Ecco il sesto podcast di Sounds & Grooves per il 18° anno di RadioRock.TO The Original
In questa nuova avventura in musica troverete un avvio adrenalinico e moltissime novità
Eccoci di nuovo puntuali con l’appuntamento quindicinale di Sounds & Grooves che per il 18° anno consecutivo impreziosisce (mi piace pensarlo) lo straordinario palinsesto di www.radiorock.to. 18 anni…siamo diventati maggiorenni!!!! A pensarci è incredibile che sia passato già così tanto tempo da quando abbiamo iniziato questa folle ma fantastica avventura. Come (credo) sappiate, la nostra podradio è nata per dare un segnale di continuità con quella meravigliosa radio del passato che molti custodiscono nel cuore e a cui ho provato a dare un piccolo contributo dal 1991 al 2000.
Sappiamo tutti benissimo che la Radio Rock in FM come la intendevamo noi è sparita da tanto tempo, ma in tutti questi anni di podcast sul web abbiamo cercato di tenere accesa quella fiammella per poi tentare di moltiplicarla, facendola diventare un faro di emozioni e qualità musicale. Perché la passione e la voglia di fare radio, la voglia di ascoltare e di condividere la musica di qualità, nonostante tutto, non ci è mai passata.
Questa creatura dopo quasi 4 lustri continua orgogliosamente a remare controcorrente, cercando quella libertà in musica che nell’etere è ormai diventata una mosca bianca, ed esprimendo con forza la passione per la condivisione, per la ricerca, per l’approfondimento. Non dobbiamo aderire ad una cieca linea editoriale che ormai spinge esclusivamente il pulsante play dei servizi di streaming, ma ci lasciamo guidare semplicemente dal nostro cuore e dalla nostra passione. Fulvio Savagnone, Marco Artico, Giampiero Crisanti, Franz Andreani, Flavia Cardinali, Francesco Cauli, Ivan Di Maro, Massimo Santori aka Moonchild, Maurizio Nagni ed io proviamo ogni giorno a coinvolgervi con i nostri podcast regolari e con le rubriche tematiche di approfondimento, sperando di farvi sentire sempre di più parte di questa fantastica avventura.
Questo sesto episodio stagionale avrà un inizio adrenalinico con il punk rimodellato dei Refused e l’energia degli Idles. Andremo poi a ripercorrere gli inizi del punk in GB con gli Alternative TV e ascolteremo le asperità degli E di Thalia Zedek. Tra gli album targati 2023 troveremo cose molto diverse tra loro: l’appiccicoso groove garage-blues dei The Black Delta Movement, l’introspettiva emotività dei The Murder Capital, il songwriting lussuoso di Glen Hansard, la maturità raggiunta da Marta Del Grandi e il ritorno dei Radian, maestri nel creare suoni tra elettronica e post-rock. Andremo anche a ripercorrere un periodo scuro emotivamente per Neil Young, balleremo con un gruppo di culto del lo-fi USA come i Wingtip Sloat e ascolteremo rapiti la qualità della scrittura di Josephine Foster. E se il piano e la voce di Azita ci trasporteranno in un mondo introverso e struggente, il gran finale sarà appannaggio delle meraviglie ritmiche di John Colpitts aka Kid Millions (negli Oneida) e aka Man Forever (da solo) in combutta con una straordinaria Laurie Anderson. Il tutto, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
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Nello scorso episodio abbiamo parlato di una serie chiamata The Bear, che oltre ad essere una delle più riuscite degli ultimi anni, ha anche a suo favore una colonna sonora di tutto rispetto. Alcuni dei momenti più ansiogeni (o adrenalinici) sono sottolineati da questo brano che ho messo in maniera programmatica ad inizio podcast. Nel 1998 una punk band svedese chiamata Refused pubblicò il terzo album in studio intitolato The Shape Of Punk To Come, rifacendosi già dal titolo ad un disco fondamentale della storia del jazz uscito nel 1959: The Shape Of Jazz To Come di Ornette Coleman. Come aveva fatto il sassofonista statunitense 40 anni prima, l’intento di Dennis Lyxzén (voce), Kristofer Steen (chitarra, basso, batteria), Jon Brännström (chitarra, campionatore) e David Sandström (batteria, chitarra) era quello di ridefinire l’hardcore punk conosciuto fino a quel momento.
I quattro ragazzi svedesi misero di tutto nel calderone: gli insegnamenti anarchici di Karl Marx e Errico Malatesta, elettronica quasi club techno, ritmiche jazz (c’era perfino John Coltrane che li osservava in quarta di copertina), field recordings e samples. Il disco, come spessissimo accade nella storia del rock, ebbe uno scarso successo commerciale, venendo poco pubblicizzato dall’etichetta Burning Heart Records e vendendo in un anno poco più di sole 1400 copie negli Stati Uniti. Tutto questo provocò sconforto e dissidi all’interno della formazione, tra cui (pare) un litigio tra Lyxzén e Brännström nel backstage di un concerto in Svezia e portando il quartetto allo scioglimento l’anno successivo. “New Noise” è solo un esempio di quello che potete ascoltare nelle 12 tracce di questo album esplosivo che ha avuto il giusto riconoscimento solo recentemente. Il gruppo si è riunito nel 2015 dopo 17 anni di silenzio.
Restiamo in ambientazioni adrenaliniche. Era da un po’ che non passavo un gruppo che è apparso spesso e volentieri su queste pagine. La carriera degli Idles è stata preparata lentamente, ma probabilmente nemmeno loro avrebbero potuto prevedere l’esplosione in terra britannica e non solo, sin dalla pubblicazione dell’album di esordio Brutalism nel 2017. La band di Bristol ha subito occupato un posto speciale nei cuori del pubblico assetato di post punk vero e senza fronzoli. Le liriche di Joe Talbot non hanno fatto prigionieri, spiattellando in maniera a volte cruda ma reale i disagi di una generazione spiazzata dalla Brexit e desiderosa di giustizia ed equità.
Mentre il quintetto britannico sta preparando la pubblicazione del quinto album in studio intitolato Tangk, in uscita il 16 febbraio 2024, sono tornato indietro al 2019, quando il gruppo ha pubblicato l’atteso secondo album. Come sempre quando si ha un’aspettativa molto alta, si temeva un calo nel famoso complicato secondo album. Joy As An Act Of Resistance aveva però spazzato via tutti i dubbi e le paure. E’ un lavoro uguale ma diverso, mantiene tutti i cromosomi che hanno legittimato il successo dell’esordio, aggiungendo (se possibile) ancora più carica drammatica. Sempre cinici, sempre sarcastici, forse con ancora più consapevolezza dell’enorme potenziale che hanno in mano. “Never Fight A Man With A Perm” è solo una delle frecce avvelenate che compongono l’album. Dopo che l’estrema popolarità ha portato alla band di Bristol, come prevedibile nei nuovi perversi meccanismi social, molti attacchi frontali, chissà se Tangk manterrà alto il loro standard qualitativo.
Ormai non c’è dubbio che se si parla di una certa (nuova) scena chiamata post punk (ma sarebbe quasi più centrato chiamarla post-post-punk) associata all’Irlanda, il primo nome che viene a mente è quello dei Fontaines D.C. E non potrebbe essere altrimenti visto il successo e la qualità mostrata dai ragazzi di Dublino nei loro tre album pubblicati. Ma con l’uscita del secondo lavoro i The Murder Capital capitanati dal cantante James McGovern hanno dimostrato che in quanto a profondità ed emotività non vogliono rimanere affatto sullo sfondo della scena irlandese. Già dall’esordio When I Have Fears nel 2019 avevano tracciato delle coordinate ben precise: chitarre lancinanti e più abrasive dei concittadini alternate a momenti riflessivi e drammatici.
Al posto di inflazionare il mercato, i dublinesi si sono presi qualche anno di pausa per lasciar sedimentare nuove suggestioni sonore e iniziare un percorso che dall’oscurità dell’esordio potesse passare verso nuove tracce meno urgenti e più profonde e consapevoli. Una specie di percorso di “guarigione” evidente già dal titolo del nuovo lavoro: Gigi’s Recovery. Un disco più introspettivo, senza dimenticare la capacità di sfornare ritornelli da cantare a squarciagola. Le canzoni hanno una profondità emotiva, un fascino profondo anche negli elementi sghembi che amano inserire anche nei brani più lineari. “A Thousand Lives” è senza dubbio uno dei brani cardine di un disco che gli amanti del genere inseriranno senza dubbio nelle loro playlist di fine anno.
Una curiosa sinergia tra musicisti ha portato alla creazione di una band chiamata semplicemente E. L’unione tra Thalia Zedek (Come, Uzi, Live Skull), Jason Sanford (Neptune), e Gavin McCarthy (Karate), ha prodotto già tre album. I tre hanno saputo assemblare la forza esplosiva del suono industriale con la calma dei songwriters più esperti. I membri della band hanno suonato in band che hanno esplorato più campi della scena rock, dal noise dei Neptune al post rock dei Karate. Ognuno ha portato in dote le proprie esperienze, e il nome scelto significa che i tre componenti hanno lo stesso peso specifico all’interno della band, come dimostra la lunghezza uguale delle tre “stanghette” della lettera E.
Tra sperimentazione e maturità espressiva, il trio ha sviluppato un suono che vuole essere tanto meccanico quanto emozionale e che loro stessi hanno descritto come “soul music for machines”. Il loro album di esordio si intitola semplicemente E, dove il trio perfeziona i meccanismi che li hanno portati a firmare per la benemerita Thrill Jockey. Ascoltiamo insieme “Great Light” per capire cosa intendono. Il terzo lavoro, Any Information, uscito lo scorso anno, ha confermato il trio come una delle realtà più solide del rock alternativo.
Nel 1976 Mark Perry era un semplice impiegato di banca londinese. Folgorato da un’esibizione dei Ramones, Perry lasciò il lavoro per diventare il motore principale del movimento punk in GB. Iniziò fondando nel luglio del 1976 Sniffin’ Glue, la prima fanzine punk che divenne presto il punto di riferimento del punk londinese e non solo. Agli inizi del 1977 Perry, assieme a Miles Copeland (fratello del batterista Stewart e successivamente fondatore della I.R.S. Records), creò l’etichetta discografica Step Forward Records, che pubblicò molti album di gruppi importanti nell’ambiente punk come The Fall e Sham 69. Tutto questo proiettò Perry in un mondo totalmente diverso, che lo portò in maniera naturale allo step successivo: formare una band propria.
L’incontro con il chitarrista Alex Fergusson fu determinante per la formazione degli Alternative TV. L’album di debutto, intitolato The Image Has Cracked, vede una band che ha già avuto diversi cambi di formazione e che è in bilico tra il punk classico di inizio carriera e le varie contaminazioni sperimentali messe in atto da Perry. Questo percorso ondivago sarà la causa di frequenti litigi tra i componenti del gruppo e tra lo stesso leader ed il suo pubblico. “Action Time Vision”, qui ripresa da una delle storiche John Peel Sessions del 1977, rimane come uno dei cavalli di battaglia di una band che è ancora orgogliosamente in attività. Un’istantanea meravigliosa e trascinante di quello che era il primo punk in Gran Bretagna.
Una delle novità discografiche che più mi hanno colpito recentemente è stata il ritorno di una band di Kingston-upon-Hull chiamata The Black Delta Movement. Dopo l’esordio chiamato Reservation che era piaciuto moltissimo ad un pubblico legato ad una psichedelia distorta, Matt Burr, principale forza creativa della ragione sociale, ha dovuto affrontare prima l’addio del suo sodale Dom Abbott, poi il lungo periodo di blocco indotto dalla pandemia che si è protratto per tutto il 2020 e il 2021. La determinazione e l’impegno per lo sviluppo musicale da parte di Burr lo ha portato a reclutare Barrie Cadogan, apprezzato chitarrista britannico e frontman dei Little Barrie, il bassista Lewis Wharton e il batterista Tony Coote.
Come ciliegina sulla torta, a sancire il ritrovato periodo di ispirazione, è stato chiamato un produttore creativo e affermato come Malcolm Catto, batterista e cofondatore dei The Heliocentrics. Il risultato di questo incontro creativo è Recovery Effect, album uscito ad aprile 2023 per l’etichetta Fuzz Club che colpisce per l’alternanza di groove garage-blues, punk-rock motorizzato e di lenta psichedelia. “No Road To Go” è solo uno dei brani ipnotici e appiccicosi che fanno parte di un album estremamente interessante ed accattivante. “L’album è una lettera d’amore alla band e a tutte le emozioni che sono scaturite”, ha spiegato Matt Burr parlando del periodo di avversità che ha portato alla sua creazione, lettera perfettamente riuscita.
Non c’è molto da dire ancora su Neil Young e sulla sua lunghissima carriera che, partita nel 1968, non sembra ancora destinata al capolinea vista l’uscita dell’ottimo Barn due anni or sono. Torniamo indietro fino alla metà degli anni ’70. Dopo aver pubblicato nel 1974 il sottovalutato On The Beach, il canadese va in tour proponendo alcuni brani del disco successivo che in realtà era stato quasi interamente registrato alla fine del 1973. Tonight’s The Night già dalla copertina che vede una foto del canadese in bianco su uno sfondo completamente nero, è un disco sul dolore, sulla perdita, dedicato a due cari amici entrambi morti per droga, il roadie Bruce Berry e il chitarrista dei Crazy Horse Danny Whitten “who lived and died for rock and roll” come recita sulla seconda di copertina.
Il disco venne pubblicato a giugno 1975, e la ragione per cui l’uscita venne ritardata così tanto era proprio nello stato mentale dell’autore, l’atmosfera cupa che avvolgeva le registrazioni, come se Young se la prendesse con il mondo, ma soprattutto con se stesso per non essere stato in grado di evitare la fine tragica dei suoi amici. “Albuquerque” è uno dei capolavori di un album che è stato, come spesso accade, rivalutato solo molti anni dopo la pubblicazione. Qualcuno ha definito il brano addirittura come una specie di “proto-slowcore”, ma quello che è certo è che, a distanza di tanti anni, quell’incedere country-blues fa ancora emozionare.
Quante volte vi è capitato che l’uscita di un album nei giorni finali dell’anno vi ha fatto mandare completamente in aria la classifica che avevate compilato con tanta fatica e ripensamenti? Questo è quello che mi è successo a fine 2018 quando c’è stato l’inaspettato ritorno di uno dei gruppi di culto del lo-fi statunitense di due decenni fa. I Wingtip Sloat dalla Virginia avevano pubblicato due splendidi lavori a metà degli anni ’90 salvo poi scomparire nel nulla. Sono riemersi dall’oblio sul finire del 2018 per scombussolare la mia classifica. Purge And Swell è un “normale” album di 10 tracce ma all’interno troviamo un CD intitolato Lost Decade, composto da ben 31 tracce per un totale di 76 minuti di musica.
E se le dieci tracce del vinile contengono le classiche ballate lo-fi della band che richiamano echi di Pavement e Swell Maps (come la “Working Title: Hope” inserita in scaletta), l’ora e passa di musica contenuta nel CD bonus rispecchia il lato più coraggioso della band. Infatti i 31 brani registrati tra il 2013 ed il 2016 contengono brevi bozzetti strumentali, brani esemplari e geniali riusciti meravigliosamente, e persino alcune irriconoscibili cover di personaggi come Brian Eno, Bob Dylan, Wire, e Belle & Sebastian tra gli altri. Sopra a tutto c’è la passione di una band che pur non incidendo nulla negli ultimi 20 anni, non ha mai perso la passione di comporre e suonare insieme.
Echi proprio del Neil Young dolente di On The Beach possiamo trovarli nel nuovo album del songwriter irlandese Glen Hansard. Molto è successo nella sua vita negli ultimi 4 anni di silenzio, dalle gioie della paternità alle collaborazioni con Eddie Vedder e Cat Power, passando per il rodaggio delle nuove canzoni in un piccolo pub appena fuori Dublino. Tutte queste esperienze hanno contribuito a dare una direzione a All That Was East Is West Of Me Now, un disco che è sia energetico che meditativo, tentacolare e ipnotico, forse il disco più rock di Hansard dai tempi di Burn The Maps, quinto lavoro della sua band precedente: The Frames. Come detto il disco è nato da una serie di cinque concerti organizzati dall’artista irlandese con il passaparola nel suo piccolo pub locale nel corso del novembre 2022.
“Una canzone diventa ciò che è solo attraverso la testimonianza. In presenza di un pubblico una canzone è capace di trovare una strada diversa”. Dopo questi concerti il disco ha preso forma e sono iniziate le registrazioni con il collaboratore di lunga data David Odlum nel suo studio alla periferia di Dublino. Hansard ha spiegato: “Non l’ho detto a nessuno. Ci siamo messi in un angolo e abbiamo suonato per la gente del posto. Un insieme di contadini e operai, giocatori di freccette, squali di biliardo. Ogni settimana suonavo due ore di canzoni nuove, alcune finite, altre ancora in fase di elaborazione. Attraverso questo processo mi sono reso conto quali canzoni erano valide e quali lo erano solo nella mia immaginazione. Le mie scelte si sono consolidate subito. È stato come se l’album fosse apparso in quel bar”. “Between Us There Is Music” è solo una delle spendide e intime canzoni che compongono il disco. L”irlandese è appena andato in tour con la sodale Markéta Irglová con cui forma il duo folk The Swell Season.
“Josephine alza una lampada in vetro colorato e ci guida ad esplorare le profondità dello spirito in questo doppio album in quattro parti. A seguire la celebrità della sua voce troviamo cori di entità alate (e una navetta spaziale) che salgono e scendono in un labirinto di spiritual: preghiere rituali, lamenti blues, inni vestali e benedizioni giubilanti. I confini del mondo naturale sono fondali rotanti da cui la nostra narratrice si posa, affacciandosi su precipizi simbolici o salici desolati dalla foresta imbiancata dalla neve, esplorando temi eterni di mortalità e moralità, sotto la luna e dialogando in maniera quasi occasionale con un misterioso dio dell’amore, figura ambigua e mistica.”Questo il pomposo proposito dell’ultimo album di una delle cantautrici più ispirate ed originali dei nostri giorni. Lasciando da parte le iperboli ed l’immaginario mistico su cui Josephine Foster si è spesso e volentieri specchiata, sorprende ancora la qualità della scrittura sia pure in un disco così lungo ed ambizioso come Faithful Fairy Harmony: quasi 80 minuti di musica spalmati su quattro facciate.
Con la sua chitarra, pianoforte, arpa e organo si fa accompagnare da splendidi musicisti come Victor Herrero (chitarra), Gyða Valtýsdóttir (violoncello), Chris Scruggs (pedal steel), Jon Estes (basso), e vari membri dei The Cherry Blossoms, collettivo folk di Nashville con cui ha collaborato svariate volte. Durante questo ciclo di 18 canzoni la Foster senza sforzo dissolve ogni barriera tra se stessa e gli ascoltatori, con il suo linguaggio incredibilmente vario destreggiandosi tra prewar folk, cantautorato rock classico, psichedelia e armonie jazz. Con i suoi arrangiamenti calibrati e la sua voce incredibile (ascoltate “The Virgin Of The Snow” per credere), Josephine ha colpito ancora una volta il centro del bersaglio prima di calare qualitativamente per una svolta a tinte di un’elettronica naif e spettrale non propriamente convincente.
In un impeto di nazionalismo, celebriamo alcune artiste italiane, per lo più residenti all’estero da tempo, che si stanno facendo strada nella scena musicale con l’ottima fattura delle loro proposte. Abbiamo parlato in alcuni episodi precedenti delle traiettorie di Valentina Magaletti (Vanishing Twin, Holy Tongue, Moin), e Emma TRicca. Stavolta andiamo ad ascoltare la cantautrice e polistrumentista Marta Del Grandi, che ha recentemente confezionato il suo album più ambizioso e riuscito, grazie anche all’apporto di un’etichetta importante come la Fire Records. Selva è senza dubbio il suo lavoro più intricato e scintillante, meno inquietante e più pop del senso buono del termine, grazie ad una certa complessità emotiva, e splendidi arrangiamenti.
Non che il debutto di due anni fa Until We Fossilize fosse male, tutt’altro, ma il nuovo lavoro mostra un’artista più matura e consapevole, capace di creare un universo nuovo e tentacolare, colorato ed emozionante tra folk e classica moderna, ambient ed elettronica. Una delle tracce più riuscite e coinvolgenti del disco è sicuramente “Marble Season” che l’autrice ha descritto così: “L’ho scritta in un momento di chiarezza e pace durante la stagione dei monsoni a Kathmandu, la canzone parla della fine di un’amicizia. Con metafore botaniche, il testo riflette su come una relazione speciale possa irrimediabilmente rompersi quando la paura provoca una mancanza di comunicazione e di distanza. Si tratta di capire che a volte bisogna accettare che le cose non si possono aggiustare”.
Forse qualcuno si ricorda di un gruppo chiamato The Scissor Girls, Il primo nucleo della band si era formato a Chicago nel 1991 grazie all’incontro presso l’Art Institute of Chicago della musicista sperimentale iraniana-americana Azita Youssefi con la batterista Heather Melowic e la chitarrista Sue Anne Zollinger, sostituita nel 1994 con Kelly Kuvo. Tre album all’attivo prima dello scioglimento per una band che faceva parte della fiorente scena no wave della windy city che comprendeva gruppi come U.S. Maple. Dopo un solo album con insieme a Weasel Walter e Jim O’Rourke chiamato Miss High-Heel e la formazione di un altro gruppo dalla breve durata come Bride of No-No, Azita ha inaugurato nel 2003 la sua carriera solista e il sodalizio con la Drag City con un album chiamato Enantiodromia.
Dopo altri due album solari che mostravano solo a sprazzi pieghe di suono non propriamente ortodosse come Life On The Fly e How Will You? con l’apporto di straordinari musicisti chicagoani come John McEntire e Jeff Parker, nel 2011 è la volta di un lavoro sofferto e intimista dalla grande intensità emozionale. Disturbing The Air è uscito nel 2011, e mostra un’artista da sola nella sua casa con il suo pianoforte. Un disco introverso e struggente, affascinante ed elegante nella sua alternanza di meraviglie e silenzio come nella magica melodia di “Parrots”.
Vienna, città bellissima, austera e rigorosa nella sua classicità. La capitale austriaca è la casa da quasi 25 anni dei Radian, trio formato da Martin Brandlmayr (batteria, elettronica), Martin Siewert (chitarra, elettronica) e John Norman (basso) che torna a far sentire la propria voce dopo sette anni di assenza. Il loro approccio ha marchiato a fuoco la scena europea tra elettronica e post-rock sin dalla fine degli anni ’90, grazie ad un suono spigoloso, cupo, definito nei minimi particolari, ricco di tensioni e silenzi che ha fatto scuola.
Un approccio visionario e fantasioso, quello perseguito e realizzato dai tre, che con il nuovo Distorted Rooms, ci consegna i Radian al massimo delle loro possibilità, un lavoro affascinante, elegante e futuristico, dove i tre, senza aver perso nemmeno un grammo di entusiasmo per la loro sperimentazione dopo quasi 30 anni di carriera, ci portano alla scoperta di nuovi universi sonori. “Skyskryp12”, il brano più lungo del lotto (e uno dei vertici del disco) è congegnata perfettamente con una chitarra elettrica non amplificata in apertura e una parte centrale capace di accrescere la tensione emotiva che prende il volo nel gran finale, con i tre a creare un muro di suono di grande effetto visionario e melodico.
Chiudiamo il podcast con un artista che ama trasformarsi grazie al suo eclettico e straripante stile batteristico. John Colpitts ogni tanto abbandona momentaneamente il moniker di Kid Millions con cui pesta forte i tamburi degli avant-rockers Oneida andando a vestire i panni di Man Forever. Play What They Want, il suo quarto viaggio in solitaria (leggi la recensione), uscito nel 2017, è uno straordinario mutaforma dalle sfumature cangianti, un luogo dove ci si può smarrire felici anche nei vicoli più stretti, spinti dalla forza propulsiva della sua instancabile e avventurosa batteria. Inutile dire che il disco è assolutamente consigliato a chi è costantemente alla ricerca di cose nuove, e di suoni inconsueti ed imprevedibili.
Mettendo la puntina all’inizio della seconda facciata del disco, veniamo immersi nelle atmosfere del capolavoro dell’album, l’evocativa “Twin Torches”. Una splendida composizione di 10 minuti che vede il contributo fondamentale del violino e della voce di una Laurie Anderson letteralmente in stato di grazia. Una cascata di suoni e di voci (grazie all’apporto della Quince Contemporary Vocal Ensemble) che si dirigono come laser verso mille direzioni diverse, trovando le sponde nel creativo e complesso drumming di Colpitt che insieme al collettivo di percussionisti Tigue, li rimanda indietro a velocità doppia sotto lo spoken word dell’imperturbabile poetessa.
Un grazie speciale va, come sempre, a Franz Andreani per la sua passione, la gestione di questa banda di pazzi e per la splendida riorganizzazione del sito già attiva da qualche anno. A cambiare non è stata solo la versione grafica del sito, ma anche la “filosofia” della podradio, con le rubriche che vanno ad integrarsi nella programmazione regolare sotto l’hashtag #everydaypodcast. Sulla nostra pagina Facebook troverete quotidianamente ogni upload del sito e, ormai da tempo, è attivo anche lo splendido canale YouTube della Radio, una nuova formula senza interruzioni ne spot per ascoltare la vostra-nostra musica preferita. Iscrivetevi numerosi, vi aspettiamo!
Nel prossimo episodio troverete sicuramente un tributo ad un artista e poeta straordinario come Shane MacGowan che purtroppo ci ha lasciato da pochissimo. Il tutto sarà, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
Intanto se volete potete sfruttare la parte riservata ai commenti qui sotto per darmi suggerimenti, criticare (perché no), o proporre nuove storie musicali. Mi farebbe estremamente piacere riuscire a coinvolgervi nella programmazione e nello sviluppo del mio sito web.
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Potete ascoltare o scaricare il podcast anche dal sito di Radio Rock The Original cliccando sulla barra qui sotto.
Buon Ascolto
TRACKLIST
01. REFUSED: New Noise da ‘The Shape Of Punk To Come (A Chimerical Bombination In 12 Bursts)’ (1998 – Burning Heart Records / Epitaph)
02. IDLES: Never Fight A Man With A Perm da ‘Joy As An Act Of Resistance’ (2018 – Partisan Records)
03. THE MURDER CAPITAL: A Thousand Lives da ‘Gigi’s Recovery’ (2023 – Human Season Records)
04. E: Great Light da ‘E’ (2016 – Thrill Jockey)
05. ALTERNATIVE TV: Action Time Vision (John Peel Session) da ‘The Image Has Cracked’ (1978 – Deptford Fun City Records)
06. THE BLACK DELTA MOVEMENT: No Road To Go da ‘Recovery Effects’ (2023 – Fuzz Club Records)
07. NEIL YOUNG: Albuquerque da ‘Tonight’s The Night’ (1975 – Reprise Records)
08. WINGTIP SLOAT: Working Title: Hope da ‘Purge And Swell / Lost Decade’ (2018 – VHF Records)
09. GLEN HANSARD: Between Us There Is Music da ‘All That Was East Is West Of Me Now’ (2023 – Anti-)
10. JOSEPHINE FOSTER: The Virgin Of The Snow da ‘Faithful Fairy Harmony’ (2018 – Fire Records)
11. MARTA DEL GRANDI: Marble Season da ‘Selva’ (2023 – Fire Records)
12. AZITA: Parrots da ‘Disturbing The Air’ (2011 – Drag City)
13. RADIAN: Skyskryp12 da ‘Distorted Rooms’ (2023 – Thrill Jockey)
14. MAN FOREVER: Twin Torches (Feat. Laurie Anderson) da ‘Play What They Want’ (2017 – Thrill Jockey)
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