Il terzo podcast di Sounds & Grooves per il 18° anno di RadioRock.TO The Original
In questa nuova avventura in musica troverete alcune novità, il ricordo di Lou Reed e una piccola panoramica sul post rock britannico anni ’90
Torna dopo la pausa estiva l’appuntamento quindicinale di Sounds & Grooves che per il 18° anno consecutivo impreziosisce (mi piace pensarlo) lo straordinario palinsesto di www.radiorock.to. 18 anni…siamo diventati maggiorenni!!!! A pensarci è incredibile che sia passato già così tanto tempo da quando abbiamo iniziato questa folle ma fantastica avventura. Come (credo) sappiate, la nostra podradio è nata per dare un segnale di continuità con quella meravigliosa radio del passato che molti custodiscono nel cuore e a cui ho provato a dare un piccolo contributo dal 1991 al 2000.
Sappiamo tutti benissimo che la Radio Rock in FM come la intendevamo noi è sparita da tanto tempo, ma in tutti questi anni di podcast sul web abbiamo cercato di tenere accesa quella fiammella per poi tentare di moltiplicarla, facendola diventare un faro di emozioni e qualità musicale. Perché la passione e la voglia di fare radio, la voglia di ascoltare e di condividere la musica di qualità, nonostante tutto, non ci è mai passata.
Questa creatura dopo quasi 4 lustri continua orgogliosamente a remare controcorrente, cercando quella libertà in musica che nell’etere è ormai diventata una mosca bianca, ed esprimendo con forza la passione per la condivisione, per la ricerca, per l’approfondimento. Non dobbiamo aderire ad una cieca linea editoriale che ormai spinge esclusivamente il pulsante play dei servizi di streaming, ma ci lasciamo guidare semplicemente dal nostro cuore e dalla nostra passione. Fulvio Savagnone, Marco Artico, Giampiero Crisanti, Franz Andreani, Flavia Cardinali, Francesco Cauli, Ivan Di Maro, Massimo Santori aka Moonchild, Maurizio Nagni ed io proviamo ogni giorno a coinvolgervi con i nostri podcast regolari e con le rubriche tematiche di approfondimento, sperando di farvi sentire sempre di più parte di questa fantastica avventura.
Questo terzo episodio stagionale inizia con la mia personalissima opinione sulla riproposizione dell’immortale capolavoro del maestro Sergej M. Einstein “The Dark Side Of The Corazzata Kotiomkin”, prosegue rifacendoci le orecchie con i Pink Floyd psichedelici dell’esordio, subito seguiti dai meno famosi, ma all’epoca ugualmente importanti, The Deviants di Mick Farren. L’attesa ristampa in vinile del capolavoro di esordio dei Moonshake mi ha dato modo di parlare brevemente della scena post rock britannica dei ’90 riproponendo anche i Pram e il secondo album solista di David Lance Callahan, che di quei Moonshake era l’anima principale. I Vanishing Twin (che attualizzano in fondo quel suono) sono la prima delle novità proposte, seguiti dal commovente album postumo di Mark Linkous aka Sparklehorse e dalla riscoperta delle radici italiane della splendida Melanie De Biasio. C’è anche spazio per il trentennale di Gentleman degli Afghan Whigs, un sentito ricordo di Lou Reed a 10 anni dalla scomparsa e della potente psichedelia dei Loop. A completare il tutto c’è una triade onirica tra country, soul e pop da camera con Lambchop, The Delines e Tindersticks. Il tutto, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
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Prima di partire con questo viaggio in musica potete effettuare il download del podcast anche nella versione a 320 kb/s semplicemente cliccando sul banner qui sotto.
Prima che uscisse il nuovo Rolling Stones, è stato l’argomento principale in musica, almeno nella mia bolla social: l’attesissima riproposizione dell’immortale capolavoro del maestro Sergej M. Einstein “The Dark Side Of The Corazzata Kotiomkin Redux” aggiornata da un altro immortale come Roger Waters che (in un ennesimo slancio di egomania) ne rivendica la totale paternità. Dopo aver avuto il coraggio di ascoltarlo (ammetto…mea culpa…che anche il tanto osannato originale del 1973 mi annoia a morte, perdonatemi), ho deciso di tornare indietro fino al 1967, quando un quartetto si affacciava nello scintillante e ancora vergine mondo della psichedelia britannica. L’unione dei nomi dei due bluesman Pink Anderson e Floyd Council darà vita ad una delle formazioni più famose ed influenti di sempre. La formazione dei Pink Floyd che nel 1967 incide l’album di esordio vede Syd Barrett alla voce e alla chitarra, Roger Waters al basso, Richard Wright alle tastiere e Nick Mason alla batteria.
The Piper At The Gates Of Dawn è stato l’unico album inciso con l’apporto delle allucinazioni psichedeliche di Barrett, che riuscì a creare un mondo di enorme fascino prima di venire risucchiato dalle sue stesse visioni e dipendenze che lo fecero abbandonare la band per ritirarsi ad un progressivo totale isolamento fino alla morte avvenuta nel 2006. Del suo genio ci restano due album solisti e questa prova magistrale insieme alla sua creatura, così diversa da quella che è poi diventata… progressivamente. “Matilda Mother” è stata la prima canzone incisa per l’album, scritta da Barrett ma cantata principalmente da Richard Wright, con Syd che si unisce ai cori e canta l’intera ultima strofa. Il brano rappresenta un tema comune nell’opera di Barrett: la nostalgia per l’infanzia e la consapevolezza di non poterla riconquistare.
Rimaniamo in Gran Bretagna nella seconda metà degli anni ’60. Nel 1966 il noto esponente della controculture britannica Mick Farren fondò i Social Deviants, probabilmente ispirato dalla satira sociale dei Fugs (di cui parleremo sicuramente nei prossimi episodi). Farren fu il primo ad organizzare la sezione britannica delle White Panthers, e l’anno dopo cambiò la ragione sociale nel più semplice e diretto The Deviants. L’amicizia con il 21enne figlio di un milionario, Nigel Samuel, gli diede la possibilità di esprimere il suo potenziale e le sua musica tra garage e psichedelia, pregna di testi socialmente impegnati, in un album intitolato Ptooff!
Album dall’inconfondibile copertina fumettistica, perfetta per evidenziare l’onomatopeico titolo. Farren comanda il disco da perfetto istrione ed agitatore culturale quale è sempre stato, come dimostra questa “Garbage”, che dimostra la carica eversiva e proto-punk del gruppo. Dopo il primo scioglimento della band avvenuto nel 1969, Farren ha iniziato una carriera come scrittore e giornalista, ricomponendo la sua creatura di tanto in tanto ad intervalli regolari, mentre alcuni suoi compagni di avventura andranno a formare i Pink Fairies, ma quella è un’altra storia di cui ci occuperemo a tempo debito.
La ristampa di uno dei capolavori del post rock britannico degli anni ’90 mi da modo di tornare a parlare di uno dei miei gruppi preferiti in assoluto. Sui Moonshake ho scritto un lungo articolo che ne ripercorre tutti i passi dagli esordi allo scioglimento. La band è stata formata da David Callahan e Margaret Fiedler nel 1990 scegliendo un nome che ne sancisse in maniera inequivocabile il legame con il krautrock (come abbiamo ascoltato prima, “Moonshake” non è altro che uno dei brani che compongono il seminale Future Days dei Can). I due leader trovano presto un loro equilibrio pur nella diversità dell’approccio alla materia sonora, la Fiedler più propensa a creare brani eterei e di atmosfera, Callahan a preferire un tessuto urbano più duro e spigoloso. Erano due facce della stessa medaglia, l’amore per le stesse bands (Can, My Bloody Valentine, PIL, Kraftwerk) espresso in maniera completamente differente. Un incontro esplosivo, una collisione tanto inevitabile quanto evocativa.
Eva Luna (appena ristampato in doppio vinile blu con in più l’EP di tre canzoni “Secondhand Clothes”, le due b-sides del singolo “Beautiful Pigeon”, quattro brani di una sessione di John Peel del novembre 1992 e un libretto di 8 pagine a colori) è il loro splendido esordio che si snoda in tredici meravigliose tracce dove Pop Group, Can, Public Image Ltd. e My Bloody Valentine si stringono in un caleidoscopico girotondo. I quattro mettono a fuoco un disco che, nei suoi tratti scarni e scheletrici, colpisce con le sue schegge new wave, con le sue argute bizzarrie, le poliritmie kraut, i fiati jazz e i suadenti innesti dub. Gli intricati ritmi di “Mig” Moreland e l’ipnotico basso dub di John Frenett, sono la migliore base possibile su cui possono partire brani fantastici come la torrenziale apertura di “City Poison”, I Moonshake, inseriti come detto nel filone post-rock britannico, sono stati semplicemente uno dei gruppi più originali degli anni novanta il cui unico torto è stato di essere stati troppo facili per l’avanguardia e troppo intellettuali per la massa.
Lo scoppio della pandemia ed il successivo lockdown hanno fatto trovare a David Lance Callahan, ex leader dei Moonshake (appena citati come band cardine del post-rock britannico dei ’90) il tempo di mettere mano ad una serie di canzoni cui stava lavorando da molto e di scriverne delle nuove. Per dirla con le parole dello stesso autore “durante l’isolamento non c’era molto altro da fare se non recuperare i miei libri, filmare e scrivere canzoni”. Tutto questo ha portato l’inglese a registrare il materiale che compongono i due volumi di English Primitive. E se il primo volume era arrivato alle mie orecchie quasi fuori tempo massimo per occupare una posizione di prestigio nella mia Playlist 2021, la seconda parte è arrivata in tempo per conquistare addirittura la vetta della mia personalissima classifica dello scorso anno. English Primitive II è più rumoroso e più psichedelico del fratello maggiore, ma mantiene la stessa gamma eclettica di input.
Questo nuovo lavoro comprende secondo il suo autore le “canzoni dell’esperienza” affrontando temi lirici come lo squallore e la corruzione dei potenti e dei loro vassalli, e le vessazioni inflitte in modi più disparati ai più deboli. La seconda parte di English Primitive non delude le attese, mostrando un autore sempre più maturo e poliedrico, capace di mettere in musica racconti di vita vissuta e la visione di una società britannica in cui i meccanismi di assimilazione culturale e di sistema politico non sono propriamente oliati a dovere. La corruzione imperante, la brutalità intenzionale e non intenzionale inflitta ai più deboli e i modi talvolta perversi in cui ciò avviene vengono spiattellati con crudo realismo in otto racconti straordinari. Il rotolante blues psichedelico della lunga “The Parrot” indugia su chi ha il compito di pattugliare i confini di ciò che è permesso dire e credere con lo scopo di assicurarsi che gli uomini di potere mantengano la propria autorità in tutto e per tutto. Un accusa nemmeno troppo velata sui giornalisti politici visti come i cortigiani del nostro tempo, in passato spesso ridicolizzati come pappagalli. Una visione intricata e spettrale sottolineata ancora una volta dalla splendida copertina, riproduzione (come nel primo volume) di un lavoro di vetro colorato dell’artista Pinkie Maclure (metà dei Pumajaw) capace di riflettere perfettamente l’oscurità e la luce delle canzoni.
Abbiamo parlato in breve della scena post rock britannica degli anni ’90 che faceva riferimento soprattutto ad un’importante etichetta discografica. Tra le bands di punta della scuderia Too Pure vanno assolutamente riscoperti i Pram. Originari di Birmingham, erano formati dalla cantante Rosie Cuckston, il bassista Sam Owen, il batterista Andy Weir e Max Simpson alle tastiere e campionamenti. Le loro influenze sono diverse, e spesso anche difficili da scoprire. La base di partenza è un certo tipo di jazz, con i fiati a fare da contrappunto alla sezione ritmica, ma possiamo trovare anche new wave, disturbi etnici e un certo tipo di minimalismo.
Helium è il loro secondo album in studio uscito per la Too Pure, e vede la band andare a briglie sciolte con la fantasia tra rock e jazz, avanguardia e trip-hop con brani elaborati e sofisticati, come “Dancing On A Star”. La chitarra (già poco presente) sparisce quasi del tutto, lasciando l’asse tastiere/ritmica a menare le danze. Dopo un ulteriore splendido lavoro per la Too Pure (Sargasso Sea) la band si muoverà su binari più semplici e consueti prima di sciogliersi. Dopo dieci anni di silenzio, la band è tornata nel 2018 dopo ben 11 anni di silenzio con uno splendido album intitolato Across The Meridian.
Andiamo avanti con il podcast parlando di un gruppo che probabilmente ha preso alcune soluzioni sonore da quel meraviglioso mondo sonoro di grande creatività che è stato il post rock britannico anni ’90. Inizialmente formati dalla cantante e polistrumentista Cathy Lucas nel 2015, dopo una serie di cambi di line-up, i Vanishing Twin sono oggi il collettivo londinese, ben affiatato, formato dalla stessa Lucas, dalla batterista Valentina Magaletti (Holy Tongue, Tomaga, Moin) e dal bassista Susumu Mukai (Zongamin). Sfruttando i diversi background e i punti di riferimento dei suoi membri, l’arte canora di Lucas, l’approccio singolare della Magaletti alle percussioni sperimentali e la lunga storia di Mukai nella produzione di musica elettronica, la band ha affinato un suono ipnotico alla confluenza di minimalismo, kosmische, post-punk e pop psichedelico carico di sogni.
Il nuovo album (il quarto) del trio è appena uscito e si intitola Afternoon X. Il disco prosegue la traiettoria di esplorazione che ha definito le loro ultime uscite, un marcato cambiamento creativo, durante il quale ogni membro ha assunto ruoli meno definiti e un approccio più collaborativo, più simile al lavoro di tre co-produttori che di una band. Registrato tra la fine del 2022 e l’inizio del 2023, l’album è il prodotto di una serie di sessioni di registrazione durante le quali i tre hanno suonato diversi strumenti. “Marbles” è il brano scelto per rappresentare un album che mostra un gruppo di grande personalità, con un suono riconoscibile e perfettamente messo a fuoco, confermandoli come uno dei collettivi più interessanti degli ultimi anni.
Dopo le soluzioni oniriche dei Vanishing Twin diamo una sferzata chitarristica al podcast con i viaggi psichedelici dei Loop. Fondati a Londra nel 1985 dal chitarrista Robert Hampson, sono stati estremamente importanti per quella scena neopsichedelica inglese che affondava le radici nel kraut rock creando un suono che verrà preso a piene mani dalla corrente shoegazing. Tre album al loro attivo dal 1987 al 1990 prima della reunion e della conseguente pubblicazione dell’EP Array 1 nel 2015 e di Sonancy un anno fa. La coesistenza di rumore e melodia, la ritmica pesante, la circolarità psichedelica li hanno resi assolutamente fondamentali come dimostra questa splendida “Afterglow”, tratta dal secondo album in studio Gilded Eternity risalente al 1989.
I Loop sapevano come colpire per pesantezza ed impatto e il diabolico Hampson dimostrava spesso l’abilità enorme di saper azionare uno scambio nascosto tra i binari mandando un treno in corsa a volte su pesanti feedback chitarristici, creando un’atmosfera scura e solo apparentemente immobile. Terminata l’avventura nel 1991, Hampson insieme all’altro chitarrista dell’ultima formazione dei Loop, Scott Dawson, cambiò strada con il meraviglioso isolazionismo dei Main, ma quella è un’altra storia, forse più adatta alla rubrica Droni e Bordoni. Come detto, nel 2013 i Loop si sono riformati con una formazione che ricalca l’epoca dell’ultimo lavoro in studio Gilded Eternity e comprende Robert Hampson, John Wills, Neil Mackay e Scott Dowson. Se siete interessati, l’intera discografia dei Loop è stata ristampata una decina di anni fa.
Ebbene si, gli Afghan Whigs sono stati il mio gruppo preferito dell’era alternative rock statunitense degli anni ’90 che molti hanno erroneamente ammucchiato in un contenitore chiamato grunge. Ma la band in questione veniva da Cincinnati e non da Seattle, e amava spesso e volentieri sotterrare l’ascia di guerra o contaminarla con il verbo soul ed i venti Motown provenienti dalla città delle automobili, molto più vicina alla loro città natale rispetto alla Emerald City. La band è stata spesso e volentieri ispiratissima, capitanata da un Greg Dulli ironico e dandy, uomo attratto dal soul e dalla decadenza, perverso e depresso, ma sempre è comunque tra gli autori migliori della sua generazione.
Torniamo indietro nel tempo fino al 1993, ed è incredibile che siano già passati 30 anni!!! In quel periodo il gruppo era davvero all’apice della forma, e Greg Dulli ci faceva ardere di passione con il suo rock robusto e tormentato mischiato con la sensualità del soul. Gentlemen (insieme al precedente Congregation), è stato con ogni probabilità l’apice della loro produzione, e la splendida “Fountain And Fairfax” sta lì a dimostrare quanto focosa, passionale ed irresistibile fosse la loro proposta. Nel 1998, anno di uscita di 1965, si erano spenti riflettori sulla band dell’Ohio, riaccesi nel 2014 per una reunion che, purtroppo, non è mai stata realmente convincente, anche se, lo scorso anno, l’uscita di How Do You Burn? ha raccolto un certo entusiasmo.
A dieci anni dalla sua morte è doveroso ricordare un vero e proprio gigante del rock come Lou Reed. Cantore al contempo crudo e ironico dei bassifondi metropolitani, dell’ambiguità umana, dei torbidi abissi della droga e della deviazione sessuale, ma anche della complessità delle relazioni di coppia e dello spleen esistenziale, Reed ha finito con l’incarnare lo stereotipo dell’Angelo del male, immagine con cui ha riempito i media per oltre tre decenni divenendo una delle figure più influenti della musica e del costume contemporanei. Dopo gli sfolgoranti anni ’70, il decennio successivo non è stato certo così indimenticabile per Reed, a parte pochissimi casi isolati. A rivalutare però tutto il periodo, arriva proprio a fine decennio quello che è ricordato come uno dei suoi lavori più ispirati.
New York non era solo la sua città, ma il centro del suo mondo, un microcosmo da raccontare in tutte le sue sfaccettature, le sue contraddizioni, i suoi peccati e le sue redenzioni. L’album che porta il nome della Grande Mela è uno spaccato di vita vissuta diviso in 14 cortometraggi dove l’artista racconta con passione e senza retorica un’intera epoca. Un concentrato di letteratura, con i testi che spaziano dalla politica allo spettro dell’AIDS con una prosa cruda e passionale. Difficile scegliere una sola traccia per rappresentare il disco, ma in attesa di un podcast dedicato solo a questo capolavoro, ho deciso di inserire la splendida “Dirty Blvd.”, brano che racconta degli incredibili contrasti e dell’enorme divario tra ricchi e poveri, tra Pedro che vive al buio tra pareti di cartone fuori dal Wilshire Hotel, e le star del cinema che arrivano in limousine per camminare su un red carpet illuminato a giorno. Il suo quindicesimo album in studio rimarrà come uno dei migliori della sua carriera.
Incredibile pensare che sono passati ormai tredici anni da quando Mark Linkous ha deciso di andarsene definitivamente da un mondo nel quale stava sempre più scomodo. Il testamento sonoro che ci ha lasciato Mark, nascosto dietro al moniker di Sparklehorse, è però di inestimabile valore. A partire dall’album di esordio, un caleidoscopio sonoro dalla copertina apparentemente gioiosa ma in realtà un po’ inquietante chiamato Vivadixiesubmarinetransmissionplot, un nome tanto improponibile quanto (quasi) impronunciabile: . 16 brani diversi per lunghezza e ispirazione, ma tutti permeati di quella malinconia di fondo che segnerà l’opera omnia di Linkous. Mentre continuava a lavorare al suo quinto album nell’autunno del 2009 e all’inizio del 2010, registrando con Steve Albini a Chicago, la depressione che lo aveva perseguitato per molti anni cominciò ad aggravarsi fino all’atto conclusivo che lo ha portato a togliersi la vita a soli 48 anni.
Fragilità e oscurità sono state spesso considerate sinonimi di Sparklehorse e, con un po’ di frustrazione da parte di Mark, la storia di come il suo cuore si sia brevemente fermato dopo un’overdose accidentale durante il tour del 1996 è diventata parte della sua mistica dell’abisso. Il fratello minore di Mark, Matt, insieme alla moglie Melissa ha setacciato scatole di nastri e CD per catalogare e conservare quelle registrazioni inedite di Mark e dare vita al suo album postumo, intitolato Bird Machine. Mark aveva già deciso il titolo e la lista dei brani in appunti scritti a mano ricevuti dal fratello. Alcune canzoni erano prossime al completamento, mentre altre avevano bisogno solo di un attenta e mai invasiva correzione, l’aggiunta di una sottile strumentazione e di voci di accompagnamento in alcuni casi, un altro attento mixaggio in altri, per prendere il volo. “Falling Down” è il brano che ho scelto per rappresentare un disco che ci fa ritrovare quel mix di ironia, meraviglia e depressione che il suo talento ci ha saputo donare.
I Lambchop sono un gruppo attivo da ben 30 anni, che riesce anno dopo anno ad essere incredibilmente sempre unico pur cambiando ogni volta. Solo quel diavolo di Kurt Wagner, con la sua capacità di scrivere canzoni meravigliosamente senza tempo poteva farmi apprezzare addirittura una delle invenzioni più atroci della storia della musica: il vocoder, usato sia nel 2016 in FLOTUS (acronimo di For Love Often Turns Us Still), che nel 2019 in This (Is What I Wanted To Tell You), dove il nostro riesce a spargere emozioni pur flirtando in modo evidente con l’elettronica glitch.
La maestria assoluta di Wagner nella scrittura di splendenti meraviglie, tra bassi pulsanti, archi sospesi nel cielo e il pianoforte a tinteggiare il tutto, riesce si dispiega prepotente nel già citato album del 2019, dove Wagner ha voluto ancora una volta sperimentare qualcosa di nuovo, riuscendo ad arrangiare accordi e melodia arrivando alla produzione di un nuovo suono sorprendente, dove il country degli esordi si stempera in una sorta di glitch-pop onirico e affascinante, come dimostra la bellezza di “The December-ish You”. Una sorta di nuova versione dei Lambchop, che mantiene inalterata la magia di un gruppo che anno dopo anno non smette di affascinare ed emozionare, come ha confermato l’ennesimo centro di The Bible uscito lo scorso anno.
Personaggio straordinario Willy Vlautin. Capace di dare vita e forma con la sua voce, la sua chitarra e i suoi testi ad una splendida creatura come i Richmond Fontaine e a scrivere sei romanzi di successo. Non contento, dopo lo scioglimento di un’affermata realtà dell’alt-country come i Richmond Fontaine, Vlautin ha creato una nuova entità chiamata The Delines rivestendo a nuovo la splendida voce di Amy Boone, corista negli ultimi tour della sua band precedente. Il quintetto di Portland, Oregon, con The Sea Drift è arrivato al suo terzo capitolo in studio che perfeziona l’alchimia tra country e soul dei due album precedenti. Storie di perdenti, di persone che camminano sempre sul bordo rischiando di perdere l’equilibrio. Un’umanità raccontata in maniera empatica ed evocativa, con tutti i suoi languori e le sue debolezze, trasportata lungo la corrente del mare.
Queste storie scritte da Vlautin vengono interpretate da straordinari musicisti: ci sono le tastiere, la tromba e gli arrangiamenti di un Cory Gray in stato di grazia, il basso soul di Freddy Trujillo, le misurate percussioni di Sean Oldham e un piccolo gruppo di altri musicisti che si sono uniti ai cinque come Kyleen e Patty King a violino e viola, Collin Oldham al cello e Noah Bernstein al sax. La voce di Amy Boone è più profonda ed empatica che mai (ascoltate l’accorata “Hold Me Slow”), come se il suo drammatico incidente d’auto del 2016 e la difficoltà della riabilitazione l’avessero resa ancora più conscia del dolore provato dai protagonisti dei racconti di Vlautin e capace di dare profondità ai flussi sonori caldi, avvolgenti e raffinati creati dal gruppo. The Sea Drift mantiene quello che la copertina promette: un album assolutamente evocativo, malinconico e bellissimo.
Ci avviciniamo alla fine del podcast andando a trovare un gruppo che da più di 30 anni ci fa meravigliosamente compagnia con le sue soluzioni di pop elegante, orchestrale ed onirico. I Tindersticks si sono formati a Nottingham nel 1991 dalle ceneri degli Asphalt Ribbons, di cui facevano parte Stuart Staples (voce), Dave Boulter (organo e fisarmonica) e Dickon Hinchliffe (violino). Ai tre si sono aggiunti i londinesi Neil Fraser (chitarra), Al Macauley (percussioni e batteria) e Mark Colwill (basso). Si fanno notare sulla scena indie britannica grazie al brano auto prodotto “Patchwork” e al primo EP Unwired che fanno guadagnare alla band un contratto con l’etichetta indipendente This Way Up Records, per la quale pubblicano i loro primi tre album.
Il loro stile è in qualche modo unico, fatto di talento melodico, sound cupo e arrangiamenti intensi e ricercati, così diverso dallo sguaiato brit-pop che andava per la maggiore in quel periodo in Gran Bretagna. Il primo e il secondo album, autointitolati, sanciscono il loro sound caratteristico e ricevono un ampio consenso da parte della critica. Le loro esibizioni dal vivo, spesso accompagnate da grandi sezioni d’archi e persino, in alcune occasioni, da un’orchestra completa, vengono accolte con entusiasmo. Un piccolo miracolo sonoro, un suono elegante che colpisce nel segno. A rappresentare il gruppo ci sono le suggestioni ispirate, fascinose e notturne di “Sleepy Song”, tratta dal secondo Tindersticks II, che vede anche la partecipazione di Carla Torgerson dei Walkabouts.
Chiudiamo il podcast con un’artista che mi ha colpito sempre moltissimo. Parabola curiosa ma intrigante della cantante belga Mélanie De Biasio, che l’ha portata da un esordio in sordina a diventare una delle interpreti più originali e credibili della sua generazione. Classe 1978, nasce da madre belga e padre italiano a Charleroi, città ben nota per i suoi sobborghi minerari, come Marcinelle, meta di immigrazione europea di massa nel ‘900. La musica entra a far parte della sua vita da adolescente, quando comincia a cantare nelle sue prime band. Sono passati sei anni dalla pubblicazione di quel Lilies che in qualche modo mi aveva fatto sbilanciare: “La magia della sua voce, il profumo dei pochi strumenti usati e la perfezione del saperli dosare sapientemente mostrata in Lilies fortunatamente ci conferma che l’italo-belga può andare oltre e la conferma come una delle migliori e più ispirate interpreti contemporanee.”
A distanza di sei anni da Lilies, Mélanie è tornata con un lavoro ancora più personale dei precedenti: Il Viaggio. Un progetto nato innanzitutto dall’esigenza di riconnettersi con le origini, intese come le sue e quelle della sua musica. “Quando ho cominciato a lavorare a questo disco erano cinque anni che non registravo niente. Avevo quasi timore di avere disimparato” ha raccontato la Di Biasio. Fortunatamente l’italo-belga non ha disimparato e l’edizione 2021-2022 del festival di arti audiovisive Europalia dedicata al tema del viaggio in treno, gli da modo di tornare indietro al suo passato, e ai vagoni pieni di persone che, come suo padre, sono emigrati in Belgio per lavorare. Mélanie si è reinventata, allontanandosi dalla forma canzone classica, ma avvolgendo insieme jazz, folk, ambient e canzoni in un flusso sonoro che richiede tempo e attenzione (oltre 80 minuti di musica) ma che coinvolge e commuove come nella splendida “Now Is Narrow” che chiude il podcast.
Come dice Mélanie De Biasio, siamo tutti dei nomadi in un viaggio solitario: tutti noi abbiamo qualche familiare che è partito per un luogo lontano in passato, e tutti ne avremo uno che farà lo stesso in futuro. “Spero che questo mio viaggio vi aiuti ad accompagnarvi nel vostro. Spero che vi porti altrove, in un luogo che non visitate spesso, ma che vi appartenga davvero”.
Un grazie speciale va, come sempre, a Franz Andreani per la sua passione, la gestione di questa banda di pazzi e per la splendida riorganizzazione del sito già attiva da qualche anno. A cambiare non è stata solo la versione grafica del sito, ma anche la “filosofia” della podradio, con le rubriche che vanno ad integrarsi nella programmazione regolare sotto l’hashtag #everydaypodcast. Sulla nostra pagina Facebook troverete quotidianamente ogni upload del sito e, ormai da tempo, è attivo anche lo splendido canale YouTube della Radio, una nuova formula senza interruzioni ne spot per ascoltare la vostra-nostra musica preferita. Iscrivetevi numerosi, vi aspettiamo!
Nel prossimo episodio troverete ancora alcune novità tra cui il grande ritorno di Kristin Hayer che ha abbandonato il moniker di Lingua Ignota per ribattezzarsi Reverend Kristin Michael Hayer. Il tutto sarà, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
Intanto se volete potete sfruttare la parte riservata ai commenti qui sotto per darmi suggerimenti, criticare (perché no), o proporre nuove storie musicali. Mi farebbe estremamente piacere riuscire a coinvolgervi nella programmazione e nello sviluppo del mio sito web. Se volete darmi suggerimenti e proposte, scrivetemi senza problemi all’indirizzo e-mail stefano@stefanosantoni14.it.
Se volete ascoltare o scaricare il podcast, potete farlo anche dal sito della PodRadio cliccando sulla barra qui sotto. Buon Ascolto
TRACKLIST
01. PINK FLOYD: Matilda Mother da ‘The Piper At The Gates Of Dawn’ (1967 – Columbia)
02. THE DEVIANTS: Garbage da ‘Ptooff!’ (1967 – Underground Impresarios)
03. MOONSHAKE: City Poison da ‘Eva Luna’ (1992 – Too Pure)
04. DAVID LANCE CALLAHAN: The Parrot da ‘English Primitive II’ (2022 – Tiny Global Productions)
05. PRAM: Dancing On A Star da ‘Helium’ (1994 – Too Pure)
06. VANISHING TWIN: Marbles da ‘Afternoon X’ (2032 – Fire Records)
07. LOOP: Afterglow da ‘A Gilded Eternity’ (1990 – Situation Two)
08. THE AFGHAN WHIGS: Fountain And Fairfax da ‘Gentlemen’ (1993 – Elektra / Sub Pop)
09. LOU REED: Dirty Blvd. da ‘New York’ (1989 – Sire)
10. SPARKLEHORSE: Falling Down da ‘Bird Machine’ (2023 – Anti-)
11. LAMBCHOP: The December-ish You da ‘This (Is What I Wanted To Tell You)’ (2019 – City Slang)
12. THE DELINES: Hold Me Slow da ‘The Sea Drift’ (2022 – Decor Records)
13. TINDERSTICKS: Sleepy Song da ‘Tindersticks (II)’ (1995 – This Way Up)
14. MELANIE DE BIASIO: Now Is Narrow da ‘Il Viaggio’ (2023 – [PIAS] Le Label)
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SEASON 18 EPISODE 03: “Now Is Narrow” [Podcast] https://t.co/zdhocicWBM Il terzo #podcast stagionale di Sounds & Grooves per la podradio più libera ed indipendente del pianeta: @RadiorockTO è online.
— SoundsAndGrooves (@SoundsGrooves) October 23, 2023