Le avventure in musica di Sounds & Grooves continuano nella 14° Stagione di RadioRock.TO The Original
In questo episodio di Sounds & Grooves trovate una sorta di riepilogo dell’ultimo decennio in musica
Sono davvero felice di essere tornato, con Sounds & Grooves, ad arricchire il palinsesto della 14° Stagione di www.radiorock.to. A volte c’è la necessità di fermarsi un attimo, riflettere sugli sbagli che abbiamo commesso, fare uno o più passi indietro, capire le cose che contano davvero nella vita e ripartire con tutto l’entusiasmo possibile di una nuova vita, di una nuova opportunità che non deve essere sprecata. E in questo ho avuto l’incredibile fortuna di avere accanto una persona assolutamente meravigliosa ed unica che non smetterò mai di ringraziare e di amare.
A pensarci è pazzesco che sia passato già così tanto tempo da quando abbiamo iniziato questa fantastica avventura di radiorock.to per dare un segnale di continuità con il passato, con quella meraviglia che Franz Andreani, Marco Artico, Flavia Cardinali, Massimo Di Roma, Michele Luches, Aldo Semenuk, Giampiero Crisanti, Gianpaolo Castaldo avevano creato e a cui, nel mio piccolo, ho provato a dare un contributo dal 1991 al 2000. Sappiamo tutti benissimo che la Radio Rock in FM come la intendevamo noi è sparita da almeno due decenni, ma in tutti questi anni di podcast sul web abbiamo cercato di tenere accesa quella fiammella per poi tentare di raddoppiarla, moltiplicarla, farla diventare un faro di emozioni e qualità musicale. Perché la passione e la voglia di fare radio, la voglia di ascoltare e di condividere la musica di qualità, nonostante tutto, non ci è mai passata.
Non siamo una radio “normale”. Non solo perché trasmettiamo in differita e attraverso podcast registrati, ma soprattutto perché andiamo orgogliosamente musicalmente controcorrente rispetto a quella che è diventata la consuetudine delle emittenti radiofoniche al giorno d’oggi. Quella libertà in musica che è diventata una mosca bianca, quella passione per la condivisione, per la ricerca, per l’approfondimento. Senza dover aderire per forza ad una cieca linea editoriale che privilegia il commercio, ma lasciandoci guidare semplicemente dal nostro cuore e dalla nostra passione.
Per la compilazione della scaletta di questo quinto episodio sono andato a ritroso nel tempo, andando a ritrovare i dischi che, anno dopo anno, più hanno saputo coinvolgermi ed emozionarmi. Prendetelo con beneficio di inventario. Naturalmente è impossibile condensare in un podcast 10 anni di musica. E’ un gioco e va preso come tale. Ho cercato di mettere almeno un album per ogni anno dal 2010 al 2019, inserendo in scaletta quello che a posteriori mi è piaciuto di più e fa parte tuttora dei miei ascolti. Il tutto, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
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Prima di partire con questo viaggio in musica potete effettuare il download del podcast anche nella versione a 320 kb/s semplicemente cliccando sul banner qui sotto.
![Joanna Newsom live 2016](http://www.stefanosantoni14.it/wp-content/uploads/2020/02/joanna-newsom_live.jpg)
Iniziamo dunque questa carrellata di album dell’ultimo decennio con il 2010. Ma per parlare correttamente di questa artista dobbiamo fare un piccolo passo indietro. Nel 2006 l’arpista e songwriter californiana Joanna Newsom ha pubblicato il suo secondo lavoro intitolato Ys. L’album era estremamente ambizioso: prodotto da Steve Albini, mixato da Jim O’Rourke e arrangiato magistralmente da Van Dyke Parks. Il disco, formato da cinque lunghe tracce spalmate su due vinili, colpiva per la capacità di rivisitare il folk con personalità e forza espressiva a dispetto del suo timbro vocale. Incredibile come un album così legato ad un genere “di nicchia” riuscì a conquistare le copertine delle maggiori riviste musicali portando il nome della Newsom sulla bocca di tutti.
Nata da una famiglia di musicisti, la Newsom era riuscita a colpire sin da subito un nume tutelare del songwriting americano come Will Oldham, aka Bonnie “Prince” Billy. Oldham la portò in tour come spalla facendogli firmare un contratto con la Drag City, per la quale nel 2004 pubblicò l’esordio The Milk Eyed Mender. E se qualche critico l’aveva etichettata come “prolissa”, nel 2010, incurante di tutto, Joanna Newsom ha pubblicato addirittura un album triplo. Have One On Me esce in un cofanetto lussuoso, uno scrigno dove l’artista è riuscita a riversare tutta la sua raggiunta maturità compositiva. Non più solo arpa, orchestra e voce, ma uno spettro sonoro ben più ampio dove far confluire tutte le sue influenze, dal folk al country, come nella splendida “Good Intentions Paving Company” inserita in scaletta. La Newsom tornerà solo cinque anni più tardi con Divers, un album che, pur non raggiungendo le vette del passato, resta nell’alveo di una più che buona cifra stilistica e compositiva.
![Josh T. Pearson - 2012](http://www.stefanosantoni14.it/wp-content/uploads/2020/02/JOSH_T_PEARSON.jpg)
Un disco non certo radiofonico, un artista che credevamo perso, una storia di peccato e redenzione. L’artista in questione si chiama Josh T. Pearson, ex membro dei Lift To Experience, band di culto che fece in tempo a dare alle stampe un solo album, “The Texas-Jerusalem Crossroads”, prima di implodere nell’apocalisse spirituale da loro stessi invocata. Esattamente dieci anni dopo lo scioglimento della band, nel 2011, Pearson è tornato con Last Of The Country Gentlemen, album dalla gestazione complessa registrato in soli due giorni a Berlino. Una confessione solitaria, cantata e recitata con il solo apporto della chitarra e di pochi archi tra cui spicca la collaborazione del Dirty Three/Bad Seed Warren Ellis.
Il disco mostra lo stato cupo e triste in cui l’autore in qualche modo si sottomette alle canzoni da lui stesso create. Capelli e barba lunga, il texano rovescia le sue inquietudini, il suo smarrimento esistenziale e la sua solitudine in sette brani che vanno dai 3 ai 13 minuti. “Country Dumb” è uno dei picchi del disco. Nove minuti in cui, accompagnato da Warren Ellis, il cantautore mostra un briciolo di fede capace di aprire un varco nel buio del disco. Il texano tornerà solo sette anni più tardi con The Straight Hits! mostrando un cambiamento radicale sia nel look (capelli corti e senza barba) che nella musica, desideroso di affrancarsi dallo stereotipo del cantautore triste ed introverso.
![Swans - Live 2012](http://www.stefanosantoni14.it/wp-content/uploads/2017/01/SwansLive.jpg)
Per rappresentare il 2012 ho scelto due album. Per primo c’è un lavoro monumentale con cui Michael Gira ha inaugurato l’ennesima nuova era della sua creatura, gli Swans. The Seer è il primo di un trittico dalla durata complessiva esorbitante che comprenderà anche To Be Kind e The Glowing Man. Tre album usciti in doppio cd e triplo vinile, con pochi brani che si aggirano intorno ai 5 minuti, mentre le restanti si aggirano dai 15 ai 28. La rodata (anche on stage) catarsi stratificata e ascendente dei musicisti coinvolti colpisce di nuovo nel segno, chiudendo il cerchio di questa formazione degli Swans. A “Lunacy”, con l’apporto di Alan Sparhawk e Mimi Parker dei Low, il compito di aprire un album che tra colpi ossessivi e stimolanti esperienze sonore non può mai lasciare impassibili.
Gira ha sciolto la formazione della band che ha registrato la trilogia monstre, lasciando al documentario ‘Where Does a Body End?’ il compito di traghettare il nome degli Swans verso il posto che merita nella storia culturale e musicale degli ultimi 35 anni. L’uscita di Leaving Meaning nel 2019 ha onfermato la capacità incredibile di Michael Gira di risorgere sempre meravigliosamente dalle proprie ceneri.
![](http://www.stefanosantoni14.it/wp-content/uploads/2019/07/fiona-apple.jpg)
Il secondo album del 2012 è un lavoro dalla complessa e lunga gestazione. Guardi una foto di Fiona Apple, ascolti le sue canzoni, e pensi “una così potrebbe avere tutto il music business ai suoi piedi!”, ed invece no. La talentuosa e bella Fiona è quanto di più distante possa esserci dal mondo rutilante del red carpet. Una ragazza con un’adolescenza travagliata e difficile alle spalle, che ha saputo reggere l’urto di un avvenimento che non può non lasciare il segno nella vita di chiunque con grande personalità. Dopo i primi due album che avevano riscosso un gran successo sia di pubblico che di critica, nel 2003 la Apple aveva registrato insieme a Jon Brion il terzo Extraordinary Machine. Ma la Epic Records, che si aspettava un elevato riscontro, non aveva gradito la scrittura del disco definita “poco commerciale”.
L’artista, sicura dei propri mezzi ed incurante della multinazionale che aveva bloccato la produzione, distribuì lo stesso gratuitamente l’album in rete, anche se la maggior parte delle canzoni uffiialmente vennero leaked. I fans della Apple protestarono sotto la sede della Sony per una settimana in maniera fragorosa. Il risultato fu che la Apple registrò nuovamente l’album che uscì ufficialmente sul mercato due anni dopo, nell’Ottobre 2005. Nel 2012 è uscito il suo quarto lavoro (e per ora ultimo) dal titolo lunghissimo: The Idler Wheel Is Wiser Than The Driver Of The Screw And Whipping Cords Will Serve You More Than Ropes Will Ever Do. Uno sfaccettato e meraviglioso diario personale, che mostra la maturità di un’artista di straordinaria sensibilità e talento, come dimostra la splendida “Every Single Night”.
![Fire! Orchestra](http://www.stefanosantoni14.it/wp-content/uploads/2014/06/Fire-Orchestra01.jpg)
Chi segue i miei podcast sa bene che i Fire!, trio avant-jazz che vede dietro i tamburi Andreas Werliin, metà dei Wildbirds & Peacedrums, e gli stessi W&P, appaiono abbastanza regolarmente nelle mie scalette per il loro approccio in perfetto equilibrio tra jazz, psichedelia, attitudine garage, e primitivismo folk-blues spogliato da ogni orpello. Nel corso del 2013 i Fire! (Mats Gustafsson: sassofoni, Fender Rhodes e elettronica, Johan Berthling: basso e Andreas Werliin: batteria) sono riusciti a riunire altri 25 musicisti della scena improv-alt-jazz-rock svedese (tra cui la moglie di Werliin e metà dei W&P Mariam Wallentin) allargando l’ensemble e dando vita, sotto il nome di Fire! Orchestra, ad un baccanale orgiastico dove suggestioni di jazz astrale (con Sun Ra come nume tutelare ed esplicito riferimento), kraut-rock, psichedelia, improvvisazioni, accelerazioni soul riescono ad incastrarsi perfettamente.
Tutto questo ha reso Exit! una delle migliori uscite del 2013, entrando a pieno diritto nella top 5 di molte playlist specializzate. “Exit! Part One” è il riassunto di un disco che si sviluppa nel format della traccia singola per lato, colpendo per sfrontatezza, entusiasmo nel lasciarsi andare senza rete nel mescolare e trasformare free-jazz, canzoni, noise, kraut-rock in un’estatica orgia di suoni.
![Sleaford Mods - 2017 photosession](http://www.stefanosantoni14.it/wp-content/uploads/2017/03/sleaford-mods.jpg)
Il 2014 in musica è rappresentato dall’esplosione di uno dei miei gruppi preferiti degli ultimi anni. Quante volte nei podcast ho parlato in termini entusiastici degli Sleaford Mods? Sulla mia predilezione per la loro forza rabbiosa mi sono espresso più di una volta. Dopo ben 5 CDr ed un album passato quasi sotto silenzio, è con Divide And Exit che esplode davvero il fenomeno Sleaford Mods. Il duo punk-hop di Nottingham formato da Jason Williamson e Andrew Fearn è assolutamente devastante. Un concentrato di invettive feroci condite da una base musicale sempre all’altezza della situazione. Sulle ossessive e diversificate basi di Fearn, Williamson sputa fuori uno sferragliante e incontrollabile flusso di parole nel suo tipico slang delle East Midlands, tanto travolgente quanto per noi italiani quasi incomprensibile. Provate a seguirlo leggendo i testi perché capirlo non è affatto facile.
Impietosi, dispettosi, urticanti, politicamente scorretti, l’album è composto da 14 brandelli sanguinanti di vita reale, tra cui l’invettiva di “Tied Up In Nottz” inserita in scaletta. Non c’è scorciatoia, non c’è redenzione tra le basi in altalena tra post-punk e hip hop snocciolate dal sogghignante Fearn e il fiume in piena che esce dalla bocca in perenne contorsione di Williamson. Dopo Divide And Exit gli Sleaford Mods hanno pubblicato altri tre album, uno più bello dell’altro. La loro formula è ormai facilmente identificabile, ma la semplicità con cui i due la fanno evolvere rimanendo fedeli a loro stessi è meravigliosamente spaventosa. I tempi sono cambiati, e i due spiattellano con cruda onestà le piaghe non solo inglesi ma sociali in generale incarnando in modo perfetto la vera essenza del punk pur non essendolo stilisticamente.
![Sufjan Stevens - Live 2015](http://www.stefanosantoni14.it/wp-content/uploads/2020/02/sufjan-stevens-live-2015.jpg)
Davo ormai per perso artisticamente un dotato autore come Sufjan Stevens, fino a quando non è arrivato nel 2015 Carrie & Lowell (recensione). Una copertina con una foto rovinata dal tempo, due nomi che campeggiano, riferiti alla coppia della foto. Non due personaggi immaginari, bensì persone vere, reali. Lowell è Lowell Brams, patrigno di Stevens e co-fondatore con lo stesso figliastro dell’etichetta indipendente Asthmatic Kitty; mentre Carrie è la madre dello stesso Stevens. Carrie, che soffriva di disturbi bipolari e faceva abuso di droghe, ha abbandonato Sufjan quando era ancora un bimbo, un distacco che ha segnato profondamente il songwriter di Detroit.
Un destino crudele sotto forma di male incurabile ha portato via Carrie proprio quando le ferite di quel distacco si stavano finalmente cicatrizzando, e questo dolore ha portato Stevens ad abbandonare le sue precedenti trovate, spesso fin troppo elaborate, rifugiandosi in una visione che mai è stata così scarna, dolente, sussurrata e confidenziale, e allo stesso tempo così completa e matura. Una confessione. 11 fotografie registrate a bassa fedeltà in un afflato di ricordi, rimorsi, pentimenti e gioie. 11 canzoni che abbandonano completamente gli arrangiamenti fastosi del passato per emergere in tutta la loro semplice nudità.
Stavolta Stevens, mettendosi a nudo, riesce a coinvolgere empaticamente l’ascoltatore raccontando la sua vita, pizzicando le corde della sua chitarra e del suo cuore. Dopo aver inserito nello scorso podcast la bellezza di “Should Have Known Better”, stavolta non ho saputo resistere al commovente racconto dell’ultimo dialogo in un letto di ospedale di “Fourth Of July”. Un disco solitario ed intimo, colmo allo stesso tempo di fede e di scetticismo, fino alla resurrezione della fiducia e dei sogni. Un disco da riscoprire ogni volta per la sua umanità, emotività e per la sua accecante bellezza.
![David Bowie - "Blackstar" photosession 2015](http://www.stefanosantoni14.it/wp-content/uploads/2017/02/david_bowie_blackstar.png)
A rappresentare il 2016 ci sono ben due album. Per primo troviamo un artista che nelle classifiche di fine anno è riuscito a mettere d’accordo riviste e webzine sia mainstream che alternative. Impresa estremamente complicata ma meritata quella riuscita al testamento sonoro di David Bowie intitolato ★(Blackstar). Il disco, pubblicato appena due giorni prima della morte del grande artista, fortunatamente ha fatto in tempo ad essere giudicato da quasi tutti per le sue grandi qualità musicali e non per l’onda emotiva generata dalla sua prematura scomparsa. L’album (anche cercando di assorbire l’enorme impatto emozionale), è probabilmente da mettere su un ideale podio delle sue pubblicazioni degli ultimi 20 anni.
Blackstar è stato registrato insieme a un gruppo di jazzisti newyorkesi guidati dal sassofonista Donny McCaslin, dove tra rock classico e sperimentazioni Bowie ci ha voluto lasciare un testamento meravigliosamente intenso ed emozionante, come dimostra la splendida “Lazarus”.
![Chris Forsyth & Solar Motel Band - 2016](http://www.stefanosantoni14.it/wp-content/uploads/2019/06/chrisforsyth_solarmotelband.jpg)
Il secondo album a rappresentare il 2016 è quello che quattro anni fa ho messo in vetta alla mia personale classifica. Chris Forsyth, ex chitarrista dei fantasiosi Peeesseye (un trio di pazzi furibondi che amavano celebrare arditi baccanali dedicati all’improvvisazione e all’avant-rock), dopo lo scioglimento della band ha intrapreso un percorso estetico diametralmente opposto. Il suo Solar Motel del 2013 è stata la scintilla che gli ha fatto venire l’idea di creare una vera band, chiamata proprio The Solar Motel Band, con cui poter definitivamente accantonare le asprezze del suo precedente progetto e approdare ad un suono in grado di bilanciare l’amore per il suono chitarristico trascendente degli anni ’70 con la sperimentazione dei giorni nostri.
Le tracce che compongono questo lungo doppio album chiamato The Rarity Of Experience sono state curiosamente concepite in versione acustica. Dovevano infatti accompagnare una pièce teatrale di Miguel Gutierrez, e solo successivamente (tra dicembre 2014 e ottobre 2015) sono state sviluppate e registrate nella versione definitiva. Il disco è diviso idealmente in due parti, la prima più di impatto sonoro e istintivamente rock, un maestoso monumento allo strumento principe del rock che viene portato in trionfo da una ritmica sostenuta su centinaia di chilometri di strade blu, la seconda che va a privilegiare la bontà del suono, l’elevazione dell’elegia, gli stimoli cerebrali. Stavolta ho inserito nel podcast la title track, un brano di grande presa diviso in due parti. Un lavoro splendido, dove coesistono perfettamente entrambe le anime del chitarrista, quella classica e quella rivoluzionaria.
![Idles - Live 2017](http://www.stefanosantoni14.it/wp-content/uploads/2020/02/Idles-live2017.jpg)
Anche il 2017 è rappresentato da due gruppi. Gli Idles nascono a Bristol nel 2010 con una spiccata attitudine punk e uno sguardo a 360 gradi verso l’evolversi della situazione sociale e politica in Gran Bretagna. Il cantante Joseph Talbot, i chitarristi Mark Bowen e Lee Kiernan, il bassista Adam Devonshire e il batterista Jon Beavis, assorbono mano mano rabbia ed urgenza facendola poi defluire lentamente, scandendo le uscite e preparandole con grande meticolosità. Dopo tre EP, il devastante esordio sulla lunga distanza fra post-punk e post-hardcore della formazione di Bristol si è materializzato nel 2017 e si intitola Brutalism. Il disco è stato registrato dopo la morte della madre di Talbot, citata da par suo nella fragorosa “Mother”, brano in cui stavolta il bersaglio dichiarato è il partito Conservatore britannico: “My mother worked 15 hours 5 days a week. My mother worked 16 hours 6 days a week. My mother worked 17 hours 7 days a week. The best way to scare a Tory is to read and get rich”.
Come a dire che l’unico modo possibile per spaventare un Conservatore è diventare ricco in modo da essere visto come un possibile avversario. La sezione ritmica è un rullo compressore, le chitarre sono adrenaliniche nel loro liberatorio lasciarsi andare. Il tagliente realismo delle tematiche sociali viene raccontato con pathos e refrain travolgenti. Joseph Talbot e compagni sanno perfettamente come raggiungere e coinvolgere emotivamente gli ascoltatori, riuscendo a scuotere tutti dall’apatia con il loro messaggio tanto sgradevole e brutale quanto reale. Carne e sangue, naked truth, francamente non riesco a chiedere di meglio.
![](http://www.stefanosantoni14.it/wp-content/uploads/2017/06/The_Dream_Syndicate-World_Cafe-2.jpg)
Il secondo album a rappresentare il 2017 è quello che sancisce la reunion di un gruppo storico. Cinque anni dopo essersi riuniti esclusivamente per alcuni concerti, i The Dream Syndicate, una delle band cardine del Paisley Underground hanno pubblicato il loro primo album dopo ben 29 anni di silenzio, How Did I Find Myself Here? infatti è il primo disco della band di Steve Wynn dopo Ghost Stories uscito nel 1988. La band che vede oltre a Wynn il batterista originale Dennis Duck, il bassista Mark Walton (che si unì al gruppo dopo l’uscita di Medicine Show) e il chitarrista Jason Victor, che suona nei The Miracle 3, l’altra band di Steve Wynn, aveva iniziato a registrare l’album nel 2016.
Ed è un album incredibilmente bello, che suona allo stesso tempo attuale e classico, con il cameo finale di Kendra Smith, bassista originaria della band che decise di lasciare nel 1983 dopo lo splendido debutto di The Days of Wine and Roses. Prodotto da Chris Cacavas che suona anche l’organo, è un album dove si accavallano energia e sogno, chitarre che duellano e momenti di sperimentazione, il tutto con una scrittura ispirata e riconoscibile. Per rappresentare il disco ho scelto uno dei brani più ispirati e tirati, la splendida “80 West”.
![](http://www.stefanosantoni14.it/wp-content/uploads/2019/07/RyCooder-2018.jpg)
A rappresentare il 2018 ho scelto i due artisti che più sono riusciti ad emozionarmi. Riesce ancora a sorprendere Ry Cooder, pur essendo in attività da quasi 10 lustri. Nato come musicista da un amore infinito per la tradizione folk, ha deviato la sua traiettoria più volte, scrivendo colonne sonore magistrali come Paris, Texas o sbancando i botteghini creando quasi dal nulla il fenomeno Buena Vista Social Club. Ma Cooder è un musicista che non deve dimostrare più niente a nessuno, ed eccolo tornare a sette anni di distanza dallo splendido Pull Up Some Dust And Sit Down con un nuovo album che attinge a piene mani dal repertorio della musica con cui è nato.
The Prodigal Son è un esemplare ed emozionante compendio di musiche folk, gospel e blues prese in prestito, impreziosito da alcune nuove canzoni scritte per l’occasione che non sfigurano affatto accanto ad autentici capolavori della musica tradizionale americana: una tra tutte “Nobody’s Fault But Mine” di Blind Willie Johnson. Un ritorno al passato guardando al futuro, un disco magistrale. Se volete ascoltare la differenza tra un artista che suona folk blues ed uno che con quella musica nel sangue c’è nato, mettete semplicemente la puntina sui solchi di questo meraviglioso album e lasciatevi travolgere dalle emozioni di canzoni meravigliose come la “Shrinking Man” inserita in scaletta.
![Low - Live in Glasgow 2018](http://www.stefanosantoni14.it/wp-content/uploads/2020/02/Low-liveinGlasgow2018.jpg)
Mai come nel 2018 ho assistito ad un vero e proprio plebiscito nell’assegnare la corona di miglior disco dell’anno da parte di riviste specializzate e webzine di settore, spesso rivolte ad un pubblico molto differente tra loro. A dire il vero anche da parte mia non c’è stato alcun dubbio nel mettere questo album sul gradino più alto del podio. Mai come in questo caso avrei voluto davvero possedere il dono di trasformare le emozioni in parole di senso compiuto. Solo così potrei descrivere al meglio Double Negative, il nuovo album dei Low. Un buco nero che inghiotte senza pietà, detriti e schegge elettroniche che nascondono una bellezza indicibile.
Pazzesco pensare come Alan Sparhawk (chitarra e voce) e la sua consorte Mimi Parker (batteria e voce) abbiano esordito nel 1994 con un capolavoro come I Could Live In Hope e a distanza di 24 anni riescano ancora a sorprenderci. Il duo di Duluth si fa accompagnare dal bassista Steve Garrington (con loro da un decennio), per uno dei viaggi più coraggiosi che abbiano mai intrapreso. L’elettronica, da un po’ di tempo compagna del trio, stavolta muta il DNA della band, alterandolo senza possibilità di ritorno. Gocce di sangue, macerie fumanti di canzoni talmente celate sotto gli spasmi di feedback e la pioggia di detriti cibernetici che quando la voce dei nostri emerge senza filtri è come se una luce celestiale illuminasse all’improvviso la distesa funerea di Mordor. Anche nella dimensione live la band ha dimostrato il suo straordinario momento di forma e creatività. La triade iniziale “Quorum – Dancing And Blood – Fly” rivela la bellezza sublime di questo lavoro più di mille parole, soprattutto delle mie.
![](http://www.stefanosantoni14.it/wp-content/uploads/2019/05/BILL_CALLAHAN_1600x1067.jpg)
Chiudiamo il podcast con un album che rappresenta l’anno terminato un paio di mesi fa. Ho sempre amato le canzoni in bassa fedeltà, pervase da un ambientazione decadente, da una malinconia che non raramente viene attraversata da un pungente sarcasmo. Questo songwriter ad inizio carriera amava nascondesi dietro al moniker di Smog, ma dal 2007, dopo aver rilasciato diversi album notevoli tra cui il capolavoro Julius Caesar, ha deciso di firmarsi semplicemente con il suo vero nome, Bill Callahan. Esponente di punta di un certo tipo di cantautorato lo-fi insieme a Will Oldham o al compianto Jason Molina, Callahan ha sempre continuato a sfornare album mai meno che eccellenti, come lo splendido Dream River, pubblicato nel 2013. Le sue composizioni sono semplici ma mai banali, suonate in punta di dita, sussurrate, attraversate da anni di folk, country, da storie di vita vissuta da raccontare con intelligente sarcasmo.
Dopo sei anni di silenzio, finalmente Bill è tornato con un album lungo, impegnativo ma appagante. Nel frattempo il nostro eroe si è sposato con la fotografa e regista Hanly Banks e quattro anni fa la coppia ha accolto in famiglia il figlio Bass. L’essere diventato marito e padre ha fatto sì che il nuovo album racchiuda ben 20 tracce molto rilassate ed intimiste. C’è sempre la bassa fedeltà a farla da padrona, con il padrone di casa ad accoglierci nel suo mondo con un accompagnamento alla chitarra che non è mai stato così rilevante e tecnico. In questo Shepherd In A Sheepskin Vest, Callahan mostra una crescita umana e personale che è evidente nella bontà dei pezzi inclusi in scaletta, tra cui spicca la vibrante e bellissima “Camels”.
Un grazie speciale va, come sempre, a Franz Andreani per la sua passione, la gestione di questa banda di pazzi e per la splendida riorganizzazione del sito già attiva da qualche anno. A cambiare non è stata solo la versione grafica del sito, ma anche la “filosofia” della podradio, con le rubriche che vanno ad integrarsi nella programmazione regolare sotto l’hashtag #everydaypodcast. Da giugno 2019 è attivo lo splendido canale YouTube della Radio, una nuova formula senza interruzioni ne spot per ascoltare la vostra-nostra musica preferita. Iscrivetevi numerosi, vi aspettiamo! Naturalmente ogni aggiornamento e notizia sarà nostra premura comunicarla sulla nostra pagina Facebook.
Nel 6° Episodio di Sounds & Grooves troverete alcune nuove uscite ed il mio piccolo tributo ad alcuni musicisti che, in tempi differenti, hanno saputo emozionarmi e che da poche settimane ci hanno lasciato come Neil Peart, Andy Gill, Dave Roback e Lyle Mays. Il tutto, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
Intanto se volete potete sfruttare la parte riservata ai commenti qui sotto per darmi suggerimenti, criticare (perché no), o proporre nuove storie musicali. Mi farebbe estremamente piacere riuscire a coinvolgervi nella programmazione e nello sviluppo del mio sito web.
Se volete ascoltare o scaricare il podcast, potete farlo anche dal sito della stessa PodRadio cliccando sulla barra qui sotto. Buon Ascolto
TRACKLIST
01. JOANNA NEWSOM: Good Intentions Paving Company da ‘Have One On Me’ (2010 – Drag City)
02. JOSH T. PEARSON: Country Dumb da ‘Last Of The Country Gentlemen’ (2011 – Mute)
03. SWANS: Lunacy da ‘The Seer’ (2012 – Young God Records)
04. FIONA APPLE: Every Single Night da ‘The Idler Wheel Is Wiser Than…’ (2012 – Clean Slate / Epic)
05. FIRE! ORCHESTRA: Exit! Part One da ‘Exit!’ (2013 – Rune Grammofon)
06. SLEAFORD MODS: Tied Up In Nottz da ‘Divide And Exit’ (2014 – Harbinger Sound)
07. SUFJAN STEVENS: Fourth Of July da ‘Carrie & Lowell’ (2015 – Asthmatic Kitty)
08. DAVID BOWIE: Lazarus da ‘★ (Blackstar)’ (2016 – ISO Records / Columbia)
09. CHRIS FORSYTH & THE SOLAR MOTEL BAND: The Rarity Of Experience da ‘The Rarity Of Experience’ (2016 – No Quarter)
10. IDLES: Mother da ‘Brutalism’ (2017 – Balley Records)
11. THE DREAM SYNDICATE: 80 West da ‘How Did I Find Myself Here?’ (2017 – Anti-)
12. RY COODER: Shrinking Man da ‘The Prodigal Son’ (2018 – Fantasy Records)
13. LOW: Quorum-Dancing And Blood-Fly da ‘Double Negative’ (2018 – Sub Pop)
14. BILL CALLAHAN: Camels da ‘Shepherd In A Sheepskin Vest’ (2019 – Drag City)