Il nuovo episodio della R’N’R Time Machine è dedicato ai The Replacements
I ‘Mats hanno rappresentato tanto per più di una generazione
Photo Cover: Dan Corrigan
Introduzione
La storia del rock è costellata da artisti o gruppi che sono arrivati a tanto così dal successo. Alcuni lo hanno inseguito e mai raggiunto per colpe non loro, altri per pura indole autodistruttiva. Le storie dei cosiddetti perdenti (che poi non è detto che lo siano davvero stati) mi ha sempre totalmente affascinato e coinvolto. E chi risponde meglio a questi requisiti di un gruppo che si è battezzato con il nome The Replacements: i sostituti, i rincalzi, quelli che entrano in campo solo se qualcuno dei titolari non è in grado di giocare. Ma, a distanza di anni, incredibilmente, i Replacements sono un gruppo che continua a significare così tanto per molti. Seguitemi e capirete il perché.
Minneapolis è una città degli Stati situata nella parte sud-orientale del Minnesota che si adagia lungo le sponde del Mississippi poco a nord della confluenza con il fiume Minnesota. Con la vicina capitale dello Stato, Saint Paul, forma la cosiddetta area metropolitana delle Twin Cities (città gemelle), sedicesima area metropolitana più popolosa degli Stati Uniti con una popolazione complessiva di oltre 3 500 000 abitanti.
La cosa curiosa è che se si associa il nome Minneapolis alla musica con ogni probabilità i primi nomi che vengono in mente sono due: Prince per un pubblico, chiamiamolo così, generalista, e gli Hüsker Dü per gli amanti di un certo tipo di rock. Eppure i Replacements sono stati i primi ad avere un contratto discografico e addirittura a firmare per una major, bruciando sempre sul tempo il trio con cui giocava un sanguinoso derby. Almeno prima che il loro motore andasse fuori giri proprio nel momento in cui sembrava che il traguardo della vera popolarità fosse lì in fondo al rettilineo, quasi a portata di mano.
Primi passi
Riavvolgiamo il nastro indietro e torniamo alla primavera del 1978. Periferia di Minneapolis. Robert Stinson, per tutti Bob, ha appena 18 anni e fa il cuoco per sbarcare il lunario. La sua adolescenza è stata in qualche modo segnata da un patrigno non propriamente benevolo, la cui influenza nefasta ha fatto si che Bob passasse più tempo del dovuto in riformatorio per i suoi accessi di rabbia. Bob (oltre alla birra e alle droghe leggere) ha una passione sconfinata per la musica ed è diventato un discreto chitarrista. Proprio questa passione la vuole trasmettere al fratellino Thomas, di sette anni più piccolo, al quale da in mano un basso proprio per evitare che possa ripercorrere i suoi errori. La prima band dei fratelli Stinson prende il nome di Dogbreath, e vede i due, insieme all’amico di Bob Robert Flemal e al batterista Chris Mars, eseguire cover a volume altissimo di Yes, Aerosmith e Johny Winters, non certo facendosi amici i vicini di casa…
La leggenda vuole che un ragazzo di poco più grande, una serata di settembre del 1979, si soffermi vicino ad un cespuglio per ascoltare la musica che proveniva dal seminterrato dei fratelli Stinson. Quel ragazzo si chiama Paul Westerberg, e pur non venendo da una famiglia disgregata, ha da parte sua la rabbia repressa di anni di scuola cattolica, una discreta cultura musicale e una buona preparazione chitarristica. Il diciannovenne vede la musica come unica opzione di rivalsa, nonostante un problema di curvatura permanente di un dito della mano chiamato clinodattilia che ne ha giocoforza modificato lo stile chitarristico. Il ragazzo mingherlino viene presentato a Bob Stinson da un amico comune ed i due entrano subito in sintonia grazie anche ad un po’ d’erba portata in dono. In men che non si dica Westerberg entra nella band all’inizio come chitarra solista facendo fuori Flemal. Paul ha un asso nella manica, un dono che gli altri tre non possiedono: sa scrivere canzoni e cantare. Così il neonato quartetto cambia ripartizioni: Bob diventa la chitarra solista mentre Westerberg si fa carico della parte vocale, facendo conoscere molta musica “nuova” agli altri tre. La storia è fatta: i Dogbreath diventano prima The Impediments, poi, dopo essere stati cacciati a metà concerto per uso ed abuso di alcolici (la location era il seminterrato di una chiesa e il pubblico ragazzi in riabilitazione da dipendenza da alcool…) cambiano ragione sociale in The Replacements.
“Erano così poderosamente tremendi, e così tremendamente potenti. Erano una massa di contraddizioni. Erano una continua critica di qualsiasi cosa, inclusi loro stessi. Odiavano le rockstar ma amavano il rock.”
Jim Walsh: “The Replacements. All Over But The Shouting – An Oral History”
La Twin / Tone e i primi album
Nel marzo del 1980 Westerberg, che ormai ha in mano le redini del quartetto, porta un demo con 4 canzoni a Pete Jesperson. Vi domanderete chi era costui. Beh, Jesperson non era solo il proprietario di Oar Folkjokeopus, l’unico posto a Minneapolis che vendeva dischi punk rock negli anni ’70 e nei primi anni ’80 (luogo di ritrovo popolare non solo per i Replacements ma anche per gli membri di band locali come Hüsker Dü, Suicide Commandos, Soul Asylum e per tutta la comunità locale di appassionati di musica) ma anche uno dei co-fondatori di un’etichetta indipendente chiamata Twin / Tone. Il risultato è che Jesperson, dopo aver ascoltato il demo, diventa una sorta di fan! Li ingaggia per suonare nel locale più in vista della scena locale e gli propone addirittura un contratto discografico diventando mentore, manager, produttore e una sorta di quinto membro aggiunto. Per i più curiosi, il nome del negozio di dischi veniva dall’album Oar di Alexander “Skip” Spence, membro fondatore di Jefferson Airplane e Moby Grape e dal titolo di un album del musicista folk britannico Roy Harper, Folkjokeopus. Il negozio, fondato nel 1973, è stato gestito da Jesperson dal 1974 al 1982, salvo poi chiudere i battenti nel 2001. L’anno seguente cambiò nome in Treehouse Records non ebbe miglior sorte, visto che è stato costretto a chiudere nel 2017.
Già durante i primi concerti i quattro si fanno notare per la carica on stage (non solo energetica ma anche alcolica), per le improponibili mise di Bob Stinson (magliette attillatissime e vari tutù colorati), per le improvvisazioni e soprattutto perché andare ad un loro concerto è come giocare alla roulette, non sai mai cosa potrà succedere. In ogni caso il gruppo entra in sala di incisione e nell’agosto del 1981 esce il loro primo lavoro: Sorry Ma, Forgot To Take Out The Trash dove i quattro riescono incredibilmente a mettere ordine nel loro caos e dove riescono a far emergere la loro componente melodica anche nei brani dove l’attitudine power punk sembra più sfrenata.
La capacità empatica di Westerberg farà la differenza, perfino rispetto ai dirimpettai Hüsker Dü con cui ci sarà un’accesa rivalità, anche se, da indiscrezioni, tramite il solito Pete Jesperson, Bob Mould e Paul Westerberg erano soliti ritrovarsi qualche volta insieme a bere e ascoltare musica. Le loro erano canzoni composte e suonate da emarginati per altri emarginati, canzoni capaci talmente tanto di toccare il cuore della gente da far diventare i ‘Mats un vero e proprio gruppo di culto. Ho detto ‘Mats vero? Beh, questo è il nomignolo con cui i fan si riferivano (e tuttora lo fanno) affettuosamente alla band, un soprannome nato come troncamento di “The Placemats”, una storpiatura del loro nome che pare sia apparso una volta su una locandina di uno dei primi concerti.
Visto il successo di critica e pubblico dell’esordio, i ‘Mats (d’ora in poi li chiameremo così) pubblicano a stretto giro di posta prima l’EP Stink nel giugno del 1982, poi il secondo album Hootenanny nell’aprile 1983. Se l’EP mostra il loro lato più sporco e punk, Hootenanny svela appieno le loro svariate influenze senza togliere un grammo della loro autenticità e visceralità, sempre sull’orlo del collasso. Westerberg ha sempre pensato di non dover essere monodimensionali perché all’epoca c’era chi faceva hardcore meglio di loro. La loro forza, come già detto, era un’altra, quella viscerale e innata empatia capace di colpire al cuore un’intera generazione, ed il sensazionale talento melodico oltre al grande carisma e alla capacità di scrittura di Westerberg. Raccontiamo uno dei tanti aneddoti sulla band per farvi capire cosa erano i ‘Mats. Diciamo che i quattro non avevano uno splendido rapporto (per usare un eufemismo), con il co-produttore di Hootenanny Paul Stark. E che ti fanno i quattro? Trasformano la title track in una ballata sghemba scambiandosi gli strumenti, e non contenti, si impongono per piazzarla addirittura come apertura della prima facciata.
Quattro mesi dopo la pubblicazione di Hootenanny i quattro entrano di nuovo in studio per registrare il loro terzo lavoro. La pre-produzione di Let It Be è affidata a un personaggio in vista come Peter Buck. I ‘Mats lo avevano conosciuto durante un recente (e logorante) tour di spalla ai R.E.M. dove il quartetto aveva fatto il pieno di alcolici ma non certo di denaro. Buck lascerà presto la produzione nelle mani del trio Steve Fjelstad, Pete Jesperson e Paul Westerberg, ma darà comunque il suo contributo registrando la chitarra solista nella prima traccia “I Will Dare”. L’album è considerato da molti il migliore in assoluto della band e la scelta del titolo è l’ennesima burla orchestrata dal quartetto: un dispetto a Pete Jesperson e alla sua devozione per i Beatles. Il disco ha marchiato a fuoco la storia del rock americano degli anni ’80: i quattro lasciano sullo sfondo le loro origini hardcore per proporre brani splendidamente arrangiati, sempre diretti, sinceri e meravigliosamente in sintonia con le inquietudini del loro pubblico. Brani come “Unsatisfied” o “Answering Machine” sono entrati di diritto nella storia del rock.
“Look me in the eye, then tell me that I’m satisfied
Was you satisfied?
Look me in the eye, then tell me that I’m satisfied
Hey, are you satisfied?
Everything goes, well, anything goes
All of the time
Everything you dream of is right in front of you
And everything is a lie
Look me in the eye and tell me that I’m satisfed
Look me in the eye, unsatisfied”
Tim e l'addio di Bob Stinson
Tantissimi gli aneddoti legati al gruppo, soprattutto alle esibizioni live che il loro manager amava che fossero come i fiocchi di neve, nel senso che non potevano mai essercene due uguali: dall’irruzione della polizia di Minneapolis nell’Harmony Building dove i ‘Mats stavano per iniziare un mini concerto durante un party in onore di un artista locale e al seguente “1-2-3-4!” dei quattro che, incuranti dell’irruzione della Polizia iniziano a suonare, all’abbandono da parte di Gene Simmons di un loro show a NYC dopo le prime note della cover dei Kiss “Black Diamond” (che appare in Let It Be). Dai mille concerti in cui sono stati più i brani iniziati che quelli finiti, all’arresto di Bob Stinton nell’Iowa per aver urinato su un lato del palco dopo poco più di dieci minuti di concerto. Dalle date in cui suonano solo cover alla cacciata epocale dallo show Saturday Night Live dopo un’esibizione piena di eccessi (con Westerberg e Bob Stinton ubriachi a urlare “C’mon Fucker” in diretta nazionale) e, non contenti, dopo aver sporcato e distrutto il camerino). Per non parlare della mitica serata in cui Bob Stinton era concentrato in una epica partita di flipper a fondo sala mentre il resto della band aveva già iniziato a suonare o nelle altre in cui Westerberg cantava il testo di una canzone sulle note di un’altra. E queste sono solo alcuni dei loro eccessi, tanto e vero che ad un certo punto gli spettatori rimangono quasi delusi quando la band riesce a suonare un set particolarmente riuscito.
Il successo anche commerciale di Let It Be porta i 4 a firmare clamorosamente per una major come la Sire (sussidiaria della Warner) e la stipula del contratto sembra finalmente il trampolino di lancio definitico per i ‘Mats. Invece, arrivati ad un punto cardine della loro storia, la leadership sempre più marcata di Westerberg, i tour sempre più lunghi e gli eccessi alcolici dei fratelli Stinton porteranno la band al collasso di li a poco. I ‘Mats entrano in studio insieme al produttore Tommy Ramone nell’estate del 1985 per quello che il canto del cigno di Bob Stinson e di un’era del gruppo. Il chitarrista entra in studio in condizioni devastate, almeno nelle poche occasioni in cui si presenta.
Qualcuno ritiene Tim il primo album solista di Westerberg, probabilmente non è così, ma di fatto è evidente la sua leadership, sempre più a suo agio in una scrittura power pop (come la splendida “Kiss Me on the Bus”, e dove le sue storie memorabili e a volte autobiografiche (la sua dipendenza spiattellata su “Here Comes A Regular”) riescono sempre e comunque a toccare il cuore e l’anima di moltissimi, basti pensare ad un vero e proprio inno come la straordinaria “Bastards Of Young”.
“Well, a drinkin’ buddy that’s bound to another town
And once the police made you go away
And even if you’re in the arms of someone’s baby, now
I’ll take a great big whiskey to you anyway
And everybody wants to be someone’s here
Someone’s gonna show up, never fear
‘Cause here comes a regular
Call out your name
Yes, now here comes a regular
Am I the only one who feels ashamed?”
Bob Stinson viene convinto ad entrare in un programma di disintossicazione, ma la tournee a supporto di Tim manda tutto in malora, portando i rapporti interpersonali tra i quattro ad un punto di non ritorno. Il chitarrista ormai non è praticamente più in grado di suonare dal vivo e ad un certo punto pensa bene di sparire completamente durante alcuni giorni di prova in studio. Il risultato non può essere che uno solo: Bob Stinson è ufficialmente fuori dai ‘Mats.
Gli ultimi, difficili, album e lo scioglimento
Nonostante l’enorme perdita, i tre superstiti entrano di nuovo in studio a fine 1986 per le registrazioni di Pleased To Meet Me, album che viene pubblicato nell’estate del 1987. L’album mantiene una media qualitativa più che buona, ma in qualche modo, nonostante i numerosi ospiti presenti in studio, è come se l’incantesimo si fosse spezzato, lasciando un po’ di amaro in bocca. Westerberg non poteva aver perso improvvisamente la sua capacità di scrittura ma sembrava come essersi “normalizzato”, pur con una creatività, lo ribadisco, superiore alla media. L’ingresso nel gruppo di Bob “Slim” Dunlap non cambia di una virgola la loro attitudine autodistruttiva, e i responsabili della Sire non riescono a capire a fondo il comportamento del quartetto. Avete presente il famoso detto “Ci fai o ci sei?”. Beh, i responsabili dell’etichetta pensavano che i ‘Mats ci facessero, che il loro comportamento facesse parte di una sorta di piano prestabilito, ma come ormai credo che abbiate capito, non era affatto così.
Registrato a Los Angeles, il sesto album in studio, intitolato Don’t Tell A Soul esce nel febbraio del 1989. Appesantito da una produzione non certo all’altezza, paradossalmente diventa l’album più venduto del gruppo e “I’ll Be You” entra (per la prima vota nella loro storia) nella Billboard Hot 100 piazzandosi al numero 51. Il successivo (e ultimo) album All Shook Down è pieno zeppo di session men, e perfino le parti di Chris Mars e Tommy Stinson sono ridotte al lumicino. Non bastano i contributi di Steve Berlin e John Cale e la produzione di Scott Litt. Paul Westerberg è solo al timone, ma la nave è ormai alla deriva tanto e vero che gli anni ’90 iniziano con l’abbandono anche da parte del batterista storico Chris Mars. I The Replacements si sciolgono ufficialmente.
Il triste destino di Bob e i progetti solisti
Il destino di Bob Stinson è triste e crudele: torna a fare il cuoco ma inizia a farsi di eroina. Ha un figlio tetraplegico e con una paralisi cerebrale, la moglie lo abbandona e inizia a vivere come un senza tetto in cerca di una dose. Morirà a solo 35 anni talmente debilitato da non ruscire nemmeno ad iniettarsi l’ultima dose.
Chris Mars pubblicherà qualche album solista prima di dedicarsi stabilmente all’altra sua passione, la pittura, mentre il più piccolo degli Stinson (ricordiamoci che Tommy al momento dell’album di esordio dei ‘Mats aveva appena 15 anni) forma i Bash & Pop, pubblica un paio di dischi solisti. e, dal 1998 al 2015, si unisce addirittura ai Guns N’ Roses.
Come era chiaro, la carriera solista più luminosa è quella di Paul Westerberg. Dal primo, ottimo, 14 Songs al notevole Suicaine Gratifaction che si affaccia al nuovo millennio. E ancora qualche collaborazione cinematografica con il regista Cameron Crowe, un alter ego come Grandpa Boy e vari pezzi messi in vendita su Bandcamp.
Intanto il regista indipendente Gorman Bechard fa uscire un docufilm chiamato Color Me Obsessed – A Film About the Replacements. Può apparire curioso, ma non c’è nemmeno una canzone, o un video del gruppo. È un racconto di persone, di come la musica dei ‘Mats si sia intrecciata clamorosamente con la vita della gente. Ognuno (più di 200 persone tra gente di strada, addetti ai lavori, musicisti, giornalisti) ha raccontato aneddoti vissuti o sensazioni, senza nascondere momenti bui, incongruenze, malinconie, talento ed inadeguatezza, momenti di euforia e delusioni, ma evidenziando comunque quanto in profondità siano entrati nelle loro vite.
Epilogo
Ci sono stati alcuni tentativi di reunion tra il 2014 ed il 2015, con esibizioni in festival importanti come Coachella e Primavera Sound, ma non hanno funzionato, la magia è inesorabilmente svanita. E anche le ristampe degli album in edizioni Deluxe e la pubblicazione di un notevole documento sonoro dal vivo come For Sale: Live at Maxwell’s 1986 (registrato ad Hoboken, New Jersey), dove i quattro avevano clamorosamente dato il meglio di loro (perfino un Bob Stinson incredibilmente quasi lucido in una delle sue ultime, e migliori, apparizioni) non ne hanno risollevato più di tanto le quotazioni mainstream, E forse è giusto così.
In definitiva vi chiederete perché ho scelto proprio questa storia? Perché i Replacements, i ‘Mats, con tutto il loro carico emotivo, i loro pregi, difetti, l’istinto autodistruttivo, il loro talento e la loro inadeguatezza, la spontaneità e sincerità talvolta portata all’eccesso, hanno rappresentato tanto per più di una generazione, e pur avendo incarnato, in fondo, il concetto di perdenti (e in fondo era quello che hanno inseguito) restano tra i gruppi di culto più amati proprio per le sue contraddizioni: così umani, così vicini alla gente. Un quartetto capace di influenzare innumerevoli band negli anni ’90 e oltre. Una miscela unica di rock and roll, punk, blues e ballate, arricchita da alcuni dei più grandi testi mai scritti.
Riscoprire i Replacements è un dovere.
DISCOGRAFIA
Albums:
- Sorry Ma, Forgot To Take Out The Trash (1981, Twin/Tone Records)
- Stink – “Kids Don’t Follow” Plus Seven (1982, Twin/Tone Records, EP)
- Hootenanny (1983, Twin/Tone Records)
- Let It Be (1984, Twin/Tone Records)
- Tim (1985, Sire)
- Pleased To Meet Me (1987, Sire)
- Don’t Tell A Soul (1989, Sire)
- All Shook Down (1990, Sire)
Live Albums:
- The Shit Hits The Fans (1985, Twin/Tone Records, Cassetta)
- For Sale: Live At Maxwell’s 1986 (2017, Sire – Rhino Records)
- The Complete Inconcerated Live 1989 (2020, Sire – Rhino Records – RSD 2020)
- Unsuitable For Airplay – The Lost KFAI Concert (2022, Twin/Tone Records – Rhino Records – RSD 2022)
Bibliografia:
- Jim Walsh: “The Replacements. All Over But The Shouting – An Oral History” Voyageur Press – 2007
- Bob Mehr: “Trouble Boys. The True Story Of The Replacements” Da Capo Press – 2016
- Roberto Curti: “The Replacements – Bastardi Senza Gloria” Tuttle Editions – 2021
- Colin Meloy: Let It Be (33 1/3) Continuum – 2004