Ebbene si, gli Afghan Whigs sono stati il mio gruppo preferito dell’era alternative rock statunitense degli anni ’90 che molti hanno erroneamente ammucchiato in un contenitore chiamato grunge. Ma la band in questione veniva da Cincinnati e non da Seattle, e amava spesso e volentieri sotterrare l’ascia di guerra o contaminarla con il verbo soul ed i venti Motown provenienti dalla città delle automobili, molto più vicina alla loro città natale rispetto alla Emerald City.
Dischi come Up It In o Gentlemen hanno sfiorato o raggiunto l’eccellenza, prima di una fine corsa più che dignitosa con Black Love e 1965 che, con il suo tributo ad una R&B Top 30 dell’epoca, aveva (momentaneamente) messo la parola fine ad una band spesso e volentieri ispiratissima, capitanata da un Greg Dulli ironico e dandy, uomo attratto dal soul e dalla decadenza, perverso e depresso, ma senza dubbio tra gli autori migliori della sua generazione. Il loro ritorno di 3 anni fa profumava di successo annunciato, anche se l’abbandono all’ultimo momento del chitarrista Rick McCollum suonava già come un campanello d’allarme: confezione curatissima, doppio vinile bianco, tutto troppo bello, fino a quando la puntina non è andata a leggere il primo solco.
Nonostante momenti in cui riuscivano ad abbeverare un’anima troppo assetata di emozioni, Do To The Beast è stata una enorme delusione, con Dulli alla ricerca di un’ispirazione giusta senza quasi mai trovare il colpo da KO. Ma i Whigs facevano sul serio, come quei pugili che dopo aver preso troppi colpi, vengono salvati barcollanti dal suono del gong, senza mollare mai. Vogliono coinvolgerci con il loro ritrovato entusiasmo dopo aver suonato lo scorso dicembre tutto Black Love per festeggiare il ventennale dell’album e per raccogliere fondi destinati al chitarrista della band Dave Rosser cui i medici hanno diagnosticato un cancro al colon. Il nuovo disco è un tentativo di unire gli istinti pop della band con il tema della seduzione che ha ispirato l’intero lavoro. Già dalla copertina che evoca spiriti inqueti, In Spades tenta di fare un incantesimo che possa permettere all’ascoltatore di scoprire le sue scure metafore e le sue immagini spettrali. “E’ in qualche modo un disco pauroso,” ha detto Greg Dulli, “E sono contento che non lo sia in maniera esplicita. Non è un vero concept album, ma da quando ho iniziato ad assemblarlo ho semplicemente provato a seguire un certo arco narrativo. L’ho concepito come un album sul ricordo in generale, e in particolare su come rapidamente la vita e i ricordi tendono a confondersi insieme.”
No Greg, stavolta non mi freghi come l’altra volta, stavolta sarò come San Tommaso, e ascolterò il disco (registrato tra New Orleans, Memphis, Los Angeles e Joshua Tree, con l’aiuto del veterano John Curley al basso, Patrick Keeler dei Raconteurs alla batteria e Petra Haden e Rick Nelson dei Polyphonic Spree agli archi) con la dovuta attenzione ed accortezza. Ecco, mi vuoi spiazzare con lo splendido minimalismo soul di “Birdland” messo proprio in avvio, bella tattica davvero, sorprendente. Vuoi vedere che siete invecchiati meglio di quanto potessi immaginare? Facciamo partire “Arabian Heights”, riproposizione un po’ coatta del loro vecchio stile, che appare da subito forzata nella non impeccabile interpretazione del leader. Il singolo “Demon In Profile” sembra calibrato in maniera migliore, facendo leva in maniera elegante sulla grande esperienza. Ma è di nuovo un fuoco di paglia, perché la magniloquenza tronfia di “Toy Automatic” si deve aggrappare ad una tromba da fiesta messicana per non sgonfiarsi, e “Oriole” gira a vuoto senza mai trovare uno sbocco o una soluzione.
La classe c’è ancora, e ci mancherebbe. Il cliché non cambia: il soul a tinte hard che non si smuove dal loro cifrario di riferimento. Ma la fiamma, Greg, dov’è quella fiammache ci ha fatto innamorare? D’accordo, la tua ostinazione è tanto passionale quanto fragile, ma hai un marchio da difendere, un nome storico del rock che non deve essere ricordato per questo suono ormai logoro e stantio.
Lo sai Greg che quando parte il riff iniziale di “Copernicus” mi immagino Michael Jackson che sbuca da qualche parte iniziando a cantare “Beat It”? Ma io ti voglio bene lo stesso sempre e comunque, te ne ho sempre voluto. I lapilli che escono dal vulcano quasi spento ma ancora in attività (metafora della vostra attuale situazione) sono davvero “Light as a Feather”, anche se devo ammettere che nello stesso brano è un piacere, per attimo, indugiare nell’ascoltare le chitarre sui due canali svisare e riffare come ai bei tempi. Ti immagino ballare bolso ma appassionato come me sul pianoforte della mid-tempo “I Got Lost” e recuperare energie ed emozioni nella finalmente sentita coda di “Into The Floor” prima di cadere esausto sul palco.
Avevi ricevuto uno spendido assist, il periodo musicale non è dei più creativi e molte riunioni di marchi storici hanno davvero sfiorato l’eccellenza. Ma permettimi nel mio piccolo di darti un piccolo consiglio: se davvero ti sta a cuore con la tua travolgente passione l’intera saga di questa fantastica stella hard-soul dell’alternative rock americano, per favore, metti da parte la tua umana ostinazione. Perché quell’impeto passionale e tormentato mischiato con la sensualità del soul, che è stato per anni il punto di forza della tua band, nonostante tu abbia lottato con tutte le tue forze, è finito inevitabilmente per soccombere.