Negli ultime settimane sono avvenute molte cose all’interno del “mondo” musicale che hanno scatenato (come prevedibile) un’infinità di reazioni sulla carta stampata, sulle webzines e soprattutto sui social media. Alcune centrate e rispettose, molte altre, purtroppo, scomposte o semplicemente male argomentate. L’ultima in ordine di tempo è stata la drammatica morte di Chris Cornell. Avendo su Facebook contatti prevalentemente musicali, sono stato sommerso da post e celebrazioni più o meno sentite. Ho abbastanza demoni nel mio cervello e rispetto per quelli altrui da non provare nemmeno a cercare di trovare quelli che hanno preso il sopravvento della testa del povero Cornell. In ogni caso quello a cui ho assistito è stato un fenomeno sociologico molto interessante: credevo che fosse un artista ormai in fase decrescente, che il meglio della sua voce iperpompata e potente lo avesse espresso nella prima fase dei Soundgarden prima di annoiare (parere personale eh) con il bolso rock da stadio degli Audioslave e dei suoi deludenti lavori solisti.
Ma c’ è da dire che quando ero poco più che ventenne, quella stessa voce mi aveva trascinato pur senza riuscire mai a conquistarmi del tutto. “Jesus Christ Pose” mi aveva travolto, “Mailman” mi aveva scosso e graffiato. La sua identità e presenza non mi apparteneva, era troppo centrale, figo, per chi come me ha sempre amato i personaggi non illuminati a giorno dai riflettori, ma per una stagione è stato senza dubbio chi avrei voluto essere, sostituendo per un attimo i suoi demoni con i miei. Per questo la voce di Cornell mi ha emozionato di più con i Temple of The Dog, perché ha messo il suo ego a disposizione del ricordo di un amico, senza l’obbligo di strabordare.
Non mi è piaciuto chi ha voluto fare il gioco perverso di andare a cercare (assurdi) significati reconditi nei testi di canzoni dei Soundgarden come “Black Hole Sun” e “The Day I Tried To Live”. Io mi sono anche quasi sentito in colpa per aver definito nei miei podcast e nei miei lunghi deliri sul post-rock, la scena di Seattle degli anni ’90 come un momento musicale nostalgico e conservatore, una restaurazione del rock anni ’60-’70 senza avere lo spessore delle band di 25 anni prima. Una questione di gusti, certo, estremamente soggettiva. Ma capisco anche che all’epoca ci si è attaccato a quel movimento in maniera anche sproporzionata alla effettiva valenza storica. Nella morte di Cornell poi è entrata in maniera prepotente anche la questione sulla modalità del decesso. Se già la morte di un 52enne colpisce di più di quella di un artista più anziano (mi vengono in mente le morti di Cohen e Bowie su tutti), la vicenda del suicidio di una rockstar affermata e dalla vita artistica e personale apparentemente felice ha reso molti profondi esperti dell’animo umano e del togliersi la vita in generale.
Ma chi ha lasciato qualcosa dentro non si dimentica, per questo magari mi sembra per un attimo meno stupefacente tutto questo enorme cordoglio social. Ma in tutto questo c’è un altro lato da non trascurare, l’età media dei contatti. Ma la cosa che mi ha dato davvero più fastidio, a parte le sempre sgradevoli diatribe tra i (veri) cinici e le (presunte) persone per bene, le disamine sulle modalità del suicidio e sull’effetto dei farmaci sulla psiche umana, e le “appassionate” lotte tra i sostenitori del grunge (che non pensavo onestamente potessero essere così numerosi) e chi non dava al movimento un’importanza così enorme, sono stati certi articoli di pseudogiornalisti su alcune webzines: la ricerca della frase ad effetto a tutti i costi, il doppio senso sull’ultima frase on stage di Cornell prima di rientrare in camerino (“Mi dispiace per la prossima città”), addirittura i titoli di canzoni uscite 25 anni prima (senza nemmeno prendersi la briga di andarne a capire davvero il significato), e soprattutto di insistere sulla presunta “maledizione del grunge” andando a infilare nel calderone solo band che hanno avuto decessi illustri (come gli Stone Temple Pilots che con il grunge non c’entravano nulla), ed escludendo veri gruppi capostipiti della scena come Mudhoney, Tad, Posies, colpevoli solo di non avere morti tra le loro fila…
Resta il dispiacere per la perdita di un artista che ha significato molto per una generazione, e l’amaro in bocca per il cinismo che nessuno dovrebbe permettersi di praticare con il cadavere ancora caldo di un uomo che si è tolto la vita a 52 anni. Bisognerebbe a volte avere rispetto per l’uomo prima che per l’artista, ma di questi tempi il rispetto ed il buon senso, sopratutto in ambito social, sembrano concetti estremamente vaghi.
Altro giro, altra corsa. L’intervista di Manuel Agnelli per Linkiesta ha scatenato, come prevedibile un putiferio mediatico, soprattutto sui social networks, dove ormai è sport nazionale scagliarsi contro chi tocca, anche in modo marginale, i propri idoli o presunti tali. Naturalmente ci si è divisi in due fazioni, a volte senza leggere e valutare correttamente il virgolettato, scadendo spesso nel qualunquismo o nel voler attaccare per forza un personaggio che spesso e volentieri non fa nulla per rendersi simpatico, non è quello ne il suo scopo ne la sua volontà. Era già successo quando era arrivata la notizia che sarebbe stato giudice di X-Factor. Diatriba tra presunti puristi dell’indie che non esiste più e chi difendeva l’integrità del personaggio. Solo che in questa intervista si sono sentiti chiamati in causa non solo i seguaci di un certo tipo di fare musica in italia ma anche gli agguerritissimi fan dei Queen che forse non hanno capito pienamente il concetto. “I Queen non hanno cambiato la storia della musica. Sono, anzi ormai erano, quattro talenti straordinari a livello musicale ma non avevano le stesse possibilità di racconto di un Lou Reed, per quanto Lou Reed fosse sicuramente meno dotato a livello musicale.” E qui, francamente non me la sento di dargli torto. Al di la dei rispettabilissimi gusti personali di ognuno.
E mi ha ricordato quando, nel 1991 ero appena entrato negli studi di un’emittente romana molto importante come Radio Rock 106.6 FM. E soprattutto dei miei gusti musicali di allora che sono ancora fonte di (meritatissime) prese in giro. lo ammetto, da adolescente e da ventenne ero in fissa con i generi musicali più beceri che la storia ricordi: il neo prog britannico anni ’80, i primi tentativi di progmetal e il temutissimo (in ogni galassia) AOR a stelle e strisce. Questi ultimi due sottogruppi popolati da esseri mitologici che usa(va)no gli strumenti come fossero gli attrezzi di una palestra e da altri con i capelli cotonatissimi che dopo vari urletti e riffoni ti piazzavano il lento calamutande di turno. Eppure ne andavo matto, tanto che la mia collezione di dischi mantiene tuttora tracce di quell’ignobile periodo. Allora credevo che l’abilità tecnica dei musicisti fosse l’unica garanzia di ottima musica, Non ero cresciuto con il punk, ma con i Beatles, folgorato sulla via di Damasco da una cassetta degli Iron Maiden prestatami da un mio ex compagno di classe che mi aveva aperto nuove vie. Ma più la mia onnivora curiosità musicale andava avanti, più mi accorgevo che l’abilità tecnica era davvero poco importante. A vent’anni andai perfino a Milano per vedere Yngwie J.Malmsteen, allora fantastico guitar hero seguito da tantissimi altri fans e musicisti che sognavano di far volare le dita sulle corde della chitarra con la stessa travolgente velocità. Peccato che nostro signore non gli avesse fornito l’abilità di scrivere un pezzo decente. Le possibilità di racconto: quella che Lou Reed aveva e tutti i Queen, Muse, Malmsteen o i Dream Theater di questo mondo no.
Dimenticavo, Agnelli si è trascinato dietro anche il disprezzo dei fans (?) dei Duran Duran che credevo estinti dalla fine degli anni ’80 e dei nuovi seguaci di personaggi che (misteriosamente) vanno molto dalle nostre parti come Calcutta, Thegiornalisti & co. Ma il significato di indie è davvero cambiato moltissimo negli anni fino a non avere più alcun senso al giorno d’oggi. Se prima si considerava indie tutto quello che usciva dalla grande distribuzione anche con una volontà che poteva apparire un po’ snob, ecco che adesso la curva è andata nella direzione opposta, ad un tratto, non so esattamente quando, l’indie ha iniziato ad andare di moda e band che poco o nulla c’entravano con quella corrente si sono create una nicchia agguerrita che è cresciuta fino a diventare un fenomeno pop. I gusti musicali sono assolutamente personali e ci mancherebbe, ma nonostante l’antipatia del personaggio Agnelli magari fermarsi a leggere correttamente i virgolettati non sarebbe un esercizio sterile.
Certo, non si vede l’ora di dare addosso al personaggio odiato di turno, e come se non bastasse è arrivato anche l’articolo di Michele Monina che parla di come si possono creare ad arte dei concerti sold out (ancora i Thegiornalisti, giustamente, alla gogna).
Al di la dei miei pareri personali, rimane stucchevole e fastidioso il meccanismo social, gioco che purtroppo si ripete ogni giorno dalle cose più importanti come la politica ed il sociale a quelle più futili come il calcio, dinamiche che rappresentano spesso la pochezza del nostro paese e di come per molti sia (purtroppo) più forte di loro azzannare chi dice qualcosa contro i propri idoli o attaccare i personaggi che detestano piuttosto che condividere le cose che amano, cosa che dovrebbe essere la vera essenza dei social.