Le avventure in musica di Sounds & Grooves proseguono nella 17° Stagione di RadioRock.TO The Original
Nell’ottavo episodio stagionale di Sounds & Grooves troverete la prima parte della classifica 2022.
Torna l’appuntamento quindicinale di Sounds & Grooves che per il 17° anno consecutivo impreziosisce (mi piace pensarlo) lo straordinario palinsesto di www.radiorock.to. A pensarci è incredibile che sia passato già così tanto tempo da quando abbiamo iniziato questa folle ma fantastica avventura. Come (credo) già sapete, la nostra podradio è nata per dare un segnale di continuità con il passato, con quella meraviglia che Franz Andreani, Marco Artico, Flavia Cardinali, Massimo Di Roma, Michele Luches, Aldo Semenuk, Giampiero Crisanti, Gianpaolo Castaldo avevano creato e a cui, nel mio piccolo, ho provato a dare un contributo dal 1991 al 2000. Sappiamo tutti benissimo che la Radio Rock in FM come la intendevamo noi è sparita da almeno due decenni, ma in tutti questi anni di podcast sul web abbiamo cercato di tenere accesa quella fiammella per poi tentare di moltiplicarla, facendola diventare un faro di emozioni e qualità musicale. Perché la passione e la voglia di fare radio, la voglia di ascoltare e di condividere la musica di qualità, nonostante tutto, non ci è mai passata. Questa creatura dopo 3 lustri continua orgogliosamente a remare controcorrente, cercando quella libertà in musica che nell’etere è ormai diventata una mosca bianca, ed esprimendo la passione per la condivisione, per la ricerca, per l’approfondimento. Non dobbiamo aderire ad una cieca linea editoriale che ormai spinge esclusivamente il pulsante play dei servizi di streaming, ma ci lasciamo guidare semplicemente dal nostro cuore e dalla nostra passione. Fulvio Savagnone, Marco Artico, Giampiero Crisanti, Franz Andreani, Flavia Cardinali, Francesco Cauli, Ivan Di Maro, Massimo Santori aka Moonchild, Maurizio Nagni, Angie Rollino ed io proveremo a coinvolgervi con i nostri podcast regolari e con le rubriche tematiche di approfondimento, sperando di farvi sentire sempre di più parte di questa fantastica avventura.
Nell’ottavo viaggio della nuova stagione troverete la prima parte della mia personale classifica del 2022. In questo spazio, come quasi ogni anno, ho voluto semplicemente buttare giù, come appuntandoli su un taccuino, gli album che negli ultimi 12 mesi ho ascoltato di più, e che sono riusciti maggiormente a coinvolgermi, e condividere con voi la mia interpretazione, il mio modo di sentire. Nonostante ci siano un milione di classifiche sparse nel web, sia quelle compilate dalla varie (più o meno trendy) music webzines e magazines, che quelle postate sui vari profili personali dei social networks, credo che da ognuna di queste ci sia sempre da qualcosa da imparare, uno o più nomi da annotare per poi approfondire con curiosità. Oggi troverete le mie posizioni dalla #30 alla #16. Il tutto, come da ben 16 anni a questa parte, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
Seguite il nostro hashtag: #everydaypodcast
Download, listen, enjoy!!!
Prima di partire con questo viaggio in musica potete effettuare il download del podcast anche nella versione a 320 kb/s semplicemente cliccando sul banner qui sotto.
Iniziamo il podcast con la posizione #30 dove troviamo Richard Dawson, un artista che appartiene ad una categoria molto particolare e quasi in via di estinzione, quella dei songwriters un po’ stralunati, poco convenzionali. Basti pensare ad un Richard Youngs, o ad un Kevin Coyne, senza voler scomodare l’enorme talento di Kevin Ayers (Dawson potrebbe montarsi la testa), tanto per farvi capire come poter inquadrare un personaggio come il chitarrista di stanza a Newcastle Upon Tyne, città dell’Inghilterra settentrionale non troppo distante dal terreno dove sorgeva Bryneich, regno britannico nato attorno al 420 d.C. che aveva ispirato il bardo nella composizione dell’album Peasant, che nel 2017 mi aveva assolutamente folgorato per l’abilità di Dawson nel raccontare le sue storie con una scrittura tanto potente e affascinante quanto oscura e poetica.
Dopo un album intitolato 2020 che apparentemente cambiava le carte in tavola abbandonando il folk-rock sghembo del disco precedente in favore di un sound che strizzava l’occhio ad una sorta di pop-rock (sempre contaminato e in equilibrio precario) e il ritorno lo scorso anno con un lavoro in coabitazione con una band che teoricamente non potrebbe essere più distante dal songwriting di Dawson, ovverosia i Circle, gli alfieri dell’heavy metal finlandese, Dawson è tornato con un album folk (alla sua maniera) proiettato stavolta nel futuro. La dissoluzione della società dovrebbe infatti, secondo l’autore, completarsi in un futuro irreale, fantastico e a tratti sinistro, in cui i costumi sociali sono mutati, i confini etici e fisici sono evaporati. Un luogo in cui non è più necessario impegnarsi con nessuno se non con se stessi e la propria immaginazione. Approcciarsi a Dawson non è mai facile, ma l’impegno nell’ascolto viene ripagato dalle meraviglie sonore di un bizzarro folksinger il cui cantato è sempre sull’orlo della stonatura, ma che è capace di narrare storie meravigliose come pochi altri al giorno d’oggi come la sognante “Museum” inserita nel podcast..
La doppia vita di una band straordinaria. I The Dream Syndicate, che troviamo al #29, sono stati una band fondamentale di quella scena californiana chiamata Paisley Underground, capace di traghettare il recupero delle radici folk e country nel maelstrom del post-punk e della psichedelia. Cinque anni dopo essersi riuniti esclusivamente per alcuni concerti, nel 2017 il gruppo ha pubblicato How Did I Find Myself Here? dopo ben 29 anni di silenzio. La formazione vedeva, e vede tuttora, oltre a Steve Wynn il batterista originale Dennis Duck, il bassista Mark Walton (che si unì al gruppo dopo l’uscita di Medicine Show) e il chitarrista Jason Victor, membro dei The Miracle 3, l’altra band di Steve Wynn.
Le meraviglie del passato sembravano difficilmente replicabili, ma l’album, ed i successivi due, hanno mostrato un gruppo capace di reinventarsi classico ed attuale allo stesso tempo in maniera sorprendente. I tre album non sono stati un’imitazione pallida del loro passato ma una rimodulazione avventurosa, culminata con l’esplorazione psichedelica e le improvvisazioni di The Universe Inside del 2020. Steve Wynn e compagni sono tornati nel 2022 con un lavoro più incentrato sulla forma canzone, non un passo indietro, ma un passo laterale in cui la capacità di scrittura della band si consolida nelle proprie certezze. Ultraviolet Battle Hymns And True Confessions, il quarto album della loro nuova vita, è l’ennesima carezza alle orecchie di una band incredibile, aiutata dalle solite straordinarie tastiere di un altro eroe del Paisley Underground come Chris Cacavas (Green On Red) e dai fiati di Marcus Tenney. Un lavoro, se vogliamo, più classico, dove troviamo più certezze che novità, un lavoro che qualcuno ha etichettato come “di maniera” oppure interpretato con il pilota automatico, ma che invece ci conferma come quella dei The Dream Syndicate sia la reunion più qualitativamente riuscita che riesca a ricordare.
Al #28 troviamo un album che, come altri in classifica, sembrano usciti fuori dalla programmazione della rubrica di radiorock.to Droni e Bordoni. Bob Kaufman, all’anagrafe Robert Garnell Kaufman, è stato un poeta statunitense della Beat Generation. In Francia, per la sua poesia ma anche per le sue vicende biografiche, è stato soprannominato “il Rimbaud nero”. La sua vita fu tutto tranne che semplice, nato (decimo di tredici figli) da madre nera cattolica della Martinica e da padre tedesco ebreo ortodosso. Si arruolò a 13 anni in Marina che lasciò dopo essere sopravvissuto a quattro naufragi per studiare letteratura alla New School di New York dove conobbe William S. Burroughs, Gregory Corso e Allen Ginsberg.
Ha vissuto sempre tra povertà e dipendenze, fu arrestato ben 39 volte con l’accusa di disordini semplicemente perché amava recitare le sue poesie a voce alta in pubblico. Per rendere omaggio ad uno dei pochi poeti neri e per non dimenticare il talento di un autentico outsider, Andreas Ammer (Ammer & Einheit), i fratelli Markus e Micha Acher (The Notwist) e il loop maker Leo Hopfinger (LeRoy) hanno formato i The Plastik Beatniks. All Those Streets I Must Find Cities For è un album dove ai quattro si aggiungono i talenti di Moor Mother, Angel Bat Dawid, Adam Drucker aka Doseone (cLOUDDEAD), Patti Smith insieme alle voci di Allen Ginsberg e dello stesso Kaufman per un album di jazz poetry incredibilmente affascinante non solo per la valenza squisitamente musicale ma anche per la sua importanza sociale. Il brano inserito nel podcast è “War Memoir” che vede l’apporto di un’artista che attinge dal passato proiettandosi nel futuro come Moor Mother.
“Il fatto che Kaufman sia oggi meno conosciuto del suo amico Allen Ginsberg può essere dovuto al fatto che era un poeta Beat nero e anche ebreo. Questo non era compatibile con il diventare famoso negli Stati Uniti degli anni Cinquanta.”
La posizione #27 è appannaggio della neozelandese di stanza in Galles Hannah Sian Topp, più conosciuta come Aldous Harding, senza dubbio una delle songwriters più talentuose ed interessanti uscite negli ultimi anni. La Harding ha intrapreso un percorso dove ama inseguire storie e stati d’animo, raccontati dalla prospettiva personale di un’autrice che piano piano ha saputo trovare un equilibrio tra malinconia e vitalità. Dopo il precedente Party, esordio con la prestigiosa etichetta 4AD, la Harding aveva ulteriormente alzato l’asticella con la pubblicazione nel 2019 di Designer, che aveva confermato le buone impressioni lasciate nei primi due lavori e la capacità di rinnovarsi interpretando il cantautorato folk in una modalità assolutamente personale e moderna.
La sua magnetica versatilità espressiva, grazie anche all’attenta produzione di un maestro come John Parish, è arrivata a pubblicare nel corso del 2022 uno splendido album come questo Warm Chris. Non è un disco che arriva subito, ci vuole qualche ascolto prima che i brani inizino ad entrare sotto pelle. I testi a volte difficilmente decifrabili, la cifra stilistica inconfondibile, la capacità di raccontare l’imperfezione dell’animo umano, il suo mostrarsi e ritrarsi subito dopo, di stupire tra pop e surrealismo, la sua autoironia, tutto questo non può che affascinare e farcela seguire cercando di capire fin dove può spingersi. Warm Chris è l’album variegato, spiazzante, bizzarro e magistrale e che ci aspettavamo da un’artista assolutamente unica. La conclusiva “Leathery Whip” è esplicativa della sua capacità di scrittura.
C’è questa scena, bellissima, evocativa, che trasfigura i codici del jazz senza intaccarne lo spirito e la missione. C’è questa etichetta mirabolante che si chiama International Anthem, nata in un importante crocevia di suoni come Chicago, una sorta di famiglia dove moltissimi artisti talentuosi hanno trovato una casa accogliente. Un po’ di nomi? Rob Mazurek, Jeff Parker, Makaya McCraven, Angel Bat Dawid, la compianta Jaimie Branch, Damon Locks con il suo Black Monument Ensemble, Ben LaMar Gay, Tom Skinner, Dezron Douglas e altri. Tra gli “altri” c’è anche il Gus Fairbairn che incide dischi dietro lo pseudonimo di Alabaster DePlume. Fairbairn è un compositore, sassofonista, attivista e oratore nato a Manchester e residente a Londra. ha un’attività regolare presso il leggendario centro creativo londinese Total Refreshment Centre, e registrava per l’etichetta scozzese indipendente Lost Map prima di arrivare nella crescente famiglia di esploratori musicali della International Anthem.
Gold – Go Forward in the Courage of Your Love , che troviamo al #26, è il secondo lavoro inciso per l’etichetta chicagoana dopo il successo del precedente To Cy & Lee: Instrumentals Vol. 1. DePlume, grazie all’aiuto dei suoi amici del Total Refreshment Centre e del lavoro del produttore londinese Kristian Craig Robinson, mette a punto diciannove tracce che ne definiscono la poetica da “cantautore con il sassofono” solo parzialmente imparentata con il jazz. Umori diversi, testi intimi e impegnati socialmente declamati su un tappeto sonoro dalle mille sfumature dal folk al dub, dall’afro-jazz al soul. Un visionario peccatore che ci parla con serenità della fragilità umana. Un disco avvolgente ed emozionante, settanta minuti avventurosi e bellissimi.
Straordinario personaggio Tim Gane. Dai sottovalutati McCarthy all’incontro (durante le registrazioni dell’ultimo album della band) con Lætitia Sadier che porterà alla fondazione di uno dei gruppi più importanti ed imitati: gli Stereolab. La visione sonora di Gane ha sempre oscillato tra psichedelia e kraut, trovando uno sfogo naturale negli splendidi Cavern Of Ant-Matter, con cui è riuscito a modellare un ideale universo retro-futurista. I Dymaxion sono stati un gruppo sperimentale di New York composto da Jeremy Novak e Claudia Newell, che ha registrato e suonato tra il 1995 e il 2002. La loro musica era in gran parte basata su campioni con temi retrofuturistici ed è stata spesso paragonata agli Stereolab e ai Pram. Insomma, era destino che prima o poi dovesse esserci una collaborazione tra i due anche se le cose non erano facili visto che Novak è residente a New York e Gane a Berlino.
Dopo l’uscita del primo 7″ nel 2020 sembrava imminente anche l’uscita dell’album a nome Ghost Power (al #25 di questa classifica) ma la pandemia ha reso tutto più complicato prolungando l’attesa fino a fine Aprile 2022. La maggior parte delle tracce sono state registrate tramite uno scambio di files in remoto, poi Novak è riuscito a recarsi nello studio di Gane a Berlino per una decina di giorni completando il grosso del lavoro. Il risultato non delude le attese, un colorato agglomerato di suoni insieme futuristici e retrò, illuminandoci con la loro energia in mezzo a sintetizzatori, sequencer, vibrafoni, Moog, drum machines, portandoci nel fantastico mondo tra kraut, ritmi frenetici e psichedelia (di cui la “Grimalkin” inserita in scaletta è un fulgido esempio) di cui i due conoscono ogni remoto angolo. Il tutto chiuso dai 15 minuti più riflessivi di una “Astral Melancholy Suite” che apre nuovi orizzonti cosmici ed indefiniti del loro percorso sonoro.
“Scrivere canzoni, per me, è come scolpire. Nasce da una parola, un’emozione o un suono iniziale, che poi costruisco, modellandolo in una forma più raffinata, incollata in una struttura artificiale. Altre volte il mio ruolo è quello di scrostarla, raschiarne l’esterno, per rivelare il suo stato naturale e la sua parte all’interno del tutto.” Così si presenta la cantautrice, chitarrista e produttrice di Montréal Vicky Mettler, al suo esordio per l’etichetta Constellation sotto il nome di Kee Avil. La Mettler combina chitarra, voce, elettroacustica e produzione elettronica per creare assemblaggi di canzoni che sembrano collassare da un momento all’altro ma che allo stesso tempo riescono ad evolversi come resina appiccicosa che raccoglie e disperde elementi disparati lungo il suo percorso.
Non è affatto un ascolto facile quello di Crease, un album (che si posiziona al #24) dove Kee Avil concretizza la sua musica in una chitarra post-punk lavorata a cesello, in un’elettronica sinuosa di fascia bassa, in una tavolozza di microcampionamenti organici e digitali che creano ritmi alternati e propulsivi, e nell’intimità ansiosa del suo lirismo e della sua voce finemente lavorati. Canzoni che non lasciano molto spazio alla melodia, che spiazzano non appena sembra che abbiamo trovato una direttrice. Tra post-punk, electro-industrial e avant-pop, quelle di Vicky Mettler sono canzoni contorte, finemente lavorate, meticolosamente assemblate e pronte a celare la realtà come la maschera indossata sulla copertina dell’album. Un album destabilizzante e sperimentale ma allo stesso tempo estremamente intrigante come dimostra la “See, My Shadow” inserita in scaletta.
Al #23 troviamo un album che si è dimostrato un affascinante viaggio tra jazz, psichedelia e suggestioni kraut. Quando l’ufficio stampa della Drag City mi ha chiesto di occuparmi della recensione di questo album, il mio primo pensiero è stato quello di un progetto estemporaneo nato e sviluppato nel corso della pandemia. In realtà Oren Ambarchi, Johan Berthling e Andreas Werliin si sono incontrati all’interno dello Studio Rymden, in un tranquillo e grazioso quartiere periferico di Stoccolma, nel novembre del 2018, dando vita alle sessions che solo adesso vedono la luce sotto il nome di Ghosted. Il trio è entrato in studio per approfondire il processo di pensiero a cui erano giunti nella seconda collaborazione tra Ambarchi e Berthling intitolata Tongue Tied e uscita nel 2015. Dato che Werliin aveva mixato quell’album, ed era già stato intimamente coinvolto nel processo, è stato più che naturale farlo sedere dietro ai tamburi. Il risultato è una sorta di lunga jam session divisa in quattro parti, intitolate seguendo la sequenza in numeri romani, dove basso e batteria creano dei pattern ritmici reiterati con minimi spostamenti e calibrate variazioni sul tema.
Il brano scelto è stato “I”, dove la linea di contrabasso di Berthling viene subito raddoppiata dal donso n’goni del leggendario clarinettista svedese Christer Bothén, che fece conoscere già cinque decadi fa le meraviglie dello strumento a corde africano a Don Cherry, nonché collaboratore (quasi) abituale di Mats Gustafsson (sassofonista degli stessi Fire!). Ghosted, nonostante il pedigree di sperimentatori dei tre, è tutto tranne che un album ostico, un dialogo crepuscolare tra musicisti, l’attenta cura dello spazio dei suoni e dell’importanza del silenzio, le ripetizioni perfettamente calibrate dove le improvvisazione riescono ad incastrarsi perfettamente. Un disco crepuscolare di grande fascino. Unico neo, la difficile reperibilità dell’album, uscito fisicamente solo in edizione limitata in vinile.
Un anno dopo l’uscita dell’ apprezzato album di debutto Moot!, ecco tornare in grandissima forma e posizionarsi al #22 i Moin. La band formata da Joe Andrews e Tom Halstead dei Raime ha trovato la perfetta quadratura del cerchio con l’ingresso della straordinaria Valentina Magaletti (Tomaga, Vanishing Twin, Holy Tongue) dietro i tamburi. Paste attinge influenze da parecchia musica alternativa per chitarra del passato (soprattutto degli anni 90) nelle sue molteplici forme, dal post-rock, al post-punk ad un hardcore evoluto, utilizzando manipolazioni elettroniche e tecniche di campionamento per ridefinirne il contesto, senza fissarsi su un unico stile ma muovendosi attraverso di esso alla ricerca di nuove connessioni.
Esplorando queste relazioni, il trio riesce ad offrire una sorta di collage di conosciuto e sconosciuto, punteggiato da testi che a volte sembrano semplicemente recitate in maniera esangue come fossero dei novelli Slint. Tensioni portate al limite dell’implosione, una continua ricerca sonora che porta alla ricerca di un linguaggio nuovo pur con le basi ben salde su un universo stilistico che è quello, ben identificabile, del post-rock anni ’90, più Louisville che Chicago. Una riproposizione mai pedissequa ma in continua mutazione che ha portato Paste, meritatamente, molto in alto in molte playlist del 2022, compresa questa. La “Knuckle” inserita nel podcast è una delle tracce meglio riuscite del disco.
Come sapete benissimo l’hip-hop non è sicuramente il mio “ambito di competenza” (ammesso e non concesso che io ne abbia uno…), ma ogni tanto ci sono lavori ascrivibili nel genere (come Sound Ancestors di Madlib lo scorso anno) che riescono a colpirmi in maniera particolare, tanto da salire fino al #21 della mia classifica. In ogni caso nel corso degli anni il lavoro di Brian Burton aka Danger Mouse è stato piuttosto trasversale, visto che dopo l’esordio con gli Gnarls Barkley ha collaborato come musicista e come produttore insieme a Black Keys, Norah Jones, Jack White, Sparklehorse, Parquet Courts, Red Hot Chili Peppers e Michael Kiwanuka, oltre ai Danger Doom creati insieme al compianto Daniel Dumile aka MF DOOM. Tariq Trotter aka Black Thought è un’istituzione del genere visto che da sempre è voce dei The Roots.
La prima idea per un album collaborativo è scattata nella mente dei due musicisti nel 2017 ma Cheat Codes, tra i vari impegni dei due e la solita pandemia di mezzo, ha visto la luce solo nell’agosto del 2022. L’album vede le collaborazioni di una sorta di dream team: Raekwon & Kid Sister, Michael Kiwanuka nella straordinaria “Aquamarine” inserita in scaletta, A$AP Rocky & Run The Jewels”, Joey Bada$$, Russ & Dylan Cartlidge, Conway the Machine, campionamenti sempre centratissimi (tra cui uno del gruppo prog italiano Biglietto Per L’Inferno) e perfino un contributo postumo di MF DOOM. Le basi e i campioni di Danger Mouse si sposano perfettamente con la metrica e il flow impareggiabile di Black Thought, dando vita ad un album estremamente riuscito, di grande ispirazione e di enorme classe.
Cosa dire di un personaggio come José Medeles. Musicista e autore nato a Portland, Oregon, dove la passione per il suo strumento principe lo ha portato ad aprire nel 2009 il Revival Drum Shop, un negozio dedicato alle batterie vintage e personalizzate. Attualmente dirige il 1939 Ensemble, un quartetto di batteria, vibrafono, tromba e chitarra. Medeles ha collaborato, dal vivo o in studio con una quantità enorme di artisti tra cui The Breeders, Kim Deal, Ben Harper, Joey Ramone, Modest Mouse, Mike Watt, Scout Nibblet, CJ Ramone e tanti altri. La passione per il folk-blues oscuro di un personaggio iconoclasta come John Fahey lo ha portato a Vancouver per registrare una sorta di tributo al modo di concepire la musica del misantropo chitarrista.
Railroad Cadences & Melancholic Anthems, capace di inerpicarsi fino alla posizione #20, in realtà non è un disco di cover, ma contiene una serie di brani ispirati dalle composizioni di Fahey ed interpretati da tre diversi chitarristi che si intrecciano con le soluzioni ritmiche di Medeles. Insieme al batterista suonano M. Ward, che da ai brani un taglio quasi cantautorale, la chitarrista sperimentale Marisa Anderson e Chris Funk (Decemberists, Stephen Malkmus). Il disco è straordinario, intenso e pervaso da quell’aura mistica tipica delle composizioni di Fahey, e Marisa Anderson si conferma come artista capace con pochi e sapienti tocchi delle sue sei corde, di visualizzare evocativi luoghi della mente e panorami minimalisti, con la sua capacità di rinvigorire la tradizione country-blues-folk. “Please Send To J.F.” è un brano assolutamente straordinario tratto da un disco da non perdere se siete addentro alla materia folk-blues.
Keeley Forsyth nasce come attrice di teatro, salvo poi partecipare a numerose serie tv britanniche. Ma è sempre stata un’artista a 360 gradi, appassionata di poesia e di musica, si è ritrovata a cantare i suoi versi accompagnandosi da uno scheletro musicale. Profondamente ancorata alla realtà e al dramma quotidiano dell’esistenza, Keeley, insieme al compositore Matthew Bourne, aveva dato alle stampe nel 2020 il suo album di esordio intitolato Debris, convincendo critica e pubblico grazie ad una voce profonda che ricorda echi di Nico e Scott Walker e agli arrangiamenti minimali ma di grande profondità. la magia si è ripetuta nel 2022 con il suo secondo disco, intitolato Limbs, così uguale ma così diverso e capace di arrivare al #19 della classifica di Sounds & Grooves.
Stavolta c’è il polistrumentista Ross Downes accanto a Keeley, ed il suo sapiente uso dell’elettronica crea una potente visione amplificata dalla disperazione delle paure e dei traumi quotidiani dei versi della Forsyth. Arrangiamenti apparentemente fragili e una voce che scandaglia l’animo umano, una sinergia che affascina e avvolge come nella splendida “Wash” inserita in scaletta. Limbs è senza dubbio uno degli album più interessanti usciti nel 2022.
Il duo che troviamo al #18 a fine 2020 aveva pubblicato uno splendido EP intitolato Tell Me Your Mind And I’ll Tell You Mine. Loro vengono da Liverpool e si fanno chiamare King Hannah. Il suono creato da Craig Whittle e Hannah Merrick si può ricondurre a quello degli Opal e di rimbalzo dei Mazzy Star, permeato da una vena psichedelica e dalla capacità di condire il tutto con echi ipnotici e suggestivi. Se siete orfani della coppia David Roback e Hope Sandoval troverete sicuramente pane per i vostri denti. Ma i due ragazzi non percorrono semplicemente sentieri già battuti. Fortunatamente ci mettono molto del loro. La Merrick ha una voce straordinaria e Whittle, che sembra avesse già intuito le capacità della sodale già molto tempo prima dell’effettiva unione artistica, è capace di pennellare sapienti tocchi di chitarra dove serve per poi lasciarsi andare quando arriva il momento.
Dopo la mezz’ora di musica di Tell Me Your Mind And I’ll Tell You Mine erano alte le aspettative per il primo album vero e proprio. L’uscita di I’m Not Sorry, I Was Just Being Me fortunatamente non ha tradito le attese, anzi. Il mood intrigante del disco procede sul solco dell’EP di esordio, migliorando, se possibile, la scrittura con il loro suono ipnotico e scuro, le battute lente, le scorribande chitarristiche improvvise come quella che trovate nella splendido saliscendi emozionale di “It’s Me And You, Kid” che ho scelto per rappresentare il disco. I più critici diranno che i due mettono in campo ben poche novità, ma chi al giorno d’oggi fa cose davvero nuove? E chi sa scrivere canzoni che funzionano così bene. L’album da subito era già candidato come uno dei migliori del 2022, e se i due di Liverpool sapranno continuare su questi binari e crescere ulteriormente ne sentiremo delle belle.
.
Lo ammetto, mi sono avvicinato agli equilibrismi sonori dei Kamikaze Palm Tree con colpevole ritardo. Il duo di San Francisco formato da Cole Berliner (chitarra e tastiere) e Dylan Hadley (batteria e voce) hanno esordito nel 2016 con The Hand Faces Upwards , un mini album uscito solo in digitale, per poi arrivare solo tre anni fa al primo disco vero e proprio, l’intrigante Good Boy che ha fatto drizzare le antenne a quelli della Drag City, pronti a metterli sotto contratto e a pubblicare in questo caldo agosto il secondo lavoro intitolato Mint Chip. Sicuramente deve aver influito per l’approdo all’etichetta di Chicago, la raccomandazione di Tim Presley, che con uno sguardo compiaciuto da dietro al mixer, ha messo mano alla registrazione dell’album. Non è un caso che la Hadley abbia suonato la batteria sull’ultimo White Fence, condividendo con il suo mentore l’amore per gli slanci sperimentali e le melodie oblique.
La freschezza lo-fi delle loro tracce più irresistibili e spericolate ci fa ritrovare una libertà espressiva tra art rock, psichedelia e new wave che sembrava persa. L’album si rivela subito come un caleidoscopico gioco di incastri tra brani compiuti di grande freschezza lo-fi come l’irresistibile “The Hit” inserita nel podcast, e brevi intermezzi guidati dalle tastiere da Berliner che con ironia quasi da videogame anni ’80 si sposano perfettamente con l’immagine colorata ed irriverente dei due. I Kamikaze Palm Tree si allontanano dal suono più scuro dei primi lavori, dimostrandosi maestri nella creazione di canzoni solo apparentemente spigolose e sperimentali. In realtà è la loro abilità nel plasmare a proprio piacimento la materia lo-fi che gli permette di smussare gli angoli più rumorosi e taglienti. Insomma, Mint Chip è un disco che affascina e coinvolge, una delle novità più sorprendenti uscite nel corso del 2022.
Concludiamo il podcast con una band che conferma la propria continua evoluzione sonora posizionandosi al #16 della mia Playlist. Nel 2020, a corollario della mia recensione di Two Hands scrivevo così dei Big Thief: “Dopo il grande successo di critica e pubblico con U.F.O.F. la band di Brooklyn ha rischiato grosso facendo uscire due album così ravvicinati. Ma a conti fatti si può dire che la pubblicazione di Two Hands fa vincere loro la sfida, e se continueranno su questo solco non avranno problemi a ritagliarsi un ruolo di primo piano nel panorama folk-rock”. Due anni dopo, con una pandemia in mezzo, si può ben dire che Adrianne Lenker (voce e chitarra), Buck Meek (chitarra e cori), Max Oleartchik (basso), e James Krivchenia (batteria) sono riusciti davvero a ritagliarsi un ruolo di primissimo piano, e non semplicemente nel panorama folk-rock.
Dragon New Warm Mountain I Believe In You è un monolite di ben 80 minuti abbondanti di durata, dove il quartetto di Brooklyn trova sfogo al proprio spirito selvaggio ampliando il proprio linguaggio musicale e registrando in quattro diverse locations (da New York al Colorado, passando per la California e l’Arizona) 20 tracce che mostrano un orizzonte sonoro articolato e ben messo a fuoco. Dal folk-rock alla psichedelia, dal blues elettrico al country-rock con l’aiuto del violino di Mat Davidson, il quartetto fa all-in mostrando una maturità compositiva impressionante. Sembra di essere tornati indietro nel tempo, a quando veniva affidato ad un album doppio il compito di sancire l’avvenuta entrata di un artista nella storia. In sostanza Dragon New Warm Mountain I Believe In You è un album registrato quasi in presa diretta, che mostra la maturità di una band cresciuta enormemente nel saper gestire la propria capacità compositiva tra folk, pop, roots e la nuda interiorità dei testi.
Un grazie speciale va, come sempre, a Franz Andreani per la sua passione, la gestione di questa banda di pazzi e per la splendida riorganizzazione del sito già attiva da qualche anno. A cambiare non è stata solo la versione grafica del sito, ma anche la “filosofia” della podradio, con le rubriche che vanno ad integrarsi nella programmazione regolare sotto l’hashtag #everydaypodcast. Sulla nostra pagina Facebook troverete quotidianamente ogni upload del sito e, ormai da tempo, è attivo anche lo splendido canale YouTube della Radio, una nuova formula senza interruzioni ne spot per ascoltare la vostra-nostra musica preferita. Iscrivetevi numerosi, vi aspettiamo!
Nel prossimo episodio di Sounds & Grooves troverete l’attesissima seconda ed ultima parte del meglio del 2022 secondo l’insindacabile giudizio della nostra redazione (di cui, come sapete, faccio parte solo io ;-)…). Nel podcast potrete ascoltare gli artisti che occupano le posizioni dal #15 al #1, ma se siete troppo curiosi e non potete aspettare, allora cliccate su questo link. Il tutto sarà, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
Intanto se volete potete sfruttare la parte riservata ai commenti qui sotto per darmi suggerimenti, criticare (perché no), o proporre nuove storie musicali. Mi farebbe estremamente piacere riuscire a coinvolgervi nella programmazione e nello sviluppo del mio sito web.
Se volete ascoltare o scaricare il podcast, potete farlo anche dal sito della PodRadio cliccando sulla barra qui sotto. Buon Ascolto
TRACKLIST
01. RICHARD DAWSON: Museum da ‘The Ruby Cord’ (2022 – Weird World)
02. THE DREAM SYNDICATE: Beyond Control da ‘Ultraviolet Battle Hymns and True Confessions’ (2022 – Fire Records)
03. THE PLASTIK BEATNIKS: War Memoir (feat. Moor Mother) da ‘All Those Streets i Must Find Cities For’ (2022 – Alien Transistor)
04. ALDOUS HARDING: Leathery Whip da ‘Warm Chris’ (2022 – 4AD)
05. ALABASTER DePLUME: Don’t Forget You’re Precious da ‘Gold – Go Forward in the Courage of Your Love’ (2022 – International Anthem)
06. GHOST POWER: Grimalkin da ‘Ghost Power’ (2022 – Duophonic)
07. KEE AVIL: See, My Shadow da ‘Crease’ (2022 – Constellation)
08. OREN AMBARCHI-JOHAN BERTHLING-ANDREAS WERLIIN: I da ‘Ghosted’ (2022 – Drag City)
09. MOIN: Knuckle da ‘Paste’ (2022 – AD93)
10. DANGER MOUSE & BLACK THOUGHT: Aquamarine (feat: Michael Kiwanuka) da ‘Cheat Codes’ (2022 – BMG)
11. JOSÉ MEDELES: Please Send To J.F. (feat: Marisa Anderson) da ‘Railroad Cadences & Melancholic Anthems’ (2022 – Jealous Butcher Records)
12. KEELEY FORSYTH: Wash da ‘Limbs’ (2022 – The Leaf Label)
13. KING HANNAH: It’s Me And You, Kid da ‘I’m Not Sorry, I Was Just Being Me’ (2022 – City Slang)
14. KAMIKAZE PALM TREE: The Hit da ‘Mint Chip’ (2022 – Drag City)
15. BIG THIEF: Simulation Swarm da ‘Dragon New Warm Mountain I Believe In You’ (2022 – 4AD)