serio e fine a stesso. “Tonto” è solo un esempio della vitalità di un album che, 17 anni fa entrò in moltissime classifiche di fine anno.
Siamo all’alba degli anni ’90, quando tre musicisti John Engle (chitarra), Stephen Immerwhar (Basso e voce), e Chris Brokaw (batteria) ribaltano completamente l’estetica sonora del momento, andando a rallentare fino allo sfinimento i ritmi quando la tendenza, che poi porterà alla nascita del grunge, era di accentuarli rifacendosi all’estetica punk. Dalla musica dei Codeine si è coniato il termine slowcore, per indicare questo modo lento, dilatato ed esaperato di concepire la musica. Due album ed un EP di gran fascino prima di chiudere i battenti e lasciare la propria eredità ai posteri. La splendida etichetta Numero Group ha nel 2013 fortunatamente ristampato i tre album in studio della band.
A corollario delle ristampe, la label di Chicago ha aggiunto al catalogo un prezioso documento live chiamato What About The Lonely? che vede Engle e Immerwhar affiancati dal nuovo batterista Doug Scharin (che poi sarà un membro dei June of 44 di cui abbiamo parlato poco fa) esibirsi sul palco del Lounge Ax di Chicago il 15 novembre del 1993, accompagnati in un paio di brani proprio da David Grubbs. Malinconia, incomunicabilità, espresse da una lentezza celebrale ed emotiva, come in questa “Loss Leader” tratta dal loro ultimo album in studio The White Birch.
Loro sono un altro gruppo molto interessante che ha esordito nel 2023 con un disco che probabilmente non entrerà nella Top 30 ma che ha accarezzato molto piacevolmente i miei padiglioni auricolari. In realtà i i sodali sul palco e nella vita Joshua Condon (chitarra e voce) e Eliza Weber (basso), hanno formato i Glyders a Chicago nel 2014, arrivando solo quest’anno al primo lavoro vero e proprio dopo una cassetta e un paio di singoli pubblicati tra il 2014 e il 2016. Reclutato il batterista Joe Seger, il trio ha messo in moto una vera e propria macchina del tempo atterrando in piena era psichedelica e risultando incredibilmente convincenti.
Il loro esordio si intitola Maria’s Hunt, ed è stato pubblicato dalla Country Thyme, sussidiaria della Drag City. 10 tracce per una durata che supera di poco la mezz’ora, ma è un disco a suo modo assolutamente perfetto, pur nella sua retromania. Immersi negli enigmi pop e psichedelici del rock and roll di un tempo e nel ronzio delle valvole,, i Glyders hanno registrato il disco totalmente immersi nei suoni analogici. Tra country, psichedelia purissima, power pop, i brani, orecchiabili e talvolta malinconici pur restando sempre nella luce, si susseguono tra pedal steel e flauti traversi, centrando sempre l’obiettivo come nella “High Time” inserita in scaletta. Un gruppo da seguire con grande interesse.
Ho appena tolto una discreta patina di polvere da un disco che anni fa girava abbastanza frequentemente sul mio lettore CD. Start Packing è stato l’esordio sulla lunga distanza di una band chiamata Run On, che nel 1996 metteva in pratica una mirabolante combinazione di improvvisazione e di affascinanti aperture pop, un suono tanto eclettico quanto stranamente accessibile. La band era formata dai coniugi Rick Brown e Sue Garner insieme ad Alan Licht e David Newgarden. Il gruppo era molto intrigante come dimostra questa splendida “Baap”, ma un anno più tardi, dopo un paio di EP, effettuò una brusca frenata.
Licht ha continuato ad essere estremamente attivo come artista in bilico tra minimalismo e sperimentazione, mentre Brown e la Garner hanno saltuariamente collaborato con i Tortoise ed altre band post-rock prima di riapparire insieme nel 1999 con un album intitolato Still, dopodiché decisero di far perdere le loro tracce. Fortunatamente da qualche anno Rick Brown è tornato a far risplendere il suo talento grazie alla sinergia con il chitarrista Che Chen nei 75 Dollar Bill.
Rimaniamo negli anni ’90 parlando di un personaggio straordinario. Nel 1988 Tim Gane è uno dei membri dei McCarthy, gruppo che, dopo un inizio a spron battuto, era sul punto di implodere. Durante un concerto dei McCarthy a Parigi, galeotto fu l’incontro con la cantante Lætitia Sadier, che, prima collabora con la band nel loro ultimo lavoro in studio, poi diventa partner in crime (e successivamente anche nella vita privata) di Tim Gane in una nuova formazione chiamata Stereolab: una delle band più importanti ed ispirate degli anni novanta. Sean O’Hagan negli anni ’80 aveva fatto parte dei Microdisney, salvo poi all’inizio dei ’90 prendere parte proprio al progetto Stereolab, a volte come membro effettivo, più spesso come semplice collaboratore. O’Hagan creerà poi la sua creatura, High Llamas, che tornerà alla pubblicazione di un nuovo lavoro a marzo 2024.
Nel 1997 i due, insieme ad Andy Ramsay, altro membro degli Stereolab, cercano di deviare un’attenzione sempre crescente versoil gruppo madre, convogliando le energie in un progetto tanto estemporaneo quanto convincente chiamato Turn On. le atmosfere sono molto simili a quelle degli Stereolab, con proprio la Sadier ad intervenire nell’unico brano cantato. Ritmi kraut, fascino retro e un’aria lisergica che appare qua e la nell’unico album omonimo licenziato dal trio, Anche i titoli dei brani fanno riferimento alla loro band di riferimento dell’epoca, come dimostra la “Electrocation Of Fire Ants” inserita nel podcast. Se siete fan dello straordinario gruppo britannico provate a riscoprire quest’album.
Come abbiamo appena detto, la visione sonora dell’ex Stereolab Tim Gane, da sempre oscilla tra psichedelia e kraut. Per consolidare il suo credo musicale, Gane ha creato un nuovo progetto chiamato Cavern Of Anti-Matter con cui proseguire le sue intuizioni e la sua sensibilità compositiva. Con il secondo album del gruppo, “Void Beats/Invocation Trex”, la visione concettuale del musicista britannico e dei suoi due sodali, il batterista Joe Dilworth (presente nella primissima formazione degli stessi Stereolab), e il mago dei sintetizzatori Holger Zapf, prende compiutamente vita. Il DNA degli Stereolab viene rivestito di puro motorik, i primi tentativi di elettronica primordiale vengono celebrati dalla presenza di molti degli strumenti analogici che andavano per la maggiore negli anni ’70.
L’arte plastica di Gane, Zapf e Dilworth riesce infatti, a modellare un ideale universo retro-futurista, aperto a correnti cosmiche, derive kraut, incursioni psichedeliche e smaglianti aperture pop, con l’elettronica e gli strumenti analogici a fare da propulsore per una sperimentazione che mai come ora, appare profondamente vitale. Ma nel disco non c’è solo sperimentazione, perché all’improvviso arriva come una rivelazione un brano intitolato “Liquid Gate”, due minuti due che vorremmo prolungare all’infinito, 120 secondi di puro godimento pop dove il trio si fa condurre dalla voce di Bradford Cox dei Deerhunter. Ascoltate per credere.
Durante lo scorso anno, così scuro e confuso (non che il 2023 sia stato da meno, anzi…), un lampo di vera luce a rischiarare la via è stato senza dubbio il grande (e per certi versi inaspettato) ritorno dei Breathless di Dominic Appleton, Ari Neufeld e Gary Mundy dopo ben 10 anni di silenzio. Certo erano in pochi ad aspettarsi il ritorno della band inglese, soprattutto dopo il grave incidente occorso al batterista Tristram Latimer Sayer. Ma i tre “superstiti” non si sono persi d’animo, lavorando con una batteria elettronica che non ha minimamente scalfito le potenzialità emozionali ed immaginifiche del gruppo, quella capacità di essere un faro nella nebbia, un suono delicato ma non certo timido.
Senza troppi giri di parole, See Those Colours Fly è un disco assolutamente magnifico. Il quartetto ridotto forzatamente a trio ha assorbito un evento così traumatico traendone in qualche modo nuova linfa, conducendoci con la consueta maestria su sentieri emotivi fuori dal tempo. Nove nuove tracce malinconiche in questo maestoso crocevia tra post-punk, psichedelia, dream-pop e shoegaze. Un flusso sonoro struggente ed evocativo che rischiara l’oscurità di questi tempi inquieti con brani meravigliosi come la “We Should Go Driving” inserita in scaletta. See Those Colours Fly ha occupato con merito il #4 della mia classifica del 2022.
“Questo è il nostro terzo album. È un disco che risponde alle ansie del momento: ecologia, isolamento, estinzione, tecnologia, l’appiattimento della storia, la morsa sclerotica di una cultura impantanata in citazioni, riferimenti e immaginazione svuotata.” Così i The God In Hackney hanno provato a raccontare in breve The World In Air Quotes, disco purtroppo quasi ignorato dalle nostre parti (nonostante abbiano fan dal nome importante come Mike Watt o Thurston Moore) ma che ho trovato sorprendentemente interessante e coinvolgente. Il gruppo è composto dal nucleo centrale: Andy Cooke, Dan Fox, Ashley Marlowe e Nathaniel Mellors, ampliando poi la propria formazione includendo i polistrumentisti e compositori americani Eve Essex (Eve Essex & The Fabulous Truth, Das Audit, Peter Gordon & Love of Life Orchestra, Peter Zummo, Liturgy) e Kelly Pratt (Father John Misty, David Byrne/St Vincent, Beirut e Lonnie Holley tra i tanti).
Dan Fox, Nathaniel Mellors e Andy Cooke si sono conosciuti alla scuola d’arte di Oxford, a metà degli anni Novanta, senza però all’epoca fare musica insieme, ma il gruppo esiste da ben 25 anni, anche se era nato come progetto parallelo dei Socrates That Practices Music, fondati da Cooke nel 1998 a Londra. Dunque The God In Hackney è un progetto ad ampio respiro, che pur partendo da basi art rock che ricordano a tratti alcuni gruppi progressive del passato, ingloba diversi generi musicali, dal jazz al rock, risultando eclettici e mai banali, e riuscendo a non sfociare mai nell’onanismo strumentale, anzi, intrigando con gli intrecci di voci, fiati, ritmi come nella splendida “In The Face Of A New Science” che apre l’album. Dice Dan Fox: “Lavorare con Eve e Kelly ha ampliato il nostro senso di ciò che è musicalmente possibile con The God in Hackney. Un’abilità che abbiamo acquisito alla scuola d’arte è stata quella di rimanere aperti a qualcosa di inaspettato durante il processo di scrittura, piuttosto che cercare di controllarne ogni aspetto. Fare arte è più eccitante quando non si sa con precisione cosa succederà”. Ed è proprio l’inaspettato ad essere senza dubbio uno dei segreti di questo album intrigante.
In un mondo musicale che sembra girare ad una velocità vorticosa, la cantautrice di Buffalo (New York) Julie Byrne si è presa un lungo tempo per comporre e registrare il suo terzo lavoro. Se il precedente Not Even Happiness nel 2017 era piaciuto a molti, sono sicuro che lo stesso succederà con questo The Greater Wings che appare anche più saldo e maturo del già ottimo predecessore. Il suo folk psichedelico e orchestrale aggiunge un tocco atmosferico di synth al suo riconoscibile fingerpicking, per rendere ancora più maturo un lavoro che colpisce per la profondità degli arrangiamenti e le splendenti aperture melodiche.
La scomparsa del suo fedele produttore e collaboratore di sempre Eric Littmann a soli 31 anni, ha contribuito a dilatare i tempi di uscita del disco, anche se l’unica canzone composta dopo la prematura scomparsa del compagno è la conclusiva e struggente “Death Is The Diamond”. Una malinconia di fondo che avvolge come una rinfrescante brezza marina, ma capace di trasformarsi in luce di accecante bellezza come nella splendida “The Greater Wings” che potete ascoltare nel podcast. Con questo album la Byrne ci offre la sua versione più convincente e coinvolgente, mostrando un cantautorato maturo e personale.
Chiudiamo il podcast con un artista che da dieci anni è capace di farci visualizzare i paesaggi meravigliosi della sua isola. Nel corso del 2023 Brigid Mae Power, cantautrice irlandese nata a Galway, ha pubblicato il suo quarto album in studio (secondo inciso per la Fire Records) intitolato Dream From The Deep Well. Il nuovo album è quello forse più riuscito di un’interprete ormai matura, che omaggia il passato della sua terra mettendo due traditional in apertura e chiusura di programma. Ma l’amore dell’artista non è solo per le tradizioni irlandesi, ma anche per le sue influenze manifeste, come Tim Buckley di cui riprende la meravigliosa “I Must Have Been Blind”, resa ancora più struggente da un’interpretazione di grande espressività e potenza.
Il disco si compone di 11 tracce dove, e non potrebbe essere altrimenti, è il folk a farla da padrone, ma la tradizione è rivisitata in maniera vitale ed espressiva, espressa con un pathos personale e suggestivo. Il gran finale di disco è di podcast si intitola “Down By The Glenside”, una delle canzoni più note e potenti della tradizione irlandese, portata al successo dai The Dubliners, qui riproposta mettendo l’accento sui ricordi e le tradizioni familiari, ed esprimendo al meglio la sua sensibilità politica e sociale.
Un grazie speciale va, come sempre, a Franz Andreani per la sua passione, la gestione di questa banda di pazzi e per la splendida riorganizzazione del sito già attiva da qualche anno. A cambiare non è stata solo la versione grafica del sito, ma anche la “filosofia” della podradio, con le rubriche che vanno ad integrarsi nella programmazione regolare sotto l’hashtag #everydaypodcast. Sulla nostra pagina Facebook troverete quotidianamente ogni upload del sito e, ormai da tempo, è attivo anche lo splendido canale YouTube della Radio, una nuova formula senza interruzioni ne spot per ascoltare la vostra-nostra musica preferita. Iscrivetevi numerosi, vi aspettiamo!
Nel prossimo episodio faremo un tuffo nel passato con formazioni storiche del punk-post punk americano come X e MX-80 Sound e troveremo alcuni dischi usciti quest’anno che non hanno raggiunto la Top 30 ma che sono meritevoli di citazione come Black Pumas e King Krule oltre a molte altre cose bellissime.. Il tutto sarà, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
Intanto se volete potete sfruttare la parte riservata ai commenti qui sotto per darmi suggerimenti, criticare (perché no), o proporre nuove storie musicali. Mi farebbe estremamente piacere riuscire a coinvolgervi nella programmazione e nello sviluppo del mio sito web.
Per suggerimenti e proposte, scrivetemi senza problemi all’indirizzo e-mail stefano@stefanosantoni14.it.
Potete ascoltare o scaricare il podcast anche dal sito di Radio Rock The Original cliccando sulla barra qui sotto.
Buon Ascolto
TRACKLIST
01. THE POGUES: Thousands Are Sailing da ‘If I Should Fall From Grace With God’ (1988 – Pogue Mahone Records)
02. NEW MODEL ARMY: Vagabonds da ‘Thunder And Consolation’ (1989 – EMI)
03. PARTY DOZEN: Major Beef da ‘The Real Work’ (2022 – Temporary Residence Limited – Grupo)
04. JUNE OF 44: Of Information & Belief da ‘Four Great Points’ (1998 – Quarterstick Records)
05. BATTLES: Tonto da ‘Mirrored’ (2007 – Warp Records)
06. CODEINE: Loss Leader (Live in Chicago 1993) da ‘What About The Lonely?’ (2013 – Numero Group)
07. GLYDERS: High Time da ‘Maria’s Hunt’ (2023 – Country Thyme)
08. RUN ON: Baap da ‘Start Packing’ (1996 – Matador)
09. TURN ON: Electrocation Of Fire Ants da ‘Turn On’ (1997 – Duophonic Super 45s)
10. CAVERN OF ANTI-MATTER: Liquid Gate (Feat. Bradford Cox) da ‘Void Beats / Invocation Trex’ (2016 – Duophonic Ultra High Frequency Disks)
11. BREATHLESS: We Should Go Driving da ‘See Those Colours Fly’ (2022 – Tenor Vossa Records)
12. THE GOD IN HACKNEY: In The Face Of A New Science da ‘The World In Air Quotes’ (2023 – Junior Aspirin Records)
13. JULIE BYRNE: The Greater Wings da ‘The Greater Wings’ (2023 – Ghostly International)
14. BRIGID MAE POWER: Down By The Glenside da ‘Dream From The Deep Well’ (2023 – Fire Records)
SPOTIFY PLAYLIST
FACEBOOK POST
TWITTER POST
https://t.co/mhp0KpML6S - The Original #everydaypodcast https://t.co/t289KfS4rV The Original di https://t.co/hXA7LBtuj7 #everydaypodcast via @RadiorockTO
— SoundsAndGrooves (@SoundsGrooves) January 12, 2024