Tre straordinari musicisti alle prese con un dialogo sonoro notturno e profondo
“Ghosted” è un affascinante viaggio tra jazz, psichedelia e suggestioni kraut
Ci vorrebbero fiumi di inchiostro per snocciolare tutte le esperienze e le collaborazioni messe su da Oren Ambarchi, chitarrista e sperimentatore australiano. Tra psichedelia, minimalismo, suggestioni ambient e elettroniche il prolifico Ambarchi ha esplorato i più svariati mondi sonori da solo e con artisti del calibro di Jim O’Rourke, Sunn O))), Keiji Haino, Merzbow, Thomas Brinkmann, Attila Csihar, il nostro Stefano Pilia e molti molti altri. Johan Berthling e Andreas Werliin sono noti ai più come sezione ritmica dei Fire! (e della sua estensione Fire! Orchestra) ma anche loro hanno diverse collaborazioni alle spalle. Il primo con nomi noti della scena avant-jazz scandinava, il secondo insieme alla moglie Mariam Wallentin nello splendido progetto Wildbirds & Peacedrums. In realtà Ambarchi e Berthling si erano già trovati seduti nello stesso studio di registrazione, come duo nel 2003 e nel 2015, mentre nel 2012 la collaborazione con tutti i Fire! al completo aveva dato vita all’album In The Mouth – A Hand.
Il mio primo pensiero è stato quello di un progetto estemporaneo nato e sviluppato nel corso della pandemia, ma in realtà Oren Ambarchi, Johan Berthling e Andreas Werliin si sono incontrati all’interno dello Studio Rymden, in un tranquillo e grazioso quartiere periferico di Stoccolma, nel novembre del 2018, dando vita alle sessions che solo adesso vedono la luce sotto il nome di Ghosted. Il trio è entrato in studio per approfondire il processo di pensiero a cui erano giunti nella seconda collaborazione tra Ambarchi e Berthling intitolata Tongue Tied e uscita nel 2015. Dato che Werliin aveva mixato quell’album, ed era già stato intimamente coinvolto nel processo, è stato più che naturale farlo sedere dietro ai tamburi. Il risultato è una sorta di lunga jam session divisa in quattro parti, intitolate seguendo la sequenza in numeri romani, dove basso e batteria creano dei pattern ritmici reiterati con minimi spostamenti e calibrate variazioni sul tema.
Si inizia con “I”, dove la linea di contrabasso di Berthling viene subito raddoppiata dal donso n’goni del leggendario clarinettista svedese Christer Bothén, che fece conoscere già cinque decadi fa le meraviglie dello strumento a corde africano a Don Cherry, nonché collaboratore (quasi) abituale di Mats Gustafsson (sassofonista degli stessi Fire!). Le sue parti si sincronizzano come gli ingranaggi di un orologio, girando in fluida coordinazione con gli strumenti del trio in una sorta di aperta danza folk. “II” è un viaggio di quasi 10 minuti dove Ambarchi si appoggia alle solide reiterazioni della sezione ritmica per creare un flusso dove la chitarra tira fuori note di fuoco e vetro che si diffondono sopra la permutazione dei ritmi di Berthling e Werliin, pronti ad accentuare o a sfumare le variazioni astrali dell’australiano.
I ritmi si rallentano nelle atmosfere psichedeliche di “III”, dove è la chitarra di Ambarchi ad aprire le danze prima che il contrabasso di Berthling dia vita all’ennesimo loop chirurgico insieme ai tamburi che sembrano galleggiare nell’aria vista la leggerezza e la maestria del suo sodale nei Fire!. Ambarchi ha gioco facile nella sua improvvisazione, la sua chitarra viene fatta suonare con un tono simile a quello di un organo, che sembra seguire la luce che entrava dalle alte finestre dello Studio Rymden, ora pronta a seguire modelli di avanguardia, ora a prendere fattezze kraut rarefatte. Si dice che spesso sono i dettagli a fare la differenza, ed effettivamente a colpire sono proprio le piccole grandi variazioni dei tre intenti a modellare pazientemente le loro improvvisazioni minimali. La “IV” che chiude l’album è il brano più breve e rarefatto del disco. Una lenta processione nebbiosa che evoca immagini urbane notturne come lo scatto di Pål Dybwik scelto per rappresentare la parte visuale dell’album. Un campo da basket all’aperto, le luci che faticano a penetrare la nebbia per illuminare un giocatore solitario, i colpi scanditi da Werliin, il contrabasso che si fa strada nel muro si suoni di Ambarchi evocando alcune pagine dell’etichetta ECM e lasciando suggestioni nell’aria fredda della notte. L’unica nota negativa è rappresentata dalla conclusione del disco, che da l’idea di essere un po’ forzata.
Ghosted, nonostante il pedigree di sperimentatori dei tre, è tutto tranne che ostico, un dialogo crepuscolare tra musicisti, l’attenta cura dello spazio dei suoni e dell’importanza del silenzio, le ripetizioni perfettamente calibrate dove le improvvisazione riescono ad incastrarsi perfettamente. Un disco crepuscolare di grande fascino.
TRACKLIST
1. I 8:01
2. II 9:33
3. III 15:49
4. IV 4:44