Le avventure in musica di Sounds & Grooves continuano con l’11 Episodio della 12 Stagione di RadioRock.to The Original
Andiamo ad esplorare la Top 14 della mia personalissima Classifica del 2017
Speriamo che siano state di vostro gradimento tutte le novità messe in campo dalla 12° stagione di radiorock.to: dall’atteso restyling del sito, al nuovo hashtag #everydaypodcast che ci caratterizza, per finire (last but not least) alla qualità della musica e del parlato che speriamo sempre sia all’altezza della situazione e soprattutto delle vostre aspettative. La Radio Rock in FM come la intendiamo noi è sparita da due decenni, ma in questi 12 anni stiamo tenendo accesa una fiammella, cercando di raddoppiarla, moltiplicarla, farla diventare un faro di emozioni e qualità musicale con tutta la passione e la voglia di fare radio che nonostante tutto non ci è mai passata.
Il momento della tanto temuta Classifica del 2017 di Sounds & Grooves è finalmente arrivato. In questi due podcast (questo ed il prossimo) ho voluto semplicemente buttare giù, come appuntandoli su un taccuino, i 28 migliori album del 2017, quelli che ho ascoltato di più e che sono riusciti maggiormente a coinvolgermi tra quelli usciti in questi ultimi 12 mesi, e condividere con voi la mia interpretazione, il mio modo di sentire. Nonostante ci siano un milione di classifiche sparse nel web, sia quelle compilate dalla varie (più o meno trendy) music webzines e magazines, che quelle postate sui vari profili personali dei social networks, credo che da ognuna di queste ci sia sempre da qualcosa da imparare, uno o più nomi da annotarsi per approfondire con curiosità.
Nello scorso episodio avevamo analizzato la parte bassa della Classifica del 2017, dalla 28° alla 15° posizione. In quei quattordici brani avevamo trovato certezze e conferme in ambito rock come Pontiak, Algiers, Dead Rider o Pissed Jeans. Trovando spazio anche per ritorni di gran classe come quelli di Randy Newman, Ryuichi Sakamoto o Pere Ubu. Siamo stati sballottati dal math rock degli Yowie alla psichedelia degli In Zaire, dal songwriting di Micah P.Hinson, Jim White ed Entrance all’afro jazz di Nicole Mitchell, passando anche per l’intrigante footwork di Jlin.
Adesso è arrivato il momento della stretta finale. Nello svelare le prime 14 posizioni della Classifica del 2017 è venuto fuori un podcast gigante di 1h 48′ (!!!) dove potete trovare i miei dischi preferiti usciti lo scorso anno che abbracciano molti stili diversi. Dal mutaforma Man Forever (John Colpitts degli Oneida) accompagnato da Laurie Anderson alla psichedelia texana dei Black Angels. Dal fascino mitteleuropeo degli Audiac al bizzarro bardo inglese Richard Dawson. E ancora il post punk dei Protomartyr, la magia della voce di Melanie de Biasio, il grande ritorno di Arto Lindsay e dei Dream Syndicate. L’energia rabbiosa degli Idles, l’intima aggressività di Andrya Ambro aka Gold Dime, il talento cristallino di King Krule e l’abilità pop dei The Magnetic Fields di Stephin Merritt. Dallo straordinario melting pot culturale e musicale degli Heliocentrics di Malcom Catto fino ai miei #1: un gruppo che incarna come nessuno la vera essenza del punk, gli Sleaford Mods. Molti di questi album ho avuto il piacere e l’onore di poterli recensire per OndaRock e per Oca Nera Rock. Ma bando alle ciance, armiamoci di cuffie o altoparlanti ed iniziamo…
Download, listen, enjoy!!!
Prima di partire con questo viaggio in musica potete effettuare il download del podcast anche nella versione a 320 kb/s semplicemente cliccando sul banner qui sotto.
Quattordici anni fa un album intitolato Thank You For Not Discussing The Outside World faceva capolino nei negozi di dischi intrigando per il suo modo di intendere la melodia scura ed affascinante tra post rock, pop cameristico e suggestioni elettroniche. Autore dell’album era un quartetto tedesco che si chiamava Audiac, che troviamo al #14. Credevo onestamente che il progetto si fosse disperso nel nulla, ma due superstiti della sigla sono tornati con un nuovo album intitolato So Waltz, condotti in sala d’incisione da Hans-Joachim Irmler dei Faust. Alex Wiemer Van Veem e Niklas David non hanno perso un grammo della loro forza espressiva, e il loro album di ritorno è uno dei più interessanti usciti nel 2017, tra teatralità mitteleuropea, suoni analogici, scrittura raffinata, pop da camera e grande raffinatezza. Un disco meraviglioso e fuori dal tempo, come dimostra la splendida title track, in perfetto equilibrio tra sogno ed incubo.
Saliamo di una posizione e cambiamo completamente atmosfera per trovare il #13. La tradizione psichedelica di Austin, Texas risale alla metà degli anni ’60 e alla formazione che prima di tutte ha inserito il flusso lisergico nel proprio DNA: i 13th Floor Elevators. Ma questa attitudine è stata tramandata fino giorni nostri ed espressa nel modo migliore possibile dai The Black Angels. La band con il nuovo Death Song sprigiona una forza dirompente, padroneggiando la materia psych-rock con grande maestria. Un passo notevole avanti rispetto all’ultimo Indigo Meadow, rispetto al quale suona più cupo e maturo sia nei brani più tirati che in quelli più lenti, fino ad avvolgerci nel catartico abbraccio di “Currency”.
È sempre un viaggio emozionante quello del collettivo britannico guidato dal batterista Malcom Catto. I The Heliocentrics continuano nel loro percorso evolutivo, un flusso estatico, ipnotico, che li ha portati ad unire in uno straordinario melting pot jazz, prichedelia, funk, afro, dub e musica etnica. Nel nuovo A World Of Masks (che troviamo al #12), gli innesti del violino di Raven Bush, di una nuova sezione addizionale di fiati ma soprattutto della voce della cantante d’origine slovacca Barbora Patkova hanno dato un’ulteriore spinta al suono del gruppo. Soprattutto la voce della Patkova è una nuova base su cui costruire le alchimie sonore del gruppo, sempre più multiformi, in un groove trascendente che abbraccia tutte le possibili latitudini, come dimostra l’apertura di “Made Of The Sun”.
Che personaggio Stephin Merritt!! Fondatore e leader dei The Magnetic Fields, fine conoscitore di pop e dell’animo umano. Merritt ha fatto uscire nel corso del 2017 l’ennesimo progetto ambizioso della sua carriera. Per celebrare degnamente i suoi 50 anni ha pubblicato il monumentale 50 Song Memoir, dedicando una canzone ad ogni anno della sua vita. Un album che si posiziona meritatamente al #11. Cinque dischi, ricche pagine di diario da sfogliare per rivivere insieme la vita di uno degli autori pop più talentuosi della nostra epoca. Un’intera autobiografia scritta con passione e con la forza appassionata dei ricordi, tra delusioni, euforie, scoperte, preoccupazioni, problemi. Uno sguardo disincantato e maturo, un disco da sfogliare ogni giorno con estremo piacere. Difficilissimo scegliere un solo brano dei 50 che compongono questo lavoro, alla fine la scelta è caduta sul brano in cui Merritt racconta il suo l’ottavo anno, la bellissima “’73 It Could Have Been Paradise”. La mia seconda scelta è stata “’01 Have You Seen It in the Snow” che potete ascoltare qui sotto.
Con il quarto lavoro in studio (il primo per la Domino), pur mantenendo inalterati i riferimenti storici (The Fall, Birthday Party), i Protomartyr da Detroit sembrano voler attenuare l’impeto violento dei primi lavori per andare di pari passo con le liriche del proprio frontman che raccontano con crescente malinconia e preoccupazione della situazione sociale in generale e degli Stati Uniti in particolare. Joe Casey e compagni ci consegnano direttamente al #10 il loro album migliore. Relatives In Descent è un disco tanto impegnato intellettualmente quanto viscerale nel suo schietto espressionismo.
Difficile scegliere un brano che si eleva al di sopra media, impossibile non lasciarsi coinvolgere dalla voce baritonale di un leader che è capace di creare scenari straordinari sia nell’incedere recitativo che nei refrain ossessivi. (Leggi la recensione) alla fine la scelta è caduta sul racconto recitato con vigore e maestria della splendida “A Private Understanding” che apre il disco come meglio non si potrebbe. Un ottovolante emozionale tra salite acustiche e ripide discese elettriche ispirato parzialmente da “L’anatomia della malinconia” del saggista inglese Robert Burton che già nel 1600 lottava con la tristezza che permeava l’esistenza e le ingiustizie del mondo, esprimendole non di rado con pungente sarcasmo.
In un clima bucolico e pastorale, da qualche parte tra il medioevo e oggi, se ne sta Richard Dawson con la sua chitarra a raccontare le sue storie strampalate che parlano di famiglie di contadini che affrontano i problemi quotidiani intrecciando legami che spesso, inevitabilmente, si spezzano. Il Richard Dawson che affronta il suo sesto capitolo solista chiamato Peasant, disco che si posiziona al #9 (leggi la recensione), appartiene ad una categoria molto particolare e quasi in via di estinzione, quella dei songwriters un po’ stralunati, poco convenzionali. Non è mai facile ascoltare il bardo di Newcastle, e se talvolta il percorso sembra perdere ogni filo logico, c’è sempre un coro, un arpeggio, un verso permeato di humour britannico, a tenere tutto saldamente in pugno. A proposito di coro, ascoltate quello da commensali ubriachi in “Ogre”, davvero strepitoso. Dawson ci consegna un album appagante, trascinante ed incredibilmente “nuovo” pur nella sua (apparente) classicità. Ascoltare per credere.
Notevolissimo il processo di crescita di Archy Marshall aka King Krule. Il giovanissimo prodotto della working class britannica già aveva colpito moltissimo pubblico e addetti ai lavori nel 2013 con lo splendido 6 Feet Beneath the Moon, ma riesce a fare ancora meglio con questo The Ooz (#8). Marshall agisce come un mutaforma schizoide tra cantautorato classico, modernità, post-punk, swing e jazz con una maturità compositiva clamorosa per i suoi ventitre anni. Un interprete multiforme, un talento che fortunatamente non sembra essersi perso per strada e che (spero) ci regalerà ancora moltissime cose negli anni a seguire. Il tempo e il talento sono dalla sua parte. “Dum Surfer” non è solo una delle tracce più belle del disco ma una delle canzoni più belle dell’anno.
Gli Idles nascono a Bristol nel 2010 con una spiccata attitudine punk e uno sguardo a 360 gradi verso l’evolversi della situazione sociale e politica in Gran Bretagna. Il cantante Joseph Talbot, i chitarristi Mark Bowen e Lee Kiernan, il bassista Adam Devonshire e il batterista Jon Beavis, hanno assorbito mano mano rabbia ed urgenza facendola poi defluire lentamente, scandendo le uscite e preparandole con grande meticolosità. Dopo tre EP, il devastante esordio sulla lunga distanza fra post-punk e post-hardcore della formazione di Bristol si è materializzato nel 2017 e si intitola Brutalism (leggi la recensione). Il disco, che si posiziona al #7, è stato registrato dopo la morte della madre di Talbot, citata da par suo nella fragorosa “Mother”, brano in cui stavolta il bersaglio dichiarato è il partito Conservatore britannico: “My mother worked 15 hours 5 days a week. My mother worked 16 hours 6 days a week. My mother worked 17 hours 7 days a week. The best way to scare a Tory is to read and get rich”.
Come a dire che l’unico modo possibile per spaventare un Conservatore è diventare ricco in modo da essere visto come un possibile avversario. La sezione ritmica è un rullo compressore, le chitarre sono adrenaliniche nel loro liberatorio lasciarsi andare. Il tagliente realismo delle tematiche sociali viene raccontato con pathos e refrain travolgenti. Joseph Talbot e compagni sanno perfettamente come raggiungere e coinvolgere emotivamente gli ascoltatori, riuscendo a scuotere tutti dall’apatia con il loro messaggio tanto sgradevole e brutale quanto reale. Carne e sangue, naked truth, francamente non riesco a chiedere di meglio.
Andrya Ambro torna dopo l’esperienza Talk Normal con un nuovo progetto chiamato Gold Dime. La batterista-cantante con il suo nuovo progetto ha deciso di portare avanti quanto prodotto con Talk Normal. Qui però riesce a ridurre l’aggressività della proposta aumentandone l’approccio scuro ed industriale. Il disco si intitola Nerves (leggi la recensione), e si posiziona al #6. Come fa intuire il titolo, sono proprio le terminazioni nervose a fare da scheletro ad otto tracce intime ed aggressive che si muovono in maniera oscura. Il drumming sembra essere sempre sul punto di esplodere, mentre intrusioni elettroniche e scudisciate chitarristiche sanno come far male viaggiando perennemente sospese sul filo del rasoio. A dispetto dei suoi oltre otto minuti di durata, è al singolo (!) “Easy” che viene assegnato il ruolo di portabandiera del disco. Il suono sembra apparentemente accessibile, ma in profondità si rivela assai minaccioso. Il suo ossessivo ritmo di basso, i vocalizzi art rock della leader e le rasoiate di chitarra, ne minano la struttura dalle fondamenta.
Chitarrista, sperimentatore, nato a Richmond, Virginia ma cresciuto in Brasile al seguito dei genitori, missionari presbiteriani, Arto Lindsay è sempre stato un artista dallo stile unico, in perfetto equilibrio tra le sue due diverse anime. Con Cuidado Madame (leggi la recensione) il suo primo album solista da 13 anni a questa parte, si dimostra ancora una volta capace di attraversare sia i pericoli della foresta amazzonica che i dedali della tentacolare New York City con elegante sicurezza. Una sicurezza ed un’abilità di scrittura che fa posizionare questo album al #5 della mia personalissima classifica. Arto vive a Rio, ha una passionaccia per la musica black e hip-hop più che per l’attualità strettamente rock. Queste influenze mischiate alla sua sensibilità da tropicalismo brasiliano sono apertamente riconoscibili già dall’apertura di “Grain By Grain”.
John Colpitts abbandona momentaneamente il moniker di Kid Millions con cui pesta forte i tamburi degli avant-rockers Oneida tornando a vestire per la quarta volta i panni di Man Forever. Play What They Want (leggi la recensione) è uno straordinario mutaforma dalle sfumature cangianti, un luogo dove ci si può smarrire felici anche nei vicoli più stretti, spinti dalla forza propulsiva della sua instancabile e avventurosa batteria. Inutile dire che il disco (meritatamente #4) è assolutamente consigliato. Un must have per chi è costantemente alla ricerca di cose nuove, e di suoni inconsueti ed imprevedibili.
Mettendo la puntina all’inizio della seconda facciata del disco, veniamo immersi nelle atmosfere del capolavoro dell’album, l’evocativa “Twin Torches”. Una splendida composizione di 10 minuti che vede il contributo fondamentale del violino e della voce di una Laurie Anderson letteralmente in stato di grazia. Una cascata di suoni e di voci (grazie all’apporto della Quince Contemporary Vocal Ensemble) che si dirigono come laser verso mille direzioni diverse, trovando le sponde nel creativo e complesso drumming di Colpitt che insieme ai Tigue, li rimanda indietro a velocità doppia sotto lo spoken word dell’imperturbabile poetessa.
Dal buio dello studio dove l’italo-belga Melanie De Biasio si è rinchiusa per ritrovare le sue origini, nasce una narrazione capace di interagire con l’ascoltatore in modo empatico, costruendo microcosmi perfetti musicalmente e liricamente. La magia di una voce, il profumo dei pochi strumenti usati e la perfezione del saperli dosare sapientemente mostrata in Lilies (leggi la recensione) la posiziona saldamente al #3, e la conferma senza dubbio come una delle migliori e più ispirate interpreti contemporanee. L’artista in questo nuovo album vira di nuovo verso la “forma-canzone” classica, tornando alle radici con una serie di tracce apparentemente semplici e scarne. In realtà le canzoni sono capaci di reggersi (benissimo) solo su due accordi, su uno schioccare di dita, su un tappeto di synth o su un pianoforte minimale. Sono proprio pochi strumenti ad accompagnare la voce ferma e carismatica di Melanie nell’apertura di “Your Freedom Is The End Of Me”. Una ballata di grande atmosfera che delinea una precisa mappa del tesoro.
Cinque anni dopo essersi riuniti esclusivamente per alcuni concerti, i The Dream Syndicate, una delle band cardine del Paisley Underground hanno pubblicato il loro primo album dopo ben 29 anni di silenzio. How Did I Find Myself Here? infatti è il primo disco della band di Steve Wynn dopo Ghost Stories uscito nel 1988. La band aveva iniziato a registrare l’album nel 2016. La formazione vede, oltre a Wynn il batterista originale Dennis Duck, il bassista Mark Walton (che si unì al gruppo dopo l’uscita di Medicine Show) e il chitarrista Jason Victor, membro dei The Miracle 3, l’altra band di Steve Wynn. L’album è sorprendentemente bello, classico ed attuale allo stesso tempo. C’è anche il cameo finale di Kendra Smith, bassista originaria della band che decise di lasciare nel 1983 dopo lo splendido debutto di The Days of Wine and Roses. Non sempre le reunion ottengono i risultati sperati, anzi. Stavolta invece Wynn e compagni hanno superato tutte le più rosee aspettative, arrivando al #2 della mia classifica. La title track è un’assoluta meraviglia di oltre 11 minuti, prodotta da Chris Cacavas (ex Green On Red, altro gruppo cardine del Paisley Underground), dove si accavallano energia e sogno, chitarre che duellano e momenti di sperimentazione. Il tutto condito da una scrittura ispirata e riconoscibile.
Chiudiamo il podcast con il gruppo che ha conquistato con merito il gradino più alto del podio. Sulla forza rabbiosa degli Sleaford Mods mi sono espresso più di una volta. Dopo la recente uscita dell’EP intitolato T.C.R. era molto atteso il loro esordio sulla lunga distanza per la storica etichetta britannica Rough Trade. Il primo disco dopo Brexit del duo punk-hop di Nottingham formato da Jason Williamson e Andrew Fearn, non tradisce le aspettative, risultando devastante. Il solito concentrato di invettive feroci condite da una base musicale sempre all’altezza della situazione. English Tapas (leggi la recensione) descrive in maniera rabbiosa il declino di una nazione che si sente superiore alle altre. Williamson sputa fuori i suoi dardi in un flusso inarrestabile che non sempre è facile da capire per noi italiani. I due spiattellano con cruda onestà le piaghe non solo inglesi ma sociali in generale. Lanciano frecciate avvelenate agli appassionati della cucina biologica, ai cultori del fitness, alla dipendenza da droga e alcool, al tessuto sociale, non risparmiando nessuno.
Il singolo “B.H.S.” narra la storia di Sir Philip Green. Questo “signore” nel 2000 comprò la catena di montaggio e magazzinaggio BHS per 200 milioni di sterline rivendendola 5 anni dopo per 1 sola sterlina, ma lasciandola con un drammatico deficit di 571 milioni di sterline. Così facendo ha mandato per strada tutti i suoi dipendenti: donne, uomini, ragazzi, madri e padri di famiglie. Dimenticavo, il pover’uomo dopo aver fatto questa porcata si è rifugiato in crociera a bordo del suo “piccolo” yacht da 300 milioni di sterline. La loro formula è ormai facilmente identificabile, ma la semplicità con cui i due la fanno evolvere rimanendo fedeli a loro stessi è meravigliosamente spaventosa. Nessun gruppo incarna meglio di loro la vera essenza del punk, nessuno rimane a livelli così qualitativamente alti al giorno d’oggi. Sleaford Mods: in assoluto i #1.
Spero abbiate gradito l’atteso restyling del sito, per questo e molto altro, un grazie speciale va sempre a Franz Andreani. A cambiare non è solo la veste grafica, ma anche la “filosofia” della podradio, con le rubriche che vanno ad integrarsi nella programmazione regolare sotto l’hashtag #everydaypodcast. Tutte le novità le trovate sempre aggiornate in tempo reale sulla nostra pagina Facebook.
Nel prossimo episodio di Sounds & Grooves finalmente abbandoneremo la temutissima classifica per tornare al podcast “tradizionale”. Andremo a trovare alcuni outsiders come Darto e Ghold che hanno trovato poco spazio in precedenza, proverò ad onorare la memoria di Mark E. Smith e di Terry Kath e a celebrare degnamente i primi anni di una band straordinaria come i Chicago. E chissà. magari torneremo indietro nel tempo per seguire i primi passi di un trio che si stava facendo strada a Minneapolis…
Intanto se volete potete sfruttare la parte riservata ai commenti qui sotto per darmi suggerimenti, criticare (perché no), o proporre nuove storie musicali. Mi farebbe estremamente piacere riuscire a coinvolgervi nella programmazione e nello sviluppo del mio sito web.
Se volete ascoltare o scaricare il podcast, potete farlo anche dal sito della stessa PodRadio cliccando sulla barra qui sotto. Buon Ascolto
TRACKLIST
01. AUDIAC: So Waltz da ‘So Waltz’ (Klangbad – 2017)
02. THE BLACK ANGELS: Currency da ‘Death Song’ (Partisan Records – 2017)
03. THE HELIOCENTRICS: Made Of The Sun da ‘A World Of Masks’ (Soundway – 2017)
04. THE MAGNETIC FIELDS: ’73 It Could Have Been Paradise da ‘50 Song Memoir’ (Nonesuch – 2017)
05. PROTOMARTYR: A Private Understanding da ‘Relatives In Descent’ (Domino – 2017)
06. RICHARD DAWSON: Ogre da ‘Peasant’ (Weird World – 2017)
07. KING KRULE: Dum Surfer da ‘The Ooz’ (XL Recordings – 2017)
08. IDLES: Mother da ‘Brutalism’ (Balley Records – 2017)
09. GOLD DIME: Easy da ‘Nerves’ (Fire Talk – 2017)
10. ARTO LINDSAY: Grain By Grain da ‘Cuidado Madame’ (Ponderosa – 2017)
11. MAN FOREVER: Twin Torches (feat. Laurie Anderson) da ‘Play What They Want’ (Thrill Jockey – 2017)
12. MELANIE DE BIASIO: Your Freedom is the End Of Me da ‘Lilies’ (PIAS – 2017)
13. THE DREAM SYNDICATE: How Did I Find Myself Here da ‘How Did I Find Myself Here?’ (Anti- – 2017)
14. SLEAFORD MODS: B.H.S. da ‘English Tapas’ (Rough Trade – 2017)