Mai come quest’anno ho assistito ad un vero e proprio plebiscito nell’assegnare la corona di miglior disco dell’anno da parte di riviste specializzate e webzine di settore, spesso rivolte ad un pubblico molto differente tra loro. La ragione è semplice: anche da parte mia non c’è stato alcun dubbio nell’assegnare a questo disco la palma del migliore dell’anno, anche se capisco chi ha trovato il disco insopportabilmente claustrofobico. Mai come in questo caso avrei voluto davvero possedere il dono di trasformare le emozioni in parole di senso compiuto. Non avete idea di quante volte ho provato ad approcciare il tentativo di descrivere al meglio Double Negative, il nuovo album dei Low, e quante volte ho abortito il tentativo. Un buco nero che inghiotte tutto senza pietà, detriti e schegge elettroniche tra i loro vortici nascondono una bellezza indicibile. Pazzesco pensare come Alan Sparhawk (chitarra e voce) e la sua consorte Mimi Parker (batteria e voce) dopo aver esordito nel 1994 con un capolavoro come I Could Live In Hope riescano a distanza di 24 anni ancora a sorprenderci. Il duo di Duluth si era fatto accompagnare per la quarta volta dal bassista Steve Garrington (con loro a partire dalle registrazioni di C’mon del 2011), e per la seconda volta dall’avventuroso ed energetico produttore B.J. Burton, per uno dei viaggi più coraggiosi che abbiano mai intrapreso. L’elettronica, da un po’ di tempo compagna del trio, stavolta ha mutato inesorabilmente il DNA della band, alterandolo senza possibilità di ritorno. Gocce di sangue, macerie fumanti di canzoni talmente celate sotto gli spasmi di feedback e la pioggia di detriti cibernetici che quando la voce dei nostri emerge senza filtri è come se una luce celestiale illuminasse improvvisamente la distesa funerea di Mordor.
Il contrasto di elementi tra bello e brutto, tra melodia e rumore, il difficile equilibrio tra qualità e difetti che ha sempre incuriosito i Low come esseri umani, e che cercano da sempre di portare in musica, stavolta è stato spinto fino all’eccesso. Era tanta la curiosità di vedere come i tre avrebbero potuto rendere sul palco gli “eccessi” di texture e loop elettronici che rendono Double Negative così speciale. Una splendida serata primaverile accoglie il trio di Duluth, e la Sala Sinopoli dell’Auditorium romano presenta un ottimo colpo d’occhio. La data non è sold-out come quella di Bologna, ma sono davvero poche le poltroncine rimaste vuote. Sul palco c’è solo la strumentazione ridotta all’osso dei musicisti e tre file verticali di tubi led che saranno (quasi) le uniche luci ad illuminare la performance.
Senza gruppo spalla e con un piccolissimo ritardo (il classico quarto d’ora accademico) i tre salgono sul palco, dopo che è stato ricordato a tutti (fortunatamente) di non registrare video o scattare foto. In realtà vista la penombra che ha caratterizzato l’intero set, ogni registrazione o foto sarebbe stata di qualità non proprio eccelsa. Tutto serve a farci concentrare sulla musica, sulla macchina scura di suoni che fa subito entrare subito nel mood del nuovo album con la scura ed avvolgente “Quorum”, mentre la seguente “Always Up” è sospesa e sognante, con l’eterea voce di Mimi Parker a fare da padrona. Il finale diluito del secondo estratto da Double Negative ci catapulta direttamente dalle parti di “No Comprende”, brano dallo svolgimento più classico, cantato da Sparhawk con i cori della Parker a fare da perfetto contraltare alle pennate secche del coniuge.
Ad alleggerire il suono ci pensano due brani in sequenza estratti da The Invisible Way: “Plastic Cup” e “Holy Ghost”, ballata cantata splendidamente da Mimi Parker, dopo le quali Sparhawk prende parola per la prima volta ringraziando quasi timidamente i presenti. Candele e stelle si alternano nelle proiezioni sui tubi a led, intrecciandosi con i suoni limpidi del dream-pop di “What Part of Me”, prima che l’oscurità e le schegge appuntite provenienti dagli effetti di Sparhawk avvolgano la sala con una delle tracce più scure del nuovo album, un monolite inattaccabile di nome “Tempest”, il cui crescendo rumoristico finale sfocia in una delle tracce più sperimentali della loro carriera, la lunga “Do You Know How to Waltz?” in cui il chitarrista si lascia andare in una lunghissima coda di effetti, entrando letteralmente dentro la sua sei corde in una chiosa dissonante dove ci si aspetta da un momento all’altro di essere inghiottiti dal sottosopra di Stranger Things. Una digressione sperimentale e liberatoria che, come spesso accade con i Low, ci porta dal rumore alle melodie più accecanti, con l’esecuzione di uno dei loro brani più “vecchi” e conosciuti. “Lazy” è una meravigliosa mid-tempo psichedelica, impreziositi dai meravigliosi incastri vocali dei due, nonché unico estratto dal loro esordio, I Could Live In Hope del 1994.
Il tribalismo del loop introduttivo di “Dancing and Blood” ci fa tornare nel buio della loro ultima fatica in studio, oscurità squarciata dalla voce di Mimi Parker, che sembra sempre provenire da un’altra dimensione. A seguire ci sono altri due estratti dell’ultimo album, “Always Trying to Work it Out” dove Sparhawk si lascia andare in uno splendido assolo, e l’onirica “Poor Sucker” cantata all’unisono. C’mon è rappresentato dalla “Nothing But Heart” e “Especially Me”, due brani dall’incedere inverso. Se la prima parte distorta per poi distendersi in un’ariosa melodia, la seconda parte da un arpeggio cristallino per poi disturbarsi in mezzo e chiudersi in un tripudio di applausi quando ancora nell’aria echeggia il “Probably You” di Mimi Parker.
C’è spazio per un altro barlume di luce, un’oasi di pace di bellezza assoluta, la sognante “Lies” che viene eseguita alla perfezione da una band ispiratissima, con il basso pulsante di Steve Garrington che dimostra ancora una volta di essere tutto tranne una comparsa. I due ultimi brani del setlist appartengono di nuovo al saccheggiatissimo Double Negative, dalla sognante “Fly” ad una “Disarray” in cui il trio conclude in maniera orgogliosa la propria battaglia in mezzo alle onde gigantesche di un mare scuro, a volte vincendo e a volte venendo scaraventati sugli scogli. Sparhawk ringrazia, presenta i componenti della band e tutti quelli che hanno collaborato al tour per poi sparire dietro ai pannelli.
Secondo una scaletta consueta, i tre rientrano sul palco, regalando al pubblico di Roma addirittura due bis e lasciandoci non con la “Sunflower” che ha chiuso la quasi totalità delle date del Tour ma con una sorprendente “Laser Beam”, estratta da uno dei miei album preferiti, Things We Lost In Fire, sospesa tra il meraviglioso arpeggio di Sparhawk e l’incredibile voce della Parker, doppiata addirittura dalla splendida “Murderer” , un finale che indubbiamente ha lasciato i presenti estenuati e felici sulle poltroncine dopo oltre 100 minuti di incredibile bellezza.
Il trio di Duluth, Minnesota, non delude affatto nella versione live, anzi, in questo imperfetta ed incredibile ricerca di un equilibrio tra armonia e dissonanze, tra spasmi di feedback e voci eteree, riesce a farci credere di nuovo che una certa onestà e coerenza creativa possa davvero esistere e fare la differenza nel music business attuale. Magari qualcuno poteva aspettarsi un maggior ripescaggio dai primi lavori del gruppo, ma il paziente lavoro di sottrazione, di erosione alla ricerca di segreti nascosti, di perle scintillanti di indicibile bellezza effettuato con Double Negative meritava senza dubbio questa percentuale di brani (8 su 19) nella setlist.
In definitiva, ha sbalordito la capacità della band di controllare rumore e melodie in modo così apparentemente totale, ed una naturalezza e semplicità da parte dei tre musicisti davvero incredibile. Mi ha quasi commosso l’essere così sinceramente grato, felice e quasi in imbarazzo da parte di un musicista che calca i palcoscenici da 25 anni e la tenerezza di Mimi Parker che dopo aver cantato in maniera angelica e suonato i (pochi) tamburi davanti a se con precisione e tribalismo quasi “Tuckeriano”, si è concessa un quasi imbarazzato saluto con la mano per poi sparire subito dietro al pannello a led posizionato dietro al suo drumkit. Con l’augurio che non possano mai smettere di emozionarci e sorprenderci, lunga vita ai Low: come non mai abbiamo bisogno di loro.
SETLIST
01. Quorum (Double Negative – 2018)
02. Always Up (Double Negative – 2018)
03. No Comprende (Ones And Sixes – 2015)
04. Plastic Cup (The Invisible Way – 2013)
05. Holy Ghost (The Invisible Way – 2013)
06. What Part Of Me (Ones And Sixes – 2015)
07. Tempest (Double Negative – 2018)
08. Do You Know How To Waltz? (The Curtain Hits The Cast – 1996)
09. Lazy (I Could Live In Hope – 1994)
10. Dancing And Blood (Double Negative – 2018)
11. Always Trying To Work It Out (Double Negative – 2018)
12. Poor Sucker (Double Negative – 2018)
13. Nothing But Heart (C’mon – 2011)
14. Especially Me (C’mon – 2011)
15. Lies (Ones And Sixes – 2015)
16. Fly (Double Negative – 2018)
17. Disarray (Double Negative – 2018)
Encores
18. Laser Beam (Things We Lost In The Fire – 2001)
19. Murderer (Drums And Guns – 2007)