Le avventure in musica di Sounds & Grooves continuano nella 16° Stagione di RadioRock.TO The Original
In questo episodio di Sounds & Grooves troverete una curiosa percentuale di gruppi formate da coppie: fratelli, sposi o semplici amici…
Sounds & Grooves è un appuntamento quindicinale che (spero) impreziosisce lo straordinario palinsesto di www.radiorock.to da ben 16 stagioni. A pensarci è pazzesco che sia passato già così tanto tempo da quando abbiamo iniziato questa folle ma fantastica avventura. Siamo una podradio nata per dare un segnale di continuità con il passato, con quella meraviglia che Franz Andreani, Marco Artico, Flavia Cardinali, Massimo Di Roma, Michele Luches, Aldo Semenuk, Giampiero Crisanti, Gianpaolo Castaldo avevano creato e a cui, nel mio piccolo, ho provato a dare un contributo dal 1991 al 2000. Sappiamo tutti benissimo che la Radio Rock in FM come la intendevamo noi è sparita da almeno due decenni, ma in tutti questi anni di podcast sul web abbiamo cercato di tenere accesa quella fiammella per poi tentare di moltiplicarla, facendola diventare un faro di emozioni e qualità musicale. Perché la passione e la voglia di fare radio, la voglia di ascoltare e di condividere la musica di qualità, nonostante tutto, non ci è mai passata. Questa creatura dopo 3 lustri continua orgogliosamente a remare controcorrente, cercando quella libertà in musica che nell’etere è ormai diventata una mosca bianca, ed esprimendo la passione per la condivisione, per la ricerca, per l’approfondimento. Non dobbiamo aderire ad una cieca linea editoriale che ormai spinge esclusivamente il pulsante Play dei servizi di streaming, ma ci lasciamo guidare semplicemente dal nostro cuore e dalla nostra passione. Fulvio Savagnone, Marco Artico, Giampiero Crisanti, Franz Andreani, Flavia Cardinali, Francesco Cauli, Ivan Di Maro, Fabio De Seta, Massimo Santori, Maurizio Nagni, Angie Rollino ed io proveremo a coinvolgervi con i nostri podcast regolari e con le rubriche tematiche di approfondimento, sperando di farvi sentire sempre di più parte di questa fantastica avventura.
Nel mondo attuale, dove tutto sembra di nuovo e sempre di più avvolto nella nube della pandemia e delle polemiche ad ogni costo, ogni cosa sembra che venga letta dietro ad una lente distorta. Dove sembrano mancare sempre di più parole e sentimenti come empatia, comprensione, solidarietà, buon senso e passione, dove sembrano esserci solo schieramenti ciechi e cattivi, proviamo nel nostro piccolo a portare le nostre emozioni. Emozioni di persone che rispettano ed amano una forma d’arte straordinaria. La musica ha spesso il potere terapeutico di guarire le anime, lenire in qualche modo il dolore, come una pozione magica, un incantesimo primordiale, facendoci fare viaggi immaginari di enorme suggestione emotiva, ed è questo il percorso che vogliamo seguire.
Il sesto viaggio della nuova stagione è un po’ particolare in quanto contiene in parte coppie: coppie di sposi, fratelli o anche semplicemente di amici. Ma non solo. Troverete anche qualche trio o gruppo più numeroso, con un minimo comune denominatore, che poi è tutto tranne che “minimo”: ogni band che ascolterete ha almeno un membro femminile al suo interno. Potete vederlo come una sorta di sensibilizzazione al fenomeno della violenza contro le donne e al femminicidio e probabilmente non sbaglierete, ma questo é anche un viaggio dal punto di vista musicale, non solo sociale. Ho voluto esplorare quella sottile e a volte scivolosa linea di confine tra psichedelia e shoegaze, in alcuni casi andando a trovare quello che è stato codificato come dream pop. Ma come nel sociale, tenderei ad abbattere una rigida suddivisione in generi per poterci abbandonare ad una visione musicale riflessiva, onirica e di grande sensibilità. La liquidità, la malinconia, la melodia, la capacità compositiva, una profonda intimità, ci prenderanno per mano e ci accompagneranno per tutta la durata di questo podcast in un flusso sognante ed immaginifico. Siete pronti? Con: Sorry, King Hannah, Penelope Isles, Beach House, Slowdive(band), Mazzy Star, Let’s Eat Grandma, Modern Studies, Young Marble Giants Official, Stereolab, PEAKING LIGHTS, Galaxie 500, Belle and Sebastian. Il tutto, come da 15 anni a questa parte, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
Seguite il nostro hashtag: #everydaypodcast
Download, listen, enjoy!!!
Prima di partire con questo viaggio in musica potete effettuare il download del podcast anche nella versione a 320 kb/s semplicemente cliccando sul banner qui sotto.
Iniziamo il podcast con un duo che viene dalla zona nord di Londra. la prima coppia in scaletta è quella formata da Asha Lorenz e Louis O’Bryen, due ragazzi che si sono conosciuti al liceo e che hanno iniziato a fare musica con il nome di Sorry nel 2014 postando le proprie creazioni sulla piattaforma SoundCloud. Dopo la pubblicazione di vari EP, nel 2020, dopo aver firmato un contratto con la Domino, grazie alla collaborazione di Lincoln Barrett (batteria) e Campbell Baum (basso), hanno registrato e pubblicato l’atteso debutto intitolato 925. Il disco è molto interessante ed è difficilmente inquadrabile in un singolo genere.
Le tredici tracce, composte in un ampio periodo temporale, scorrono benissimo nonostante l’apparente diversificazione tra loro. Dal pop alternativo all’indie rock con piccole pennellate di jazz e hip-hop, i due riescono a cambiare registro spesso, spiazzando piacevolmente l’ascoltatore. Le dinamiche imprevedibili dei Sorry colpiscono nel segno spesso e volentieri, trovando il climax nella splendida “Lies (Refix)” che chiude il lavoro. Lo scorso anno hanno pubblicato un nuovo interessante EP, allargando il gruppo a quintetto nella versione live con l’innesto anche del tastierista Marco Pini. Chissà il duo come riuscirà ad incanalare la propria personalità. In ogni caso, una band da tenere d’occhio.
Altro giro, altra coppia. Loro sono un duo che a fine 2020 ha pubblicato uno splendido EP, vengono da Liverpool e si fanno chiamare King Hannah. Il suono creato da Craig Whittle e Hannah Merrick si può ricondurre a quello degli Opal e di rimbalzo dei Mazzy Star, permeato da una vena psichedelica e dalla capacità di condire il tutto con echi ipnotici e suggestivi. Se siete orfani della coppia David Roback e Hope Sandoval troverete sicuramente pane per i vostri denti. Ma i due ragazzi non percorrono semplicemente sentieri già battuti. Fortunatamente ci mettono molto del loro. La Merrick ha una voce straordinaria e Whittle, che sembra avesse già intuito le capacità della sodale già molto tempo prima dell’effettiva unione artistica, è capace di pennellare sapienti tocchi di chitarra dove serve per poi lasciarsi andare quando arriva il momento.
Dopo la mezz’ora di musica dell’EPTell Me Your Mind And I’ll Tell You Mine erano alte le aspettative per il primo album vero e proprio. L’uscita di I’m Not Sorry, I Was Just Being Me fortunatamente non ha tradito le attese, anzi. Il mood intrigante del disco procede sul solco dell’EP di esordio, migliorando, se possibile, la scrittura con il loro suono ipnotico e scuro, le battute lente, le scorribande chitarristiche improvvise come quella che trovate nella splendido saliscendi emozionale di “All Being Fine” che ho scelto per rappresentare il disco. I più critici diranno che i due mettono in campo ben poche novità, ma chi al giorno d’oggi fa cose davvero nuove? E chi sa scrivere canzoni che funzionano così bene. L’album è già candidato come uno dei migliori dell’anno in corso, e se i due di Liverpool sapranno continuare su questi binari e crescere ulteriormente ne sentiremo delle belle.
La vocazione indie pop scorre sempre molto potente nel DNA della famiglia Wolter. I fratelli Jack e Lily, sotto il nome di Penelope Isles, hanno pubblicato a fine 2021 il loro secondo album Which Way To Happy, registrato da un nome importante come Dave Fridmann (Flaming Lips, MGMT). Il disco è il primo per l’etichetta Bella Union e vede i due fratelli originari dell’Isola di Man ma residenti a Brighton alle prese con un appiccicoso miscuglio di dream-pop, ondate psichedeliche e techno-wave, un suono indie che prende qualcosa da band come Grizzly Bear.
L’album vede un deciso passo avanti dal punto di vista compositivo rispetto al suo predecessore, con il pop che si fa più riflessivo acquistando profondità con l’aggiunta qua e la di un arrangiamento di archi. La sognante e malinconica “Sailing Still” è la perfetta fotografia dell’attitudine frizzante e stralunata dei fratelli britannici. Un disco indie-pop senza grosse pretese ma che risulta estremamente piacevole.
Dopo i fratelli andiamo a trovare una coppia vera e propria, sul palco e nella vita. Da Baltimora arrivano i coniugi Victoria Legrand e Alex Scally, più conosciuti sotto il nome di Beach House. I due avevano già quasi pubblicato un album doppio nel 2016, visto che Depression Cherry e Thank Your Lucky Stars erano usciti a stretto giro di posta. Dopo una compilation di inediti intitolata B-Sides and Rarities. nel 2018 è stata la volta di 7 alla cui realizzazione aveva collaborato Peter “Sonic Boom” Kember degli Spacemen 3. Stavolta, a cavallo tra 2021 e 2022, i Beach House hanno pubblicato il loro nuovo (stavolta davvero doppio) album in quattro parti. Once Twice Melody è arrivato ai nostri padiglioni auricolari con le uscite scaglionate solo in streaming, mentre il supporto fisico è arrivato solo più tardi, distribuito come sempre da Bella Union in Europa e da Sub Pop negli USA.
Stavolta Legrand & Scally hanno deciso di autoprodursi, facendosi aiutare (molto raramente) negli 80 minuti di musica da assi del mixer come Alan Moulder e Dave Fridmann. Molti trovano stucchevole e ripetitivo il loro placido ed apparentemente immutabile dream-pop. In realtà ho sempre trovato la loro levigata proposta estremamente affascinante. In questo nuovo album tentano di cambiare il contrasto del loro bianco e nero, avvalendosi di una sezione di archi per creare le loro combinazioni suggestive. Le quattro facciate sembrano essere una sorta di bignami di tutta la loro creatività ed energia. Ascoltate la meravigliosa “Once Twice Melody” e verrete avvolti ancora una volta da un’aura di shoegaze sognante.
L’attitudine intimista e introversa di alcune band agli albori degli anni 90, gli aveva fatto guadagnare l’appellativo (non certo benevolo in realtà) di shoegazers. Nel 1991 la Creation Records, pubblicando Loveless dei My Bloody Valentine e Just For A Day degli Slowdive aveva letteralmente aperto un nuovo mondo. I due gruppi erano i due lati della stessa medaglia, più sferzanti i primi, più meditativi i secondi. Due anni dopo la situazione per Neil Halstead e Rachel Goswell non era semplice. Dovevano da una parte confermare il successo dell’esordio, dall’altro soddisfare la Creation Records, che dopo essere stata lasciata in bolletta da Kevin Shields, voleva dagli Slowdive un album facile da promuovere, radiofonico e commerciabile. Inoltre, last but not least, i due dovevano fare i conti con la fine della loro relazione sentimentale.
La collaborazione con Brian Eno non fu abbastanza per Halstead, che non resse a lungo allo stress in sala di registrazione rifugiandosi da solo in un cottage nel Galles. Il secondo album, Souvlaki, come detto ha avuto una gestazione tutt’altro che semplice, con il chitarrista pronto a prendere da solo le redini del gruppo. Gli arrangiamenti si fanno più semplici, ma le visioni allucinatorie del leader (le sue allusioni all’uso di sostanze stupefacenti sono abbastanza chiare nei testi) portano i brani su una dimensione onirica, come nella splendida e visionaria “Machine Gun” inserita in scaletta. Neil e Rachel rimarranno insieme, fondando i Mojave 3. Gli Slowdive torneranno insieme parecchi anni dopo, pubblicando un nuovo album nel 2017.
Come detto poco fa, alla fine dell’esperienza Slowdive, il cantante-chitarrista Neil Halstead e la bassista-cantante Rachel Goswell, crearono una nuova entità insieme al batterista Ian McCutcheon. I tre scelsero il nome di Mojave 3 per abbandonare in qualche modo i feedback della corrente shoegaze per abbracciare un suono più morbido ed etereo, una musica fuori dal tempo, visto che nel 1995 erano ben altre le musiche che andavano di moda: il brit-pop, il grunge o il trip-hop. Il loro debutto, Ask Me Tomorrow, venne pubblicato dalla 4AD, colpendo la critica con le canzoni scritte da Halstead che si muovevano lentamente in maniera estremamente suggestiva, il mood degli Slowdive sviluppato senza elettricità abbracciando una sorta di folk e country alternativo ed introverso. Tre anni più tardi l’ingresso nel gruppo della chitarra di Simon Rowe e delle tastiere di Alan Forrester, insieme ai mirati innesti di fiati e pedal steel rese Out Of Tune un album più variegato e solare.
Nel 2000 per il terzo album i Mojave 3 non cambiano formazione e con Excuses For Travellers trovano la perfetta quadratura del cerchio. Il disco contiene alcune delle più ambiziose e riuscite composizioni di Halstead, canzoni eleganti che alternano malinconia e solarità. “When You’re Drifting” è uno delle perle contenute in questo magico scrigno. Se vogliamo cercare il pelo nell’uovo, le note negative sono l’apporto sempre più limitato della Goswell come voce solista e una copertina non propriamente accattivante. Tra album solisti e altri progetti, i Mojave 3 pubblicheranno altri due album senza però raggiungere le vette dei primi tre lavori.
Nove anni fa c’è stato il ritorno di una band dopo ben 17 anni di silenzio. Non che le reunion siano al giorno d’oggi un fatto straordinario, ma differentemente da altri, il comeback dei Mazzy Star di Hope Sandoval e David Roback è stato più che dignitoso. Nel 1987 a Pasadena, durante un tour degli Opal con i The Jesus and Mary Chain, Kendra Smith (già nei Dream Syndicate), bassista e cantante della band, decide di far perdere le proprie tracce. Il chitarrista David Roback (pioniere del Paisley Underground insieme al fratello Steven nei fantastici Rain Parade) chiama allora a sostituirla una giovane cantautrice di cui aveva prodotto il disco d’esordio, Hope Sandoval. La nuova sinergia funziona talmente bene che Roback decide di lasciare gli Opal e di formare, con la Sandoval, un nuovo gruppo: i Mazzy Star.
La band unisce la passione per l’indie rock più narcolettico e il folk con il proprio passato legato alla scena Paisley Underground. Il pop rock onirico del gruppo diventa capolavoro con il secondo album So Tonight That I Might See, registrato e pubblicato nel 1993 con l’ausilio di Jason Yates al basso e del compianto Keith Mitchell dietro ai tamburi. La malinconia e la dimensione sognante la fanno da padrona, un rifugio sicuro dai clamori del grunge che sta per esplodere, come nella meraviglia di “Fade Into You”, dove la voce della Sandoval si fa largo stordendoci dolcemente tra le tessiture dilatate della chitarra di Roback. Proprio David Roback è venuto a mancare nel febbraio 2020 lasciando l’eredità di un suono riconoscibile, di aver innervato di meraviglia il Paisley Underground e di averci fatto sognare con le sue atmosfere impreziosite dalla voce di Hope Sandoval.
Dietro al moniker di Let’s Eat Grandma , si nascondono due ragazze di Norwich, Rosa Walton e Jenny Hollingworth. Amiche inseparabili da una vita, Rosa e Jenny sono anche incredibilmente somiglianti, e non a caso il loro esordio discografico, avvenuto nel 2016 quando le due avevano appena compiuto diciassette anni, si intitola I, Gemini. Sotto le loro narcotiche melodie suonati dagli strumenti più disparati (dall’ukulele al sax, fino al glockenspiel), le due raccontano filastrocche psych-pop dal fascino romantico che si appiccicano come melassa. Le due affrontano la stesura del disco come fosse un gioco, tra torte al cioccolato, battimani, giochi di parole e carillon, e divertendosi ci portano per mano in un immaginario sonoro e visivo nuovo e originale.
Ascoltate “Deep Six Textbook”, scelto anche come primo singolo, una lenta nenia fluttuante, che attraversa strati e strati di synth in un mondo notturno ai confini del trip-hop. Ascoltatele se credete ancora nel potere delle fiabe. Due anni dopo le ragazze sono tornate lasciando da parte gli strumenti giocattolo per una produzione più moderno. Il suono di I’m All Ears risulta meno sorprendente e più stucchevole dell’accattivante esordio, ma le due sono giovani, e con il loro talento possono sicuramente rimettersi in carreggiata. Il 29 aprile è prevista l’uscita del terzo capitolo, intitolato Two Ribbons. Le amiche di Norwich riusciranno a tornare ai livelli dell’esordio?
Dalla contea scozzese del Perthshire a quella del Lancashire, nord-ovest dell’Inghilterra, passando per Glasgow. In queste coordinate geografiche si muove lentamente il folk-rock pieno di riferimenti kosmische di un quartetto chiamato Modern Studies, che con The Weight Of The Sun giunge ad un ideale lavoro della maturità dopo aver affilato le proprie armi con i precedenti Swell To Great (2016) e Welcome Strangers (2018). La band è formata da Emily Scott (voce, organo, piano, contrabbasso, violino, synths), Rob St. John (voce, chitarra, synths, harmonium, autoharp), Pete Harvey (basso, tastiere, violino, violoncello, theremin) e Joe Smillie (batteria, percussioni, mellotron, cori), con i primi due a tracciare la traiettoria ideale del percorso del quartetto con le loro voci sovrapposte.
A colpire, in questo album dei Modern Studies, sono gli arrangiamenti, sofisticati ma mai pesanti. E se all’inizio il raddoppiare e sovrapporre le voci può sembrare una pratica straniante ai non avvezzi alle produzioni della band, dopo ripetuti ascolti è una modalità che diventa sempre più imprescindibile. “Signs Of Use” è uno dei brani migliori con i suoi momenti di stasi, la batteria che sembra in secondo piano ma che è sempre capace di far sobbalzare, le voci che si inseguono, i cori paradisiaci ed evocativi, ed uno stacco di archi e fiati a metà brano semplicemente straordinario. Questo splendido album probabilmente non basterà per farsi apprezzare dal grande pubblico ma sicuramente sarà abbastanza per chi, come noi, ama farsi scaldare il cuore da queste piccole grandi magie senza tempo.
Siamo a Glasgow nel 1995. Lo studente Stuart Murdoch lavora come custode in una chiesa per raggranellare qualche sterlina, il suo obiettivo è quello di creare una band e per farlo al meglio cerca anche di incontrare il suo idolo indiscusso Lawrence Hayward, il cantante dei Felt. Nella capitale britannica non riesce ad trovare Hayward, ma in compenso, tornato a Glasgow, incontra il bassista Stuart David ed i due iniziano a creare il nucleo dei Belle And Sebastian. Il nome era stato preso in prestito dal libro per ragazzi omonimo della scrittrice francese Cécile Aubry, che raccontava le avventure del piccolo Sébastien e del suo cagnone Belles. Nel frattempo l’accattivante indie-pop dei due aveva fatto drizzare le antenne della Jeepster, piccola etichetta britannica.
Ai due si aggiungono presto Isobel Campbell al violoncello e voce, Stevie Jackson alla chitarra, Chris Geddes alle tastiere, Richard Colburn alla batteria, Mick Cooke alla tromba e Sarah Martin al violino. Grazie ad un corso di “Music Business” allo Stow College di Glasgow, la band vince la possibilità di incidere un singolo per l’etichetta del college, la Electric Honey. In realtà il singolo diventa presto un intero album, Tigermilk che dopo poco inizia a fare breccia nei cuori di chi ama quel folk-pop un po’ malinconico ed un po’ retrò che è tipico di alcuni gruppi del nord della Gran Bretagna. L’incontro-scontro tra sogno e realtà si materializza ancora più concretamente con il secondo album. If You’re Feeling Sinister viene pubblicato nel 1996 e colpisce a fondo per l’abilità di Murdoch e compagni di seguire le curve del cuore, romantici e scanzonati, capaci di scrivere pagine splendide come la vivace “Seeing Other People” inserita nel podcast. Per i timidi componenti de gruppo sarà solo il primo passo verso un meritato successo.
Gli Young Marble Giants si formano a Cardiff, Galles, formati dai due fratelli (o cugini? non sono mai stato in grado di capirlo con chiarezza…) Moxham, Stuart chitarra e organo e Phil al basso, e la cantante Alison Statton. I tre sono stati sempre associati, a torto o a ragione, al movimento post-punk, ma naturalmente il loro approccio alla materia era molto diverso da quello che di solito viene associato a quel genere. I tre amavano togliere piuttosto che aggiungere, ma la tesi di partenza era in ogni caso la stessa: l’odio per qualsiasi musica suonasse barocca e per gli assoli interminabili. Il loro è stato una specie di miracolo, lodato dalla critica e diventato presto oggetto di culto, tanto che la loro reunion on stage nel 2007 è stata, giustamente, un enorme successo.
E’ un post punk minimale quello distribuito nelle quindici brevi canzoni che compongono il loro unico album Colossal Youth prima che l’EP Salad Days ne decretasse la fine. Melodie algide capaci di scavare un solco importante e liriche che narravano di adolescenza, alienazione, confusione guidate da una drum machine, dal basso importante di Philip, dall’organo di Stuart e dalla voce glaciale e quasi sussurrata di Alison Statton. “Searching For Mr Right” con il suo giro di basso, è un perfetto esempio della capacità dei tre di scrivere canzoni senza tempo. L’album è stato ristampato nel 2007 dalla Domino sia in versione doppio cd che in vinile, motivo in più per non perdersi questo pezzo della storia del rock.
Sicuramente influenti per i Mazzy Star sono stati il chitarrista Dean Wareham, il batterista Damon Krukowski e la bassista Naomi Yang, che dai banchi dell’università di Harvard si sono trasferiti sul palco sotto il nome di Galaxie 500. Nei loro quattro anni di attività, dal 1987 al 1991 hanno pubblicato tre album e soprattutto hanno comunicato in modo semplice e dimesso la malinconia ed il disagio di una generazione. Band di culto, diretti in studio da un produttore come Mark Kramer (ex Butthole Surfers e collaboratore di John Zorn) che creerà in parte il loro suono pieno di riverberi, i tre riprendono le atmosfere dei Velvet Underground dissanguandole e anestetizzandole, soprattutto nel loro album centrale e più riuscito, quell’On Fire da cui ho estratto la suggestiva “Decomposing Trees” con l’intervento del sassofono ad aggiungere tensione ed estasi sonora.
Il brano l’ho voluto condividere, non dall’album in studio, ma dal live Copenhagen, disco registrato nella capitale danese durante l’ultima data del loro ultimo tour europeo, il 1 dicembre del 1990. Nel disco i tre suonano da par loro anche tre cover della Plastic Ono Band, The Modern Lovers e dei Velvet Underground, a voler mostrare le proprie, splendide, radici. Dal loro suono nasceranno non solo i Mazzy Star, ma anche altre band slowcore come Low o Red House Painters, pervase dalla stessa lenta malinconia. Naomi Yang e Damon Krukowski continueranno la loro carriera più tardi in studio come Damon & Naomi, ma quella è un’altra storia.
Loro sono stati senza dubbio una delle band più importanti ed ispirate degli anni novanta. Nel 1988 Tim Gane è uno dei membri dei McCarthy, gruppo che, dopo un inizio a spron battuto, era sul punto di implodere. Durante un concerto dei McCarthy a Parigi, galeotto fu l’incontro con la cantante Lætitia Sadier, che, prima collabora con la band nel loro ultimo lavoro in studio, poi diventa partner in crime (e successivamente anche nella vita privata) di Tim Gane in una nuova formazione chiamata Stereolab. Il fatto di essere quasi opposti nei gusti musicali (kraut-rock e minimalismo per Gane, pop e musica leggera francese dei ’60 per la Sadier) più che un ostacolo diventa un vero e proprio trampolino di lancio per una delle formazioni più intelligenti, intriganti, ipnotiche ed imitate degli anni ’90 e non solo. I due creano una nuova etichetta, la Duophonic, anche se per le prime uscite faranno capo alla Too Pure, label fondamentale per la diffusione del post-rock britannico dei ’90 e per aver sdoganato il talento di PJ Harvey.
Anche gli Stereolab verranno inseriti nel calderone di gruppi come Pram, Moonshake, Laika, Long Fin Killie, ma avranno una carriera molto più lunga e un’importanza notevole su moltissimi gruppi per gli arrangiamenti psichedelici, il cantato pop spesso in francese della Sadier e il motorik ritmico. Dopo una prima fase che tocca il suo vertice con Transient-Random Noise Bursts With Announcements, album capolavoro che segna gli Stereolab come vera e propria band di riferimento dell’epoca, i due insieme a Duncan Brown (basso), la compianta Mary Hansen (chitarra e voce), Andy Ramsay (batteria) e Morgan Lhote (tastiere), con inserimenti del sax di Ray Dickarty e del vibrafono di John McEntire (Gastr Del Sol, Tortoise, Sea And Cake) danno vita ad una fase più accessibile rimanendo sempre nell’alveo della sperimentazione. Emperor Tomato Ketchup, il loro quarto lavoro, è estremamente esplicativo grazie alla sua componente melodica, che non va mai a scapito dell’eclettica visione sonora del gruppo. L’irresistibile ritmo funk di “Percolator” è perfetto nello stabilire le coordinate sonore di una band stratosferica. Dopo aver subito diversi colpi avversi della sorte nel 2002 con la tragica morte di Mary Hanson in un incidente stradale e la fine del rapporto sentimentale tra la Sadier e Gane, il gruppo ha continuato ad andare avanti fino al 2009, anno in cui è iniziato un periodo di pausa interrotto dieci anni dopo solo per riprendere l’attività live. Tim Gane recentemente ha fatto faville nel modellare con il suo progetto Cavern Of Anti-Matter, un universo retro-futurista, aperto a correnti cosmiche, derive kraut, incursioni psichedeliche e smaglianti aperture pop.
E se abbiamo iniziato questo podcast con un album particolare inciso da una coppia e intitolato 925, è giusto chiuderlo con un album intitolato 936 inciso da un’altra coppia, quella formata dai due coniugi californiani Aaron Coyes e Indra Dunis, più noti sotto il nome di Peaking Lights. Dopo i primi tre album in cui la coppia cercava di capire i propri limiti stilistici nel loro studio casalingo, nel febbraio del 2011 trovano la quadratura del cerchio con 936, disco registrato in maniera professionale e pubblicato dalla Not Not Fun (in USA) e dalla Weird World (in Europa) in cui il loro approccio lo-fi trova una forma compiuta con innesti kraut, dub e psichedelici. Un viaggio lisergico, un lungo trip acido in cui i due esprimono i loro riferimenti a natura, spiritualità e la numerologia che ha ispirato il titolo dell’album, il cui significato però non è stato mai svelato.
Musica per l’immaginazione, dove il pop psichedelico prende la forma di dub o reggae a seconda dell’inclinazione del sole californiano. Ritmi circolari, insistiti, un’esperienza sensoriale di ritmi e colori. Ritmi e bassi avvolgenti creati da Aaron Coyes, dove la voce di Indra Dunis galleggia, sguazza, va a fondo e riemerge. Ascoltate la circolarità trascinante di “All The Sun That Shines” e fatevi avvolgere dal microcosmo colorato dei Peaking Lights.
Un grazie speciale va, come sempre, a Franz Andreani per la sua passione, la gestione di questa banda di pazzi e per la splendida riorganizzazione del sito già attiva da qualche anno. A cambiare non è stata solo la versione grafica del sito, ma anche la “filosofia” della podradio, con le rubriche che vanno ad integrarsi nella programmazione regolare sotto l’hashtag #everydaypodcast. Sulla nostra pagina Facebook troverete quotidianamente ogni upload e la nuova rubrica #theoriginaltoday curata dalla new entry Giusy Chiara Meli che racconta cosa accadde nella storia della musica rock. Da un anno è attivo anche lo splendido canale YouTube della Radio, una nuova formula senza interruzioni ne spot per ascoltare la vostra-nostra musica preferita. Iscrivetevi numerosi, vi aspettiamo!
Nel prossimo episodio di Sounds & Grooves andremo ad esplorare la ricerca di una nuova identità da parte degli Idles, il rock “datato” ma coinvolgente degli Endless Boogie, il fantastico esordio discografico (dopo una lunghissima gavetta) degli straordinari One Arm, due tra le migliori uscite del 2021: Marc Ribot’s Ceramic Dog e Orchestre Tout Pouissant Marcel Duchamp. E ancora troveranno spazio i viaggi etnici dei Dirtmusic, lo splendido mutaforma Ryley Walker, il talento enorme del compianto David Berman con Silver Jews e Purple Mountains, la redenzione di Josiah Johnson, l’eleganza dei Sea And Cake e lo straordinario songwriting di Fiona Apple. Il finale è appannaggio del gran ritorno dei Fire! in forma strepitosa, e delle atmosfere notturne e quasi dubstep degli Space Afrika. Il tutto, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
Intanto se volete potete sfruttare la parte riservata ai commenti qui sotto per darmi suggerimenti, criticare (perché no), o proporre nuove storie musicali. Mi farebbe estremamente piacere riuscire a coinvolgervi nella programmazione e nello sviluppo del mio sito web.
Se volete ascoltare o scaricare il podcast, potete farlo anche dal sito della PodRadio cliccando sulla barra qui sotto. Buon Ascolto
TRACKLIST
01. SORRY: Lies (Refix) da ‘925’ (2020 – Domino)
02. KING HANNAH: All Being Fine da ‘I’m Not Sorry, I Was Just Being Me’ (2022 – City Slang)
03. PENELOPE ISLES: Sailing Still da ‘Which Way To Happy’ (2021 – Bella Union)
04. BEACH HOUSE: Once Twice Melody da ‘Once Twice Melody’ (2022 – Sub Pop)
05. SLOWDIVE: Machine Gun da ‘Souvlaki’ (1993 – Creation Records)
06. MOJAVE 3: When You’re Drifting da ‘Excuses For Travellers’ (2000 – 4AD)
07. MAZZY STAR: Fade Into You da ‘So Tonight That I Might See’ (1993 – Capitol Records)
08. LET’S EAT GRANDMA: Deep Six Textbook da ‘I, Gemini’ (2016 – Transgressive Records)
09. MODERN STUDIES: Signs Of Use da ‘The Weight Of The Sun’ (2020 – Fire Records)
10. BELLE AND SEBASTIAN: Seeing Other People da ‘If You’re Feeling Sinister’ (1996 – Jeepster Recordings)
11. YOUNG MARBLE GIANTS: Searching For Mr Right da ‘Colossal Youth’ (1980 – Rough Trade)
12. GALAXIE 500: Decomposing Trees (Live) da ‘Copenhagen’ (1997 – Rykodisc)
13. STEREOLAB: Percolator da ‘Emperor Tomato Ketchup’ (1996 – Duophonic/Elektra)
14. PEAKING LIGHTS: All The Sun That Shines da ‘936’ (2011 – Weird World)