Le avventure in musica di Sounds & Grooves proseguono nella 17° Stagione di RadioRock.TO The Original
Nel dodicesimo episodio stagionale di Sounds & Grooves troverete un piccolo spaccato di power pop, un finale tra hip hop e sampling e molte meraviglie assortite
Torna l’appuntamento quindicinale di Sounds & Grooves che per il 17° anno consecutivo impreziosisce (mi piace pensarlo) lo straordinario palinsesto di www.radiorock.to. A pensarci è incredibile che sia passato già così tanto tempo da quando abbiamo iniziato questa folle ma fantastica avventura. Come (credo) già sapete, la nostra podradio è nata per dare un segnale di continuità con il passato, con quella meraviglia che Franz Andreani, Marco Artico, Flavia Cardinali, Massimo Di Roma, Michele Luches, Aldo Semenuk, Giampiero Crisanti, Gianpaolo Castaldo avevano creato e a cui, nel mio piccolo, ho provato a dare un contributo dal 1991 al 2000. Sappiamo tutti benissimo che la Radio Rock in FM come la intendevamo noi è sparita da almeno due decenni, ma in tutti questi anni di podcast sul web abbiamo cercato di tenere accesa quella fiammella per poi tentare di moltiplicarla, facendola diventare un faro di emozioni e qualità musicale. Perché la passione e la voglia di fare radio, la voglia di ascoltare e di condividere la musica di qualità, nonostante tutto, non ci è mai passata. Questa creatura dopo più di 3 lustri continua orgogliosamente a remare controcorrente, cercando quella libertà in musica che nell’etere è ormai diventata una mosca bianca, ed esprimendo con forza la passione per la condivisione, per la ricerca, per l’approfondimento. Non dobbiamo aderire ad una cieca linea editoriale che ormai spinge esclusivamente il pulsante play dei servizi di streaming, ma ci lasciamo guidare semplicemente dal nostro cuore e dalla nostra passione. Fulvio Savagnone, Marco Artico, Giampiero Crisanti, Franz Andreani, Flavia Cardinali, Francesco Cauli, Ivan Di Maro, Massimo Santori aka Moonchild, Maurizio Nagni ed io proviamo ogni giorno a coinvolgervi con i nostri podcast regolari e con le rubriche tematiche di approfondimento, sperando di farvi sentire sempre di più parte di questa fantastica avventura.
Nel dodicesimo viaggio della nuova stagione facciamo un piccolo viaggio a ritroso verso le radici del power pop con i Big Star e i discepoli scozzesi Teenage Fanclub, torniamo negli anni ’80 con uno dei gruppi che sono entrati più a fondo nel cuore della gente come i Replacements e con il trio con cui giocavano un clamoroso derby a Minneapolis: gli Hüsker Dü. C’è spazio anche per una nuova uscita molto attesa come il nuovo Sleaford Mods, per un artista tanto riservato quanto talentuoso che ci manca molto come Elliott Smith, per le suggestioni etniche dei Dirtmusic, per l’incredibile intensità del supertrio australiano Springtime, la malinconia dei Dirty Three e la potenza dei Protomartyr. Ma non è tutto, perché c’è anche il talento multiforme di Shilpa Ray e la forza elettrica dei Grant Lee Buffalo. Il gran finale vede una piccola intrusione nel mondo del sampling e dell’hip-hop. Il tutto, come da ben 16 anni a questa parte, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
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Iniziamo il podcast parlando di musica americana, di rock classico a stelle e strisce, di power-pop, chitarre scintillanti, melodie cristalline. Chi meglio dei Big Star può incarnare questo suono così classico e allo stesso tempo intramontabile. La band si forma a Memphis, nel Tennessee grazie all’incontro di due personalità forti e creative come Alex Chilton e Chris Bell. Il loro esordio discografico avviene nel 1972 con l’album #1 Record, in bilico perfetto tra le anime dei due leader. “In The Street” sintetizza perfettamente questa sinergia, un brano scritto a quattro mani da Bell e Chilton che mostra una incredibile perfezione formale, con le armonie vocali ad accarezzare il cuore.
Bell soffrirà la voglia di leadership di Chilton lasciando la band subito dopo l’esordio, lasciandoci poi molte inedite meraviglie fino alla sua morte tragica avvenuta nel 1978 in un incidente stradale. Chilton terrà le redini dei Big Star fino allo scioglimento avvenuto nel 1974. Nel 1993, Chilton ed il batterista Jody Stephens riformano il gruppo insieme a Jon Auer e Ken Stringfellow dei Posies, registrando un concerto all’Università del Missouri. La band successivamente è rimasta attiva, suonando in Europa e Giappone e registrando nel 2005 anche un nuovo album in studio. Chilton è morto nel marzo del 2010, per l’aggravarsi dei suoi problemi cardiaci.
Nel 2017 avevamo parlato di un cofanetto che la splendida etichetta specializzata in ristampe Numero Group aveva approntato per raccontare i primi passi di una band storica come gli Hüsker Dü. Purtroppo pochi giorni dopo la felicità si era trasformata in infinita tristezza per la prematura scomparsa di Grant Hart. Hart aveva formato gli Hüsker Dü insieme a Bob Mould e Greg Norton nel 1979 dando una nuova connotazione al punk, mantenendo l’urgenza dell’hardcore, ma allo stesso tempo imprimendo una svolta melodica ed introspettiva, rendendo la band estremamente attuale e avendo un impatto notevole sui giovani negli anni ’80.
La band di Minneapolis, che all’epoca era in competizione (quasi) feroce con i concittadini The Replacements, era sempre in bilico tra la cupa introspezione di Mould e la spavalderia di Hart, che si spartivano da (quasi) buoni fratelli la scrittura delle tracce dei dischi. Zen Arcade è stato un disco epocale, un doppio concept album nell’era dell’hardcore era una cosa difficilmente concepibile all’epoca. 23 brani dove ci sono tutti gli estremi, cervello e cuore, melodia e rumore, la ricerca di se stessi in un monolite che non è mai stato prima così intimo e spettacolare. “Turn On The News” è la classica cavalcata spettacolare firmata proprio da Hart.
La storia del rock è costellata da artisti o gruppi che sono arrivati a tanto così dal successo. Alcuni lo hanno inseguito e mai raggiunto per colpe non loro, altri per pura indole autodistruttiva. Le storie dei cosiddetti perdenti (che poi non è detto che lo siano davvero stati) mi ha sempre totalmente affascinato e coinvolto. E chi risponde meglio a questi requisiti di un gruppo che si è battezzato con il nome The Replacements: i sostituti, i rincalzi, quelli che entrano in campo solo se qualcuno dei titolari non è in grado di giocare. Ma, a distanza di anni, incredibilmente, i ‘Mats sono un gruppo che continua a significare così tanto per molti. Se volete andare a fondo, vi consiglio di leggere questo lungo approfondimento sulla loro storia che presto diventerà un episodio della Rock ‘N’ Roll Time Machine.
La pre-produzione del loro terzo lavoro in studio intitolato Let It Be è affidata a un personaggio in vista come Peter Buck. I ‘Mats lo avevano conosciuto durante un recente (e logorante) tour di spalla ai R.E.M. dove il quartetto aveva fatto il pieno di alcolici ma non certo di denaro. Buck lascerà presto la produzione nelle mani del trio Steve Fjelstad, Pete Jesperson e Paul Westerberg, ma darà comunque il suo contributo registrando la chitarra solista nella prima traccia “I Will Dare”. L’album è considerato da molti il migliore in assoluto della band e la scelta del titolo è l’ennesima burla orchestrata dal quartetto: un dispetto a Pete Jesperson e alla sua devozione per i Beatles. Il disco ha marchiato a fuoco la storia del rock americano degli anni ’80: i quattro lasciano sullo sfondo le loro origini hardcore per proporre brani splendidamente arrangiati, sempre diretti, sinceri e meravigliosamente in sintonia con le inquietudini del loro pubblico. Brani come “Unsatisfied” sono entrati di diritto nella storia del rock. Un quartetto capace di influenzare innumerevoli band negli anni ’90 e oltre. I ‘Mats sono stati una miscela unica di rock and roll, punk, blues e ballate, arricchita da alcuni dei più grandi testi mai scritti.
Il power pop sotto la bandiera con la croce di Sant’Andrea ha senza alcun dubbio come gruppo di riferimento i Teenage Fanclub di Glasgow. E’ il 1986, quando Norman Blake e Raymond McGinley si uniscono al batterista Francis MacDonald e al bassista e cantante Gerard Love dando vita ad un gruppo che continua a sfornare dischi anche ai giorni nostri con il medesimo entusiasmo e con grande coerenza artistica. Un gran giorno il 4 novembre 1991 per la storica Creation Records fondata da Alan McGee. Nello stesso giorno l’etichetta pubblica Loveless dei My Bloody Valentine e quello che probabilmente resta il vertice della band scozzese: Bandwagonesque.
Quattro anni dopo, nel 1995, esce Grand Prix, l’ennesimo disco composto da frizzanti melodie e equilibrato songwriting tra rock e pop, ad inseguire Neil Young e Big Star, come nella splendida “Sparky’s Dream”, cantata dal suo autore e bassista Gerard Love anziché da Norman Blake. Il disco, il loro quinto, ha avuto critiche positive unanime da parte degli addetti ai lavori diventando il primo album dei Teenage Fanclub ad entrare nella top ten inglese. Passano gli anni e scorrono le mode, ma il combo scozzese non ha mai rinunciato ad incidere meraviglie scintillanti come è successo anche con l’ultimo Endless Arcade uscito nel 2021.
Lui ci manca, ci manca sempre molto. Pazzesco pensare che a ottobre saranno passati 20 anni da quel giorno tremendo in cui Elliott Smith ha deciso di porre fine alla sua esistenza terrena in un modo che ancora oggi non è stato mai del tutto chiarito. Nel 1994 Smith, non rispecchiandosi più nel suono rumoroso indie-punk-grunge dei suoi Heatmiser, ha deciso di imbracciare la chitarra acustica per permettere al suo animo e alle sue sensazioni di venire fuori in maniera più naturale. Da quel momento è iniziata la parabola straordinaria di un artista sensibile e meraviglioso, interrotta soltanto da una tragedia personale enorme.
Dallo schietto e sincero folk cantautorale dell’esordio Roman Candle in cui gli accordi si succedevano con intensità e purezza sottolineando i testi malinconici e densi dei problemi quotidiani e del mal di vivere, Smith era passato ad incidere dischi con fisionomia e arrangiamenti più corposi, ma la meraviglia e la semplicità dei suoi brani non hanno mai smesso di incantare. Either / Or è stato il suo terzo lavoro in studio, e “Ballad Of Big Nothing” è tuttora una delle sue cose più belle in assoluto. Elliott Smith ci ha lasciato tante meraviglie, scritte ed interpretate da un artista fragile e incompreso, la cui delicata e malinconica creatività ci manca ogni giorno di più.
Quando a Detroit Joe Casey si unì ad una band chiamata Butt Babies, nessuno poteva prevedere che si sarebbe creata un’alchimia estremamente potente chiamata Protomartyr. Composti oltre che dal cantante Joe Casey, dal chitarrista Greg Ahee, dal batterista Alex Leonard e dal bassista Scott Davidson, i Protomartyr sono diventati sinonimo di assemblaggi caustici e impressionistici di politica e poesia, letterale e obliqua. Dopo un album ed un paio di cassette di riscaldamento, nel 2014 sono stati messi sotto contratto dalla Hardly Art per cui hanno pubblicato l’ottimo Under Color Of Official Right.
Un anno più tardi è uscito l’atteso seguito, un album che mette ancora più a fuoco le potenzialità emotive della band ed intitolato The Agent Intellect. 12 brani che evidenziano l’urgenza emotiva e la grande abilità del quartetto di Detroit nel dipingere affreschi diretti e precisi nel cogliere sempre nel segno, grazie alla loro alchimia tra un suono post-punk estremamente potente e ad un messaggio sociale importante e messo a fuoco. La splendida “Clandestine Time” (che da anche il titolo al nuovo episodio) è perfetta nel rappresentare l’intero lavoro. Dopo essere passati alla Domino e ad aver pubblicato altri due album, la band ha appena annunciato l’uscita, il 2 giugno, del loro sesto album che si intitolerà Formal Growth In The Desert.
Quante volte su queste pagine abbiamo speso inchiostro (ed elogi) per gli Sleaford Mods. Sulla loro forza rabbiosa mi sono espresso più di una volta. Da qualche anno il duo punk-hop di Nottingham formato da Jason Williamson e Andrew Fearn ha firmato per la storica etichetta britannica Rough Trade senza perdere un grammo della loro ferocia sociale. Dal vivo poi sono assolutamente divertenti, più Williamson si danna, sbraita, inveisce, si avvita su se stesso, urla con il suo accento improponibile del nord dell’inghilterra, più il suo compare se la sghignazza bevendo birra e semplicemente facendo partire e stoppando le sue basi sul laptop. Molti trovano la band estremamente ripetitiva, e vista la composizione dei due è complicato pensare ad una rivoluzione sonora.
La loro formula è ormai facilmente identificabile, ma la semplicità con cui i due la fanno evolvere rimanendo fedeli a loro stessi è meravigliosamente spaventosa. Se già nel 2021 Spare Ribs aveva mostrato dei segnali grazie alle collaborazioni di Billy Nomates e di Amy Taylor degli Amyl and the Sniffers, la strada intrapresa si conferma nel nuovissimo UK Grim. A collaborare nel nuovo album stavolta troviamo Florence Shaw dei Dry Cleaning e Perry Farrell e Dave Navarro dei Jane’s Addiction nella “So Trendy” inserita in scaletta. Riguardo alle (solite) invettive contro la situazione politica britannica che fornisce sempre spunti intriganti per i testi del duo, Jason Williamson ha detto: “Forse siamo orgogliosi del nostro Paese. Forse siamo orgogliosi di essere inglesi. Forse sono orgoglioso delle orribili strade grigie, del tempo di merda e delle stupide mode in cui mi ritrovo a investire. È solo che l’inglese che siamo orgogliosi di essere non assomiglia affatto all’inglese che le autorità vogliono cercare di promuovere”.
Ogni ragazza che si mette in gioco nel mondo indie/alternative in modo mediamente aggressivo deve necessariamente fare i conti con una serie di riferimenti precisi, PJ Harvey in primis. Nel 2015 con l’album Is Last Year’s Savage, direi che Shilpa Ray ha dimostrato di sapersela cavare egregiamente: personalità e talento sono dalla sua parte e la sua attitudine ed abilità nel navigare a vista tra punk, garage, blues, e country folk decadente da locale malfamato, aggiunta alla sua abilità all’harmonium rende la scrittura anche piacevolmente personale. C’è un adesivo bello grosso che campeggia sulla copertina di questo disco, un Nick Cave in versione fumetto che annuncia: “Una delle cose più prodigiose che io abbia visto da molto tempo. E’ destinata ed essere immensa.”
Mica male come presentazione, e anche un giudizio categorico che mette un bel po’ di pressione sulle spalle di questa ragazza di Brooklyn dall’attitudine punk che ha avuto l’ardire di aprire proprio i concerti di Nick Cave and The Bad Seeds da sola sul palco con il suo harmonium ora coccolato, talvolta strapazzato a dovere. Non so se la ragazza di Brooklyn sarà destinata davvero a diventare una stella di prima grandezza del panorama musicale come promette il suo pigmalione Nick Cave, e magari in questi anni non ha saputo mantenere un livello qualitativo e di visibilità eccelso, ma ho voluto per questo episodio ripescare questo disco davvero gradevole e personale, condotto con sapiente personalità ed istrionico nell’alternare ballate ombrose come l’avvolgente e convincente noir di “Nocturnal Emissions” ed esplosioni tribali.
Grant-Lee Phillips non ha mai davvero inseguito la popolarità. La sua passione e visione musicale è stata ispirata, almeno agli inizi, dal Paisley Underground e dal post punk. Insieme al socio Jeffrey Clark (entrambi provenienti da Stockton, California) ha creato verso la metà degli anni ’80, una band chiamata Shiva Burlesque. Uno dei gruppi di culto di quel periodo. Un gruppo sottovalutato e rimasto sempre nell’ombra senza mai avere avuto almeno un briciolo della popolarità avuta dai Dream Syndicate o dai Rain Parade. Una volta sciolta la band, i Grant Lee Buffalo sono stati la sua consacrazione in parte anche commerciale del suo talento di musicista.
Fuzzy, l’album di esordio del trio formato insieme a Paul Kimble (basso) e Joey Peters (batteria), è stato uno splendido affresco di come il suo suono abbia abbandonato in parte la matrice Paisley per andare a pescare nella tradizione folk e country. Tra ballad elettriche, melodie impetuose e piccoli gioielli come la title track, l’esordio della band si rivela come un piccolo grande capolavoro, non scevro da aperte denunce politiche. Un affascinante viaggio sulle strade blu americane. Qui li andiamo a ritrovare con un EP intitolato Buffalondon Live, registrato nel settembre del 1993 nella location della ICA londinese. “Grace” è uno splendido esempio dell’energia live del trio. Phillips successivamente non ripeterà più le vette dei primi due lavori della sua creatura, ma continua a sfornare album dalla media qualitativa estremamente elevata.
Adesso cambiamo leggermente atmosfera e parliamo di viaggi, contaminazioni ed alchimie sonore. Prosegue senza sosta il viaggio dei chitarristi Chris Eckman (Walkabouts) e Hugo Race (Birthday Party, Bad Seeds, Fatalists), che hanno perso per strada Chris Brokaw (Codeine, Come), ma hanno sempre voglia di esplorare strade nuove e culture diverse. Il viaggio dei Dirtmusic prosegue dal Mali fino alla Turchia, altro paese in crisi sociale e politica. Qui i due hanno fatto comunella con una vecchia conoscenza come Murat Ertel, che con il suo saz elettrificato ha reso unico ed intrigante il suono del gruppo psych-dub Baba Zula. Inevitabilmente l’umore del loro ultimo album in studio, uscito nel 2018.
Bu Bir Ruya risente dell’atmosfera incontrata dai musicisti in studio ad Istanbul proprio quando parte dell’esercito tenta un colpo di stato per rovesciare il governo del presidente Erdogan. Il risultato è un disco evocativo, più scuro e meno blues, arricchito da altri splendidi ospiti come la voce della canadese Brenda McCrimmon e le percussioni tribali di Ümit Adakale. La “Love Is A Foreign Country” che apre la seconda facciata del disco è una delle tracce più ipnotiche ed evocative del lotto, pronta ad ammaliarvi grazie alla voce dell’ospite Gaye Su Akyol e a portarvi in un ipnotico altrove che affonda le radici in una dura realtà.
La parola “supergruppo” spesso fa rabbrividire, lo so. Nella quasi totalità dei casi, la somma della parti, anche nel caso di straordinari musicisti, hanno sempre portato cocenti delusioni se non flop clamorosi. Galeotta fu la pandemia, capace di bloccare in Australia il batterista Jim White (Dirty Three, Xylouris White), impedendogli di fatto il ritorno a Brooklyn dove vive da tempo. Di questa forzata “vacanza” australiana ha approfittato Gareth Liddiard (Tropical Fuck Storm, Drones), pronto ad invitare White in sala prove per provare qualche improvvisazione. Quando ai due si unisce il pianoforte di Chris Abrahams (The Necks, Benders, Laughing Clowns), si capisce che le vibrazioni e le tensioni tra i tre sono davvero importanti e stimolanti a tal punto che i musicisti per due settimane si chiudono in uno studio di registrazione isolato nello stato di Victoria per registrare (quasi in presa diretta) un intero album a nome Springtime.
I tre dimostrano di essere perfettamente in sintonia nel dipingere sette tracce di lunghezza variabile, personali e nostalgiche, che talvolta mostrano l’angoscia per la vita durante la pandemia e che altre volte sanno essere poetiche grazie alle liriche (“Jeanie In A Bottle” e la drammatica “The Viaduct Love Suicide”) del poeta irlandese Ian Duhig, zio di Liddiard. C’è il jazz “altro” ma non è un disco jazz, c’è la tipica psichedelia australiana, c’è una cover dal vivo di Will Oldham, un traditional riarrangiato, una narrazione di morte, distruzione, desiderio e devozione. C’è un gruppo vivo e vitale, con un’inaspettata alchimia tra i componenti, che rende brani come “Will To Power” incredibilmente vitali, personali, travolgenti. E se vi capita, ascoltate anche l’EP uscito un anno dopo nel 2022 ed intitolato Night Raver. I tre spingono più sull’improvvisazione rispetto all’esordio, ma saprà conquistarvi.
Se Warren Ellis ed il suo violino adesso sono associati senza dubbio ai Bad Seeds di Nick Cave, non va mai dimenticato che insieme a Mick Turner (chitarra) e Jim White (sì, proprio il batterista anche degli Springtime), ha dato vita ad un gruppo che per 15 anni ha mostrato un nuovo approccio sonoro estremamente riconoscibile. I Dirty Three sono nati a Melbourne, Australia, e si sono messi in luce già dall’esordio di Sad & Dangerous targato 1994, come un gruppo capace di unire il folk rock e la psichedelia alla musica da camera. Il tutto con una estrema malinconia di fondo. Il segno distintivo del gruppo è senza ombra di dubbio il violino di Ellis che monta un pick-up chitarristico per poterne sfruttare i riverberi del feedback.
Nel 1998 il trio entra in studio con Steve Albini per creare una sorta di concept album incentrato sul mare. Il risultato è l’emozionante Ocean Songs, un disco dove i tre musicisti riescono a ricreare mirabilmente tutte le emozioni, i colori e i suoni del mare. Due anni dopo i tre tornano in studio e riescono di nuovo a creare quella tensione musicale e spirituale rendendo anche Whatever You Love, You Are un disco capace di colpire, trascinare e commuovere. Il cielo stellato prende il posto del mare, e le pennellate dei tre aprono nuovi mondi con il loro suono emozionale. Ascoltate “Some Summers They Drop Like Flys” e lasciatevi trasportare verso nuove luminose stelle da questi tre straordinari musicisti.
la chiusura del podcast è affidata ad un genere che, pur non essendo propriamente la mia cup of tea talvolta è capace di intrigarmi profondamente. In particolare mi rivolgo verso quella scena di metà anni ’90 che faceva capo all’etichetta Mo’ Wax. Iniziamo con un pioniere del sampling e dell’hip hop su scala mondiale come il giapponese Hideaki Ishi più conosciuto come DJ Krush. Nato a Tokyo nel 1962, Ishi ha abbandonato la scuola in giovane età per unirsi ad una gang locale e, qualche anno dopo, addirittura alla yakuza. All’inizio della sua carriera come subalterno nell’organizzazione criminale, Ishi scoprì un dito mozzato avvolto nella carta sulla sua scrivania. In seguito, dopo aver scoperto che era appartenuto ad un amico, decise di lasciare la yakuza e di tagliare i ponti con la malavita.
Insieme a Dj Shadow ha rivoluzionato la figura del DJ, visto non solo come colui che seleziona e mixa musica, ma come un vero e proprio musicista, in grado di trasformare i vinili in autentici strumenti musicali, capaci di vette espressive impensabili fino a non molto tempo fa. E’ stato il film “Wild Style” ad introdurlo nel mondo dell’hip hop nei primi anni ’80. Nel 1987, ha formato il gruppo Krush Posse, considerato tra le migliori band hip hop in Giappone, per poi iniziare la sua carriera da solista nel 1992. É stato il primo DJ non statunitense a raggiungere una fama mondiale collaborando per colonne sonore e altri musicisti come Bill Laswell. Meiso è il suo terzo lavoro in studio, uscito nel 1995, e “Duality” una straordinaria traccia incisa insieme a quel DJ Shadow che avrà il compito di chiudere il podcast.
E visto che lo abbiamo nominato, chiudiamo il podcast con uno dei più importanti beatmaker come Josh Davis più conosciuto come DJ Shadow. Davis ha iniziato a sperimentare con un registratore a quattro tracce già mentre frequentava la scuola superiore a Davis, in California, iniziando subito a fare il dj per la stazione radio del campus KDVS dell’Università della California, Davis ed esplorando lo stile hip-hop sperimentale associato all’etichetta londinese Mo’ Wax. I suoi primi singoli, tra cui “In/Flux” avevano fuso elementi di funk, rock, hip hop, ambient, jazz, soul. Andy Pemberton, un giornalista che scriveva per la rivista Mixmag, descrisse proprio “In/Flux” come “trip hop”, termine che nel giugno 1994 era già stato attribuito ai Massive Attack e ai Portishead di Bristol, e alla scena di Bristol in generale.
Il primo lavoro completo di Shadow, Endtroducing….., viene pubblicato alla fine del 1996 con grande successo di critica, entrando nel 2001 nel Guinness World Records come “Primo album completamente campionato”. Le uniche attrezzature utilizzate da Shadow per produrre l’album sono state la drum machine AKAI MPC60 con campionamento a 12 bit, un paio di giradischi e un setup Pro Tools preso in prestito, in visita, da uno dei primi utilizzatori di questa tecnologia, Dan “The Automator” Nakamura. Con una collezione personale di circa 60.000 dischi, Davis si è sbizzarrito a comporre le tracce dell’album facendo uno straordinario “taglia e incolla” e creando così brani di intensa suggestione. Il suo lavoro consiste nel manipolare campioni, prendere pezzi di musica rari e raramente ascoltati e rielaborarli in parti e frasi per le sue canzoni. Molti dei suoi brani contengono decine di campioni provenienti da un’ampia gamma di stili e influenze, tra cui rock, soul, funk, sperimentazione, elettronica e jazz. Il brano che ho scelto ci porta in un’atmosfera notturna ed intrigante. “Midnight In A Perfect World” è basato su un malinconico pianoforte campionato dalla canzone del 1969 “The Human Abstract” di David Axelrod, sulla batteria di “Life Could” dei Rotary Connection e su molti altri samples tra cui due brani di Meredith Monk. DJ Shadow ci ricorda che il campionamento è una forma d’arte.
Un grazie speciale va, come sempre, a Franz Andreani per la sua passione, la gestione di questa banda di pazzi e per la splendida riorganizzazione del sito già attiva da qualche anno. A cambiare non è stata solo la versione grafica del sito, ma anche la “filosofia” della podradio, con le rubriche che vanno ad integrarsi nella programmazione regolare sotto l’hashtag #everydaypodcast. Sulla nostra pagina Facebook troverete quotidianamente ogni upload del sito e, ormai da tempo, è attivo anche lo splendido canale YouTube della Radio, una nuova formula senza interruzioni ne spot per ascoltare la vostra-nostra musica preferita. Iscrivetevi numerosi, vi aspettiamo!
Nel prossimo episodio di Sounds & Grooves andremo a ritrovare il suono unico dei Morphine, proseguiremo con l’esordio dopo una lunga gavetta degli One Arm, torneremo negli anni ’60 con i Love ed la loro magica psichedelia orchestrale, e rientreremo ai giorni nostri con il ritorno degli Arab Strap, l’imprevedibile collettivo Orchestre Tout Pouissant Marcel Duchamp e il metal evoluto e drammatico dei canadesi Big|Brave. Ripescheremo poi le melodie affascinanti del “supergruppo” About Group e la potenza dei The Besnard Lakes per poi inoltrarci in una panoramica sul folk britannico. Partiremo con la decana e straordinaria Shirley Collins per poi andare in Irlanda con il nuovo album dei Lankum, che riescono a rivitalizzare meravigliosamente la tradizione e con uno dei musicisti più rappresentativi dell’isola verde come Christy Moore, con i Planxty e dal vivo con altri due monumenti come Donàl Lunny e Jimmy Faulkner. Il gran finale vedrà salire sugli scudi la delicata scrittura di Howe Gelb ed il ricordo di uno dei più talentuosi e schivi autori che abbia calcato il pianeta: Nick Drake. Il tutto sarà, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
Intanto se volete potete sfruttare la parte riservata ai commenti qui sotto per darmi suggerimenti, criticare (perché no), o proporre nuove storie musicali. Mi farebbe estremamente piacere riuscire a coinvolgervi nella programmazione e nello sviluppo del mio sito web.
Se volete ascoltare o scaricare il podcast, potete farlo anche dal sito della PodRadio cliccando sulla barra qui sotto. Buon Ascolto
TRACKLIST
01. BIG STAR: In The Street da ‘#1 Record’ (1972 – Ardent Records)
02. HÜSKER DÜ: Turn On The News da ‘Zen Arcade’ (1984 – SST Records)
03. THE REPLACEMENTS: Unsatisfied da ‘Let It Be’ (1984 – Twin/Tone Records)
04. TEENAGE FANCLUB: Sparky’s Dream da ‘Grand Prix’ (1995 – Creation Records)
05. ELLIOTT SMITH: Ballad Of Big Nothing da ‘Either / Or’ (1997 – Kill Rock Stars)
06. PROTOMARTYR: Clandestine Time da ‘The Agent Intellect’ (2015 – Hardly Art)
07. SLEAFORD MODS: So Trendy (feat. Dave Navarro, Perry Farrell) da ‘UK Grim’ (2023 – Rough Trade)
08. SHILPA RAY: Nocturnal Emissions da ‘Is Last Years Savage’ (2015 – Northern Spy)
09. GRANT LEE BUFFALO: Grace (Live at the ICA 15.9.93) da ‘Buffalondon Live EP’ (1993 – Slash / London Records)
10. DIRTMUSIC: Love Is A Foreign Country (feat. Gaye Su Akyol) da ‘Bu Bir Ruya’ (2018 – Glitterbeat)
11. SPRINGTIME: Will To Power da ‘Springtime’ (2021 – Joyful Noise Recordings)
12. DIRTY THREE: Some Summers They Drop Like Flys da ‘Whatever You Love, You Are’ (2000 – Touch And Go)
13. DJ KRUSH: Duality with DJ Shadow da ‘Meiso -迷走-’ (1995 – Mo’ Wax)
14. DJ SHADOW: Midnight In A Perfect World da ‘Endtroducing…..’ (1996 – Mo’ Wax)