Le avventure in musica di Sounds & Grooves continuano nella 16° Stagione di RadioRock.TO The Original
In questo episodio di Sounds & Grooves troverete molte cose che personalmente ho messo nella mia personalissima classifica del 2021
Sounds & Grooves è un appuntamento quindicinale che (spero) impreziosisce lo straordinario palinsesto di www.radiorock.to da ben 16 stagioni. A pensarci è pazzesco che sia passato già così tanto tempo da quando abbiamo iniziato questa folle ma fantastica avventura. Siamo una podradio nata per dare un segnale di continuità con il passato, con quella meraviglia che Franz Andreani, Marco Artico, Flavia Cardinali, Massimo Di Roma, Michele Luches, Aldo Semenuk, Giampiero Crisanti, Gianpaolo Castaldo avevano creato e a cui, nel mio piccolo, ho provato a dare un contributo dal 1991 al 2000. Sappiamo tutti benissimo che la Radio Rock in FM come la intendevamo noi è sparita da almeno due decenni, ma in tutti questi anni di podcast sul web abbiamo cercato di tenere accesa quella fiammella per poi tentare di moltiplicarla, facendola diventare un faro di emozioni e qualità musicale. Perché la passione e la voglia di fare radio, la voglia di ascoltare e di condividere la musica di qualità, nonostante tutto, non ci è mai passata. Questa creatura dopo 3 lustri continua orgogliosamente a remare controcorrente, cercando quella libertà in musica che nell’etere è ormai diventata una mosca bianca, ed esprimendo la passione per la condivisione, per la ricerca, per l’approfondimento. Non dobbiamo aderire ad una cieca linea editoriale che ormai spinge esclusivamente il pulsante play dei servizi di streaming, ma ci lasciamo guidare semplicemente dal nostro cuore e dalla nostra passione. Fulvio Savagnone, Marco Artico, Giampiero Crisanti, Franz Andreani, Flavia Cardinali, Francesco Cauli, Ivan Di Maro, Fabio De Seta, Massimo Santori, Maurizio Nagni, Angie Rollino ed io proveremo a coinvolgervi con i nostri podcast regolari e con le rubriche tematiche di approfondimento, sperando di farvi sentire sempre di più parte di questa fantastica avventura.
Nel mondo attuale, dove tutto sembra di nuovo e sempre di più avvolto nella nube della pandemia e delle polemiche ad ogni costo, ogni cosa sembra che venga letta dietro ad una lente distorta. Dove sembrano mancare sempre di più parole e sentimenti come empatia, comprensione, solidarietà, buon senso e passione, dove sembrano esserci solo schieramenti ciechi e cattivi, proviamo nel nostro piccolo a portare le nostre emozioni. Emozioni di persone che rispettano ed amano una forma d’arte straordinaria. La musica ha spesso il potere terapeutico di guarire le anime, lenire in qualche modo il dolore, come una pozione magica, un incantesimo primordiale, facendoci fare viaggi immaginari di enorme suggestione emotiva, ed è questo il percorso che vogliamo seguire.
Nel settimo viaggio della nuova stagione andiamo ad esplorare la ricerca di una nuova identità da parte degli Idles, il rock “datato” ma coinvolgente degli Endless Boogie, il fantastico esordio discografico (dopo una lunghissima gavetta) degli straordinari One Arm, due tra le migliori uscite del 2021: Marc Ribot’s Ceramic Dog e Orchestre Tout Pouissant Marcel Duchamp. E ancora troveranno spazio i viaggi etnici dei Dirtmusic, lo splendido mutaforma Ryley Walker, il talento enorme del compianto David Berman con Silver Jews e Purple Mountains, la redenzione di Josiah Johnson, l’eleganza dei Sea And Cake e lo straordinario songwriting di Fiona Apple. Il finale è appannaggio del gran ritorno dei Fire! in forma strepitosa, e delle atmosfere notturne e quasi dubstep degli Space Afrika. Il tutto, come da 15 anni a questa parte, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
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Iniziamo il podcast con un gruppo che è passato più volte da queste pagine. La carriera degli Idles è stata preparata lentamente, ma probabilmente nemmeno loro avrebbero potuto prevedere l’esplosione in terra britannica e non solo, sin dalla pubblicazione dell’album di esordio Brutalism nel 2017. La band di Bristol ha subito occupato un posto speciale nei cuori del pubblico assetato di post punk vero e senza fronzoli. Le liriche di Joe Talbot non hanno fatto prigionieri, spiattellando in maniera a volte cruda ma reale i disagi di una generazione spiazzata dalla Brexit e desiderosa di giustizia ed equità. Anche il secondo Joy As An Act Of Resistance aveva fatto centro pieno, grazie ad inni come “Danny Nedelko” e grazie ad una formula sonora ormai collaudata e alle indubbie capacità empatiche ed energiche on stage del quintetto.
Il terzo album, pubblicato in piena pandemia, e in un momento di estrema popolarità, ha portato alla band, come prevedibile nei nuovi perversi meccanismi social, anche molti attacchi frontali. Ultra Mono, ha dovuto necessariamente presentare uno spettro sonoro più articolato, con suoni curati da Kenny Beats, spesso dietro il mixer in produzioni hip-hop pur mantenendo inalterate le aggressive coordinate sonore che li hanno resi una della band più importanti degli ultimi anni. Il quarto album in studio, Crawler, vede la band mettersi in discussione, uscire dalla propria comfort zone e rischiare qualcosa al di fuori dell’immaginario post-punk che hanno costruito in questi anni. Alcune vicende extra musicali, come l’incidente automobilistico, in cui prima della registrazione dell’album è stato coinvolto il frontman Joe Talbot, hanno fatto il resto. Un disco di transizione, imperfetto, con idee ancora non troppo messe a fuoco ma che lasciano presagire un futuro ancora importante. C’è la produzione (ancora) di Kenny Beats e un’oscurità di fondo a cercare una strada diversa. La new wave scura di “When The Lights Come On” mostra un gruppo in cerca di una nuova identità.
Una capsula del tempo. Non c’è altra spiegazione. Dove altrimenti potevano essersi nascosti Paul Mayor e Jesper Elkow?I due personaggi appena citati non sono altro che i chitarristi di una band, gli Endless Boogie, il cui suono è profondamente devoto al rock psichedelico di stampo prettamente chitarristico della fine ’60 ed inizio ’70, tanto da prendere il nome dall’album del 1971 di John Lee Hooker. Talmente fuori dal tempo da non avere nemmeno una pagina su Wikipedia fino a qualche anno fa. Il loro quarto album è uscito nel 2013 per l’etichetta No Quarter e si intitola Long Island, un doppio vinile diviso in soli 8 brani di lunghezza variabile dai sei ai quindici minuti. Chi ama le lunghe jam chitarristiche troverà pane per i suoi denti nei solchi dell’album, dove Mayor e Elkow insieme a Harry Druzd, Marc Razo e Matt Sweeney (che ha fatto parte del progetto Zwan insieme a Billy Corgan e adesso collabora con Bonnie ‘Prince’ Billy) ci inchiodano alle casse per oltre 80 minuti di riff inseguiti, ripetuti e raddoppiati.
Blues mid tempo, boogie, hard rock e jam sessions con un quasi onnipresente wah-wah, questo è quello che trovate nei solchi di Long Island. I membri della band, affascinati dalle storie sulla guerra d’indipendenza americana, evocano alcune di quelle pagine spalmandole su lunghe fughe sonore che possono andare dai sei minuti di “General Admission” ai nove dell’epica “The Artemus Ward”. Un gruppo senza compromessi, robusto, selvaggio, devoto discepolo inchinato sull’altare del blues-rock. Dopo questo lavoro, la band ha pubblicato altri due album, l’ultimo, Admonitions, uscito lo scorso anno che non cambia di una virgola le loro sonorità. Se poi ha davvero un senso un gruppo del genere nel 2022, beh, quella è tutta un’altra storia, ma nell’epoca di qualsiasi revival possono trovare posto sugli scaffali anche questi monolitici tributi alla chitarra rock. Perché no.
A volta la strada per la pubblicazione di un album può diventare davvero lunga e tortuosa se i primi tasselli del puzzle non vanno subito al posto giusto. Nel 1992, a Parigi, Rose-Laure Daniel (basso e voce), Isabelle Vigier (chitarra) e Marine Laclavère (batteria) danno vita al progetto One Arm prendendo il nome da un racconto del drammaturgo e poeta americano Tennessee Williams. Le tre ragazze fanno parte senza sosta della scena musicale post-punk e no wave parigina e europea prima di sciogliersi nel 1997. Un anno dopo, digerito l’abbandono della Vigier, la sezione ritmica della band decide di riprendere il progetto facendolo partire di nuovo con due nuovi compagni di avventura. Una strada apparentemente folle visto che i nuovi arrivati componevano anche loro la sezione ritmica di un gruppo appena sciolto, La Mâchoire. L’innesto della batteria di Dilip Magnifique e del basso di Rico Herry ha dato vita ad un ibrido e simmetrico quartetto: due donne, due uomini, due bassi e due batterie. Ma anche stavolta il destino volta loro le spalle, l’etichetta che doveva produrre il loro atteso esordio fallisce e i componenti della band si salutano tornando ad essere geograficamente distanti.
Bisognerà aspettare altri 15 anni per far si che qualcosa si muovesse di nuovo sul fronte One Arm. L’interesse della Atypeek Music ha portato la band a riprendere i vecchi demo, arricchirli, remixarli e trasformarli nella versione definitiva che troviamo nella loro prima uscita sulla lunga distanza, finalmente pubblicata ad inizio 2021, che prende il nome di un loro antico progetto alternativo: Mysore Pak. Due bassi, due batterie, samples, field recordings capaci di shakerare post-rock britannico anni ’90 (quella meravigliosa estetica sonora che faceva capo all’etichetta Too Pure), funk, krautrock, new wave e musica industriale in un calderone febbrile di grande effetto. Come nella trascinante “City” dove quella che sembra una chitarra che sbuffa e si impenna non sono altro che gli effetti e i pedali di Rico in uno dei loro migliori travestimenti. I quattro musicisti hanno messo su un album di sicura suggestione, capace di colpire con complesse trame ritmiche che vengono costantemente trafitte dagli inserimenti ispiratissimi degli effetti e dalle bordate di suoni meravigliosamente organizzati.
Uno dei gruppi più interessanti degli ultimi anni e uno dei dischi che mi ha più entusiasmato di quelli usciti lo scorso anno. Un nome altisonante, una orchestra onnipotente il cui nome è un omaggio alle tante big band africane che usavano e usano questa definizione come un biglietto da visita. Il nome Orchestre Tout Puissant Marcel Duchamp è un modo per segnalarsi come gruppo freak e dadaista, un nome e un progetto su larga scala voluto dal contrabbassista Vincent Bertholet che crea il collettivo a Ginevra nel 2006. La prima idea è quella di metter su un gruppo rock che usi la marimba e che possa esibirsi in maniera sotterranea lungo tutto il continente europeo. Musicisti che hanno il post punk come semplice base di partenza ma sono totalmente aperti ad una sperimentazione musicale che avvicina dub, punk, jazz d’avanguardia e rock in uno scambio aperto di suoni, di luoghi e di pubblico. Artigiani e irregolari, con una fortissima spinta propulsiva musicale e sociale, il gruppo diffonde il proprio verbo, si apre a mille interferenze, combinazioni e colori suscitando l’interesse anche di John Parish che nel 2014 si siede dietro al mixer per produrre Rotorotor, il loro terzo album.
Dopo un altro (ottimo) lavoro uscito nel 2018 e ancora prodotto da Parish (Sauvage Formes), il gruppo ha ampliato la propria formazione a ben undici elementi (oltre al leader ci sono Liz Moscarola a voce e violino, Aida Diop alla marimba, Mael Salètes e Titi alla chitarra, Gabriel Valtchev e Guillaume Lantonnet alla batteria, Naomi Mabanda al violoncello, Thomas Levier alla viola, Gilles Poizat al bugle e Giff al trombone) e sostenuti da una spinta ideale tesa ad appoggiare chiunque voglia distruggere il capitalismo attraverso testi tanto poetici quanto sarcastici, da alle stampe We’re OK. But We’re Lost Anyway, dove afrobeat, folk, punk, jazz, Stereolab, kraut e vocazione spirituale in un flusso festoso teso ad esaltare la collettività e l’imprevedibilità. “So Many Things (To Be Guilty About)” con il suo irresistibile andamento circolare è solo una delle nove irresistibili tracce di un album imperdibile.
A proposito di viaggi, contaminazioni ed alchimie sonore. Prosegue senza sosta il viaggio dei chitarristi Chris Eckman (Walkabouts) e Hugo Race (Birthday Party, Bad Seeds, Fatalists), che hanno perso per strada Chris Brokaw (Codeine, Come), ma hanno sempre voglia di esplorare strade nuove e culture diverse. Il viaggio dei Dirtmusic prosegue dal Mali fino alla Turchia, altro paese in crisi sociale e politica. Qui i due hanno fatto comunella con una vecchia conoscenza come Murat Ertel, che con il suo saz elettrificato ha reso unico ed intrigante il suono del gruppo psych-dub Baba Zula. Inevitabilmente l’umore del loro ultimo album in studio, uscito nel 2018.
Bu Bir Ruya risente dell’atmosfera incontrata dai musicisti in studio ad Istanbul proprio quando parte dell’esercito tenta un colpo di stato per rovesciare il governo del presidente Erdogan. Il risultato è un disco evocativo, più scuro e meno blues, arricchito da altri splendidi ospiti come la voce della canadese Brenda McCrimmon e le percussioni tribali di Ümit Adakale. “Go To The Distance” è una delle tracce più ipnotiche ed evocative del lotto, pronta ad ammaliarvi e a portarvi in un sognante altrove che affonda le radici in una dura realtà.
Musicista trasversale nel senso più bello del termine, il chitarrista Marc Ribot si è preso (giustamente) la scena con straordinarie collaborazioni, dischi solista e molti progetti diversi tra loro. A parte la collaborazione storica con Tom Waits, Ribot ha lavorato con Caetano Veloso, John Zorn, David Sylvian, The Lounge Lizards, Arto Lindsay, Medeski, Martin and Wood, Cibo Matto, Elvis Costello, Foetus, The Black Keys e moltissimi altri artisti. Ha formato il Marc Ribot Trio con il bassista Henry Grimes e il batterista Chad Taylor dei Chicago Underground, i Marc Ribot y Los Cubanos Postizos dove svela l’amore per la musica tradizionale cubana e i The Young Philadelphians per riscoprire il soul della città della Pennsylvania negli anni ’70. Il chitarrista del New Jersey lascia il segno anche con i suoi Marc Ribot’s Ceramic Dog, insieme al batterista Ches Smith e al bassista Shahzad Ismaily.
La sua sei corde si dimostra, come sempre, capace di compiere quei movimenti trasversali tra mondi diversi che solo pochi riescono a care con naturalezza, passando con energia e passione attraverso l’avanguardia, il folk, il rock, il jazz e il funk. Hope è il quarto album del trio, uscito nel 2021 in cui Ribot ed i suoi compagni di avventura riversano in nove coinvolgenti tracce tutta la rabbia dovuta al lockdown e alla situazione pandemica in generale. Tra testi pungenti e costruzioni musicali ardite, il trio scatena in maniera irrefrenabile tutto il potente arsenale a propria disposizione come nella torrenziale “They Met In The Middle” impreziosita dal sax di Darius Jones. L’ennesimo centro pieno di una carriera straordinaria.
Molte volte abbiamo parlato su queste pagine di Ryley Walker, un songwriter/chitarrista dell’Illinois capace con il suo talento di intraprendere un affascinante percorso partito da una perfetta integrazione della sua scrittura con il retaggio della scena folk britannica degli anni ’70. Dopo il successo di Primrose Green, Walker ha evidenziato degli album seguenti la splendida irrequietezza di un artista sempre in cerca di cambiamento. Nei i solchi dei suoi album possiamo trovare non solo tutte le influenze apertamente dichiarate durante l’arco della sua carriera, ma anche altre ispirazioni e riferimenti sempre nuovi oltre a mostrare una notevole personalità e unicità. Il tutto messo al servizio di una scrittura non facile ma sempre perfettamente a fuoco tra rilassamenti bucolici e momenti sperimentali, accordi aperti e accelerazioni sincopate improvvise. Un itinerario tortuoso, irrequieto, alla ricerca di una strada che sembra difficile da trovare, ma che all’improvviso appare in tutto il suo splendore davanti all’ascoltatore.
Questa irrequietezza mostrata apertamente in musica purtroppo non ha risparmiato il Ryley Walker uomo. Nel 2018, dopo essersi trasferito a New York City, la sua dipendenza da alcool e droghe è arrivata ad un punto critico, costringendolo a chiedere aiuto e ad abbandonare le scene per un periodo di riabilitazione necessario visto il difficile stato fisico e psicologico in cui versava. La sua nuova vita è iniziata con la creazione della sua personale label chiamata Husky Pants Records è con un nuovo album, Course In Fable, prodotto da un personaggio cardine della storia recente di Chicago in musica come John McEntire. Il disco è lo specchio un artista che ha sempre voglia di progredire artisticamente, che si annoia facilmente e che è giunto in una fase di piena maturità artistica in cui riesce con disinvoltura a creare un incredibile e avventuroso equilibrio tra sperimentazione e struttura classica, riuscendo a non ripetere mai le stesse soluzioni. “A Lenticular Slap” è uno dei vertici dell’album, quasi 8 minuti dove ci si perde e ci si ritrova, mentre Walker si diverte a piazzare piccoli labirinti di complessità variabile da cui ne esce con sorprendente facilità grazie ad aperture armoniche e melodiche di tale bellezza liberatoria da togliere il fiato.
L’ho fatto molto poco in passato, ma è cosa buona e giusta ricordare un talento cristallino come David Berman. Nel 1985 Berman frequentava l’Università della Virginia facendo comunella soprattutto con altri due ragazzi chiamati Stephen Malkmus e Bob Nastanovich. Trasferiti a Hoboken, New Jersey i tre iniziarono a lavorare in alcune gallerie d’arte e da un pezzo d’arte concettuale chiamato Silver Jewelry uscì fuori il nome della band, Silver Jews. In realtà Berman è rimasto l’unico punto fermo del gruppo visto che gli altri due andarono quasi parallelamente a creare i Pavement. In realtà Malkmus e Nastanovich fanno parte della formazione che registra l’esordio Starlite Walker, uscito nel 1994 insieme al secondo abum dei Pavement. Berman si guadagna presto rispetto e credibilità nel mondo dell’indie-alternative statunitense dagli anni Novanta in poi.
Personaggio sarcastico e fragile, Berman per gran parte della sua carriera ha scelto di non andare in tour e di non rilasciare interviste. Una vita fragile, segnata dalla dipendenza dall’alcool e dal rapporto difficilissimo con il padre, l’ex lobbista Richard Berman. Attraverso canzoni e poesie e disegni, Berman aveva pensato di poter trovare e costruire un rifugio lontano da tutto quello di male che aveva costruito il padre. I suoi racconti in musica risultano malinconici anche quando sfoggiano uno sghembo incedere allegro e spesso parlano di sconfitte e della desolazione di un certo tipo di America, suonati con un linguaggio tra folk e lo-fi come nella splendida “New Orleans” inserita in scaletta.
Berman rimase sempre l’unico punto fermo uin un gruppo in cui i musicisti erano in continua rotazione. Anche la musica suonata effettuava piccole variazioni dal country al power pop almeno fino al 2009, anno in cui Berman annunciò la fine dei Silver Jews e il suo ritiro dall’attività musicale, ritenendo il suo percorso giunto al termine e preferendo concentrarsi sulle sue passioni per la scrittura, il fumetto e la poesia. Dopo 10 anni di silenzio, nel 2019, ecco Berman effetttuare un clamoroso ritorno alla musica, con un nuovo progetto con Jeremy Earl dei Woods chiamato Purple Mountains. Il disco del nuovo corso, autointitolato, è una sorta di agrodolce ritorno a casa, un Berman con la ferita ancora aperta della separazione dalla moglie Cassie che torna a raccontare le sue storie.
Disilluso, dolente, con un sorriso sarcastico impercettibilmente dipinto sul volto, con i titoli dell’album a dipingere tutto il freddo ed il buio intorno a lui, come la “All My Happiness Is Gone” inserita in scaletta. Un disco apparentemente leggero ma incredibilmente profondo e di una bellezza straziante, un disco che si sperava fosse comunque un nuovo inizio per David Berman visto che stavolta era in programma addirittura un tour con i Purple Mountains. E invece, nemmeno un mese dopo la pubblicazione dell’album, il 7 agosto 2019, il corpo di Berman è stato trovato nel suo appartamento di Brooklyn. L’artista aveva già provato a togliersi la vita nel 2003 con un mix di cocaina, alcool e tranquillanti, ma stavolta, purtroppo, il tentativo di suicidio tramite impiccagione è riuscito, privandoci di un artista straordinario sconfitto dai suoi demoni.
Continuiamo parlando di un artista che in pochi anni è passato dal grande successo della sua band (The Head And The Heart) al gorgo della dipendenza dagli stupefacenti. Come si può ben immaginare non sono stati anni facili per Josiah Johnson. La forzata uscita dal gruppo, la riabilitazione, il lungo percorso che porta ad una (mai scontata) assunzione di responsabilità. All’inferno e ritorno. Ed il ritorno non poteva trovare sfogo migliore della sua ritrovata anima di musicista. Ci vuole tutto il coraggio possibile per chiedere l’aiuto altrui e rialzare orgogliosamente la testa. Josiah Johnson lo ha fatto mettendo il suo talento compositivo al servizio di semplicità, amore e passione, marchiando a fuoco nei solchi la gioia e la malinconia della sua redenzione.
Every Feeling On A Loop è un percorso estremamente personale fatto di 11 canzoni, spesso dalla lunghezza abbondante, dove il musicista non ha paura di esporre la sua vulnerabilità e le sue ferite. Questo disco è la vittoria umana e musicale del musicista californiano. capace di rivestire a nuovo la tradizione con semplicità, lasciando liberi gli interventi di archi e fiati di librarsi nell’aria limpida di una nuova vita, pur avvertendoci che non è sempre facile alzare la testa, come nella meraviglia intitolata “Hey Kid”, dialogo immaginario con la versione giovane di se stesso, cui implora di non commettere gli stessi errori: “Hey kid, you were doing alright. Except when you bought what you were sold. Hey kid, come back to the light. Don’t leave yourself out in the cold”. Un brano di rara emozione impreziosito dal violino di Olivier Manchon.
Un disco ed un’artista che due anni fa hanno suscitato un numero enorme di consensi e, allo stesso tempo (secondo il più classico meccanismo da social), una valanga di critiche proprio per la quantità ed il grande peso specifico di questi consensi. Qualcuno avrà capito che sto parlando di Fiona Apple e del suo ultimo album Fetch The Bolt Cutters uscito in piena espansione pandemica. In quanto fan dichiarato da sempre della Apple, sicuramente non posso essere tacciato di essere salito solo ora sul carro del vincitore. In tempi non sospetti ho inserito il suo quarto album del 2012 The Idler Wheel Is Wiser… in una ipotetica (e naturalmente incompleta) playlist dei migliori album dell’ultimo decennio. La talentuosa e bella Fiona è quanto di più distante possa esserci dal mondo rutilante del red carpet. Una ragazza con un’adolescenza travagliata e difficile alle spalle, che ha saputo reggere l’urto di un avvenimento che non può non lasciare il segno nella vita di chiunque con grande personalità.
A fare rumore è stato il 10 assegnato dall’influente webzine Pitchfork oltre a diverse altre riviste, giornali e siti web che hanno assegnato al nuovo album dell’artista newyorkese il massimo dei voti. Il dubbio che è venuto a tutti è stato: Fetch The Bolt Cutters merita davvero questo plebiscito? Magari il 10 e la sua pesante eredità lo lascerei stare, ma non c’è ombra di dubbio sul fatto che la Apple abbia pubblicato l’ennesimo disco straordinario. A 42 anni riesce a parlare apertamente della violenza subita (il titolo è una citazione di una battuta pronunciata dall’attrice Gillian Anderson nella serie televisiva della BBC The Fall, dove l’attrice impersona una detective che si occupa di violenza sulle donne), delle difficili esperienze vissute. Riesce a farlo al meglio sotto un incredibile tappeto percussivo dove si muovono, con abilità e seguendo il motto “less is more”, splendidi musicisti come il fido bassista Sebastian Steinberg. Ascoltate proprio la traccia che da il titolo al disco, “Fetch The Bolt Cutters”, una delle 13 meraviglie di cui è composto il disco. Fiona Apple stavolta probabilmente non merita il massimo dei voti, ma un 8 pieno sicuramente si.
Nel corso dei podcast degli ultimi anni abbiamo parlato più volte della scena post-rock americana, divisa tra Louisville e Chicago. John McEntire, non solo batterista ma anche splendido polistrumentista e produttore, ha marchiato a fuoco la scena nata nata nella windy city nei primissimi anni ’90. Parallelamente alla nascita dei Tortoise, McEntire ha unito le sue forze a quelle del chitarrista Archer Prewitt, del cantante Sam Prekop e del bassista Eric Claridge (questi ultimi due provenienti dagli Shrimp Boat), formando i The Sea And Cake. Il nome del gruppo non è altro che una reinterpretazione volontaria di “The C in Cake”, brano di un altro gruppo cardine di quel periodo prolifico, i Gastr Del Sol di Jim O’Rourke e David Grubbs di cui McEntire è stato importante collaboratore sin dall’inizio.
Al contrario dei Tortoise e di molto post-rock americano, nei The Sea And Cake ha sempre avuto un peso specifico importante non solo l’abilità tecnica dei musicisti, ma soprattutto il tono distintivo della voce levigata di Prekop, anche se nel corso degli anni la band ha aumentato il peso specifico dei calibrati interventi elettronici, e delle influenze sudamericane. Sono voluto tornare indietro nel tempo e proporvi una delle pagine migliori del loro catalogo, quella “Parasol” che impreziosiva il loro secondo album, Nassau, nell’anno di grazia 1995.
Mats Gustafsson (flauto, sax baritono ed elettronica), Johan Berthling (basso) e Andreas Werliin (batteria, lap steel) arrivano con Defeat al quinto album (settimo se contiamo le collaborazioni con Jim O’Rourke e Oren Ambarchi) sotto il nome di Fire!, confermando la bontà della loro idea sonora. Nessuno come loro è riuscito a costruire aerodinamiche navicelle spaziali, riempirle di psichedelia, noise e kraut, e poi farle atterrare dolcemente su un pianeta dove la materia prima è l’improvvisazione jazz. Difficile dire se il combo svedese riesca ad entusiasmare più nella classica formazione a tre, o nella versione allargata Fire! Orchestra dove, insieme ad altre decine di musicisti provenienti dagli universi noise-jazz-improv scandinavi, riescono a lasciarsi andare senza rete nel mescolare e trasformare free jazz, canzoni, noise, kraut-rock in un’estatica orgia di suoni, facendo rivivere a modo loro i mondi solari e fantastici dell’Arkestra di Sun Ra o quelli salvifici della Liberation Music Orchestra di Charlie Haden.
Proprio quando sembravano aver perso un po’ della loro spinta propulsiva dopo il mezzo passo falso del precedente The Hands, i tre sono riusciti a dare una sferzata tanto improvvisa quanto imprevedibile al loro suono, portando Gustafsson a mettere da una parte il suo strumento di riferimento per dedicarsi quasi esclusivamente al flauto, e facendosi accompagnare da una piccola sezione fiati composta dai compagni di avventura nella Fire! Orchestra Goran Kajfes alla tromba e Mats Aleklint al trombone e sousaphone. “Each Millimeter Of The Toad” è divisa in due parti distinte. La prima inizia con il basso ad impartire un ordine che l’elettronica in libera uscita cerca in tutti i modi di turbare prima dell’entrata delle sapienti percussioni di Werliin e del flauto che sbraita, cade, si rialza e accarezza. Non fatevi ingannare dal titolo, questo album è un trionfo e i Fire! si confermano come una delle più belle realtà di questo ultimo decennio in musica.
Ogni tanto ci sono alcuni suoni provenienti dalla galassia elettronica che riescono a colpirmi in maniera particolare. Il finale di questo podcast è appannaggio di un duo chiamato Space Afrika, che con l’album Honest Labour sono riusciti a modificare la loro techno degli esordi per andare a creare un suono rallentato, rarefatto e notturno che prende qualcosa dal dubstep modificandolo in maniera personale. Joshua Inyang e Joshua Reid vengono da Manchester (anche se Reid adesso vive a Berlino), ed è proprio la città britannica ad essere immortalata nella copertina del disco, piovosa, notturna, illuminata dai lampioni e dalle luci delle macchine che si riflettono nella strada bagnata e sulla pensilina della “loro” fermata dell’autobus.
Gli Space Afrika hanno messo a fuoco ben 19 tracce tanto frammentarie e varie nel loro spaziare emotivo dall’ambient all’industrial, dall’hip-hop al dubstep con parti cantate, featuring, archi e chitarre in sottofondo, quanto incredibilmente coeso nel messaggio musicale. Il titolo dell’album in realtà è un tributo a un membro della famiglia nigeriana di Inyang, che, per la sua lealtà era chiamato proprio Honest Labour. In realtà i due hanno sempre descritto il loro modus operandi creativo come “labour of love” per cui è possibile che il riferimento sia anche a loro stessi. Un disco notturno, ammaliante, coinvolgente, dove textures di suoni vanno sempre perfettamente alposto giusto. Per rappresentare il disco ho scelto i due ultimi brani in scaletta, con “Strength” dove il musicista di origini nigeriane LA Timpa innesta uno scheletro R&B, mentre la title track indugia su territori hip-hop trasfigurati in pop orchestrale dalla pioggia che cade su una Manchester notturna. Uno dei migliori album del 2021.
Un grazie speciale va, come sempre, a Franz Andreani per la sua passione, la gestione di questa banda di pazzi e per la splendida riorganizzazione del sito già attiva da qualche anno. A cambiare non è stata solo la versione grafica del sito, ma anche la “filosofia” della podradio, con le rubriche che vanno ad integrarsi nella programmazione regolare sotto l’hashtag #everydaypodcast. Sulla nostra pagina Facebook troverete quotidianamente ogni upload e la nuova rubrica #theoriginaltoday curata dalla new entry Giusy Chiara Meli che racconta cosa accadde nella storia della musica rock. Da un anno è attivo anche lo splendido canale YouTube della Radio, una nuova formula senza interruzioni ne spot per ascoltare la vostra-nostra musica preferita. Iscrivetevi numerosi, vi aspettiamo!
Nel prossimo episodio di Sounds & Grooves, il primo pubblicato nel 2022, andremo ad esplorare le asperità straordinarie di Shellac, Sonic Youth e degli straordinari siciliani Uzeda, il secondo album dei Porridge Radio e l’esordio dei TV Priest tra le nuove band britanniche più interessanti, la classicità degli Arbouretum l’incredibile intensità del supertrio australiano Springtime ed il ponte tra sperimentazione e tradizione di Thurston Moore. E ancora ci sarà spazio per il clamoroso ritorno degli Arab Strap, il folk mutante e quasi pop dei Wildbirds & Peacedrums ed il talento enorme dei compianti Elliott Smith e Jason Molina nascosto dietro al nome Songs:Ohia. Il finale è appannaggio della creatività senza limiti dei romani Vonneumann e dei maestri del “taglia & incolla” The Books. Il tutto, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
Intanto se volete potete sfruttare la parte riservata ai commenti qui sotto per darmi suggerimenti, criticare (perché no), o proporre nuove storie musicali. Mi farebbe estremamente piacere riuscire a coinvolgervi nella programmazione e nello sviluppo del mio sito web.
Se volete ascoltare o scaricare il podcast, potete farlo anche dal sito della PodRadio cliccando sulla barra qui sotto. Buon Ascolto
TRACKLIST
01. IDLES: When The Lights Come On da ‘Crawler’ (2021 – Partisan Records)
02. ENDLESS BOOGIE: The Artemus Ward da ‘Long Island’ (2013 – No Quarter)
03. ONE ARM: City da ‘Mysore Pak’ (2021 – Alara)
04. ORCHESTRE TOUT PUISSANT MARCEL DUCHAMP: So Many Things (To Feel Guilty About) da ‘We’re OK. But We’re Lost Anyway’ (2021 – Les Disques Bongo Joe)
05. DIRTMUSIC: Go To The Distance da ‘Bu Bir Ruya’ (2018 – Glitterbeat)
06. MARC RIBOT’S CERAMIC DOG: They Met In The Middle da ‘Hope’ (2021 – Northern Spy/Yellowbird)
07. RYLEY WALKER: A Lenticular Slap da ‘Course In Fable’ (2021 – Husky Pants Records)
08. SILVER JEWS: New Orleans da ‘Starlite Walker’ (1994 – Drag City)
09. PURPLE MOUNTAINS: All My Happiness Is Gone da ‘Purple Mountains’ (2019 – Drag City)
10. JOSIAH JOHNSON: Hey Kid da ‘Every Feeling, On A Loop’ (2020 – Anti-)
11. FIONA APPLE: I Want You To Love Me da ‘Fetch The Bolt Cutters’ (2020 – Epic/Clean State)
12. THE SEA AND CAKE: Parasol da ‘Nassau’ (1995 – Thrill Jockey)
13. FIRE!: Each Millimeter Of The Toad, Part 1 da ‘Defeat’ (2021 – Rune Grammofon)
14. SPACE AFRIKA: Strength (feat. La Timpa)-Honest Labour (feat. Hforspirit) da ‘Honest Labour’ (2021 – Dais Records)