Le avventure in musica di Sounds & Grooves continuano nella 16° Stagione di RadioRock.TO The Original
In questo episodio di Sounds & Grooves troverete un giusto mix tra novità e ripescaggi dal passato
Sounds & Grooves è un appuntamento quindicinale che (spero) impreziosisce lo straordinario palinsesto di www.radiorock.to da ben 16 stagioni. A pensarci è pazzesco che sia passato già così tanto tempo da quando abbiamo iniziato questa folle ma fantastica avventura. Siamo una podradio nata per dare un segnale di continuità con il passato, con quella meraviglia che Franz Andreani, Marco Artico, Flavia Cardinali, Massimo Di Roma, Michele Luches, Aldo Semenuk, Giampiero Crisanti, Gianpaolo Castaldo avevano creato e a cui, nel mio piccolo, ho provato a dare un contributo dal 1991 al 2000. Sappiamo tutti benissimo che la Radio Rock in FM come la intendevamo noi è sparita da almeno due decenni, ma in tutti questi anni di podcast sul web abbiamo cercato di tenere accesa quella fiammella per poi tentare di moltiplicarla, facendola diventare un faro di emozioni e qualità musicale. Perché la passione e la voglia di fare radio, la voglia di ascoltare e di condividere la musica di qualità, nonostante tutto, non ci è mai passata. Questa creatura dopo 3 lustri continua orgogliosamente a remare controcorrente, cercando quella libertà in musica che nell’etere è ormai diventata una mosca bianca, ed esprimendo la passione per la condivisione, per la ricerca, per l’approfondimento. Non dobbiamo aderire ad una cieca linea editoriale che ormai spinge esclusivamente il pulsante play dei servizi di streaming, ma ci lasciamo guidare semplicemente dal nostro cuore e dalla nostra passione. Fulvio Savagnone, Marco Artico, Giampiero Crisanti, Franz Andreani, Flavia Cardinali, Francesco Cauli, Ivan Di Maro, Fabio De Seta, Massimo Santori, Maurizio Nagni, Angie Rollino ed io proveremo a coinvolgervi con i nostri podcast regolari e con le rubriche tematiche di approfondimento, sperando di farvi sentire sempre di più parte di questa fantastica avventura.
La musica ha spesso il potere terapeutico di guarire le anime, lenire in qualche modo il dolore e le storture dei nostri tempi come una pozione magica, un incantesimo primordiale, facendoci fare viaggi immaginari di enorme suggestione emotiva, ed è questo il percorso che Sounds & Grooves vuole seguire.
Nel decimo viaggio della nuova stagione, andiamo ad esplorare gli abissi oscuri del collettivo Gnod, le traiettorie orgogliosamente anarchiche degli Oneida, il ritrovato vigore art-punk dei The Membranes, le melodie senza tempo di Felt, Love e The Byrds, la coerenza e la carica degli irlandesi That Petrol Emotion, il sarcasmo di Mark E.Smith e dei suoi The Fall. E ancora, il songwriting elegante di Ray LaMontagne, quello sofferto di Vic Chesnutt, la redenzione di Jim White e il ripescaggio dell’emozionale Damien Rice. Per concludere ci saranno le atmosfere noir di Circuit Des Yeux e la sensibilità jazz-folk di Eric Chenaux. Il tutto, come da 15 anni a questa parte, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
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Iniziamo il podcast con un gruppo che da tanti anni ci fa strabuzzare le orecchie. Il 2018 ha visto il grande ritorno degli avant-rockers Oneida. I maestri del rock sperimentale newyorkese sono tornati dopo la riuscita collaborazione con il maestro Rhys Chatham con un doppio album intitolato semplicemente Romance. Il disco forse è il più riuscito della band dai tempi del seminale Each One Teach One, con il perfetto connubio tra free rock, psichedelia, minimalismo e sonici assalti frontali. Lo spirito avventuroso del combo torna in tutta la sua esplosività, con momenti melodici e ritmi organici mescolati a suoni frenetici, improvvisati e meravigliosamente irregolari.
Si va dai tre minuti di una “canzone” regolare quasi di ispirazione anni ’60 come “All In Due Time” ai diciotto (!) minuti della conclusiva “Sheperd’s Axe” che dopo un’introduzione di tastiere ambientali procede in maniera mostruosa in una progressione tra psichedelia, noise, jazz e rock suonata con una lucida e mirabolante follia. Una band clamorosa ed un disco che inaugura come meglio non si potrebbe la collaborazione con l’etichetta Joyful Noise. Ascoltate la trascinante “Reputation” per redere.
Il collettivo britannico GNOD, proveniente da Salford, area di Manchester, è attivo dal 2007 e può già vantare una discografia estremamente densa tra album normali, EP e vari split con band tipo White Hills, A Middle Sex, Bear Bones e altre. Le loro coordinate sono sfuggenti e sempre in movimento tra psichedelia, industrial, noise, free-jazz, ambient e suggestioni kraut. Ad aumentare il fascino di questo collettivo visionario e surreale dove si sono alternati negli anni oltre 30 musicisti, è arrivato nel 2015 un pachiderma sonoro intitolato Infinity Machines, formato da due CD o tre LP, per quasi due ore di musica. Ma il collettivo britannico non ha mai fatto mistero di un certo impegno sociale, visto che due anni dopo il loro lavoro prendeva il nome di Just Say No The Psycho Right-Wing Capitalist Fascist Industrial Death Machine.
Proprio durante il tour di quest’ultimo album prendono vita i brani che verranno messi a punto e registrati nello studio Supernova di Eindhoven sotto l’egida di Bob De Wit creando un nuovo intenso disco chiamato Chapel Perilous (definizione usata per la prima volta in campo letterario in una opera avventurosa di Sir Thomas Malory nel 1485) uscito nel 2018. Paddy Shine, Chris Haslam e compagni creano un nuovo microcosmo che rappresenta il suono errabondo dei GNOD, una ricerca costante di una meta, un senso psichedelico che è quasi più mentale che musicale. Un suono istintivo e primitivo che usa la ripetizione, il rancore furioso dei riff, i paesaggi sonori tetri e la sperimentazione fuori mappa per creare un tableau intimidatorio e rinvigorente di terrore distopico e di intensità senza fronzoli. I droni cupi e malevoli di “The Body” sono perfetti per entrare nell’oscuro mondo dei GNOD.
Loro sono un gruppo formato agli albori degli anni ’80 dal bassista John Robb. I The Membranes rimasero attivi dal 1981 al 1989, incidendo 6 album ed una manciata di singoli ed EP. Il loro art-punk interessante e spigoloso, arguto e scazzato, ma non privo di una spiccata componente pop, riuscì a catturare solo lo status di gruppo di culto e l’ammirazione di una piccola fetta di pubblico tra cui, fortunatamente, c’erano anche alcuni personaggi di un certo rilievo per la storia del rock tra cui John Peel, Mark Stewart e Steve Albini. Dopo lo scioglimento del gruppo, Robb si dedicò quasi esclusivamente al mestiere di giornalista, sia televisivo per la BBC sia come autore di libri, pubblicando, tra le altre cose, anche una splendida retrospettiva sul periodo punk intitolata Punk Rock: An Oral History, fino a quando nel 2010 decise di riformare la band.
Il doppio album uscito nel 2015 intitolato Dark Matter/Dark Energy, ce li ha fatti ritrovare in forma strepitosa. La band di Blackpool mostra subito un’energia ed una forza inaudita. aggredendo il malcapitato ascoltatore con l’epico assalto di “Do The Supernova”, dove sembra che questi 26 anni non siano mai passati, vista la forza con cui Robb maltratta il suo basso e strepita al microfono. La band si ricorda del suo passato meravigliosamente anarchico, riprendendo i suoni da loro sciorinati e sintetizzati negli anni ’80 ma attualizzandoli dinamicamente ai giorni nostri e aumentandone ancora, se possibile, l’energia ed il groove. Ascoltate una delle migliori tracce del lotto, quella “Dark Energy” dallo sviluppo fiammeggiante e funkeggiante che avvolge, si insinua grazie all’ausilio del violoncello, e finalmente conquista.
Ogni tanto mi tocca fare un onestissimo mea culpa quando includo nei podcast artisti che raramente sono passati da queste parti per ignoranza o distrazione. Ma stavolta non potevo ignorare la storia di un personaggio misterioso e carismatico come Lawrence Hayward, che con i suoi Felt ha scritto pagine di musica assolutamente memorabili durante gli anni ’80. L’amore per Tom Verlaine ed i Television porta il ragazzo di Birmingham a creare musica. Non sarà facile il percorso che porterà Hayward a registrare finalmente nel 1984 il primo mini The Splendour Of Fear, un rifiuto da parte della label Postcard e un invito di Mark E. Smith in persona per aprire un concerto dei The Fall, tanto da fargli capire che la strada intrapresa era quella giusta.
Da li in poi ci saranno un tour con i Cocteau Twins, l’ingresso del giovane tastierista Martin Duffy (poi con The Charlatans e Primal Scream) e l’abbandono del chitarrista e co-fondatore Maurice Deebank a sancire il regno di Hayward pronto ad allontanare le venature più scure e a portare i Felt verso una sorta di synth pop ambizioso e raffinato con Forever Breathes The Lonely Word, ispirazione per tanto shoegaze e dream pop degli anni a venire. A rappresentare l’album del 1986 ci sono le straordinarie melodie senza tempo di “September Lady”. Fortunatamente da poco la benemerita Cherry Red ha provveduto a ristampare i dieci dischi pubblicati dalla band, anche se con un artwork, come dire, talvolta discutibile.
A proposito di gruppi che non hanno ottenuto il successo e la fortuna che avrebbero meritato. Restiamo negli anni ottanta e ci spostiamo a Derry in Irlanda Del Nord, città famosa suo malgrado per la famosa Bloody Sunday del 1972. Qui si sono formati dalle ceneri degli Undertones, i That Petrol Emotion, gruppo che presto trasloca a Londra a cercar fortuna trovando un cantante notevole come l’americano Steve Mack. La band ha una forte carica espressionista, una perfetta miscela esplosiva in bilico tra punk, pop e quel rock “da stadio” che fece la fortuna degli U2.
Il tutto condito da un’aperta e decisa presa di posizione politica, un impegno sociale che era profondamente radicato nel loro DNA. Talmente profondo da fargli rifiutare la proposta della stessa band di Bono ad aprire per loro. Il gruppo dei fratelli Ó Neill ha sempre imputato al gruppo di Dublino il mancato impegno politico a favore dell’Irlanda. Il loro album di esordio è uno di quei gioielli dimenticati da riascoltare e possedere. Manic Pop Thrill, è un disco capace di accarezzare e di colpire i nostri padiglioni auricolari, di rapirci e portarci in una diversa dimensione, come dimostra il trascinante inno “It’s A Good Thing”.
I The Fall sono stati una delle band di culto e più importanti della scena post-punk britannica, di cui faranno parte band come Joy Division e Buzzocks. Carattere difficile, come dimostrano gli innumerevoli cambiamenti all’interno della band, il leader Mark E. Smith è stato un intellettuale scettico nei confronti dell’arte in generale. La sua musica e le sue liriche erano intense, ripetitive, pervase da uno scuro senso dell’umorismo. Ha guidato il suo gruppo per 40 anni, senza mai avere un successo planetario, ma riscuotendo sempre il favore della critica e del suo fedele seguito di fans.
Smith ci ha lasciato nel gennaio 2018. Ci mancherà il suo crudo sarcasmo, la sua visione musicale sghemba e affascinante che ha influenzato negli ultimi 40 anni molti gruppi dai Pavement agli LCD Soundsystem. New Facts Emerge, è stato il suo trentunesimo e ultimo album in studio, uscito nel 2017 con una formazione che incredibilmente lo accompagnava stabilmente da 10 anni: Peter Greenway (chitarra e synth), David Spurr (basso) e Keiron Melling (batteria). L’epico hardcore-punk di “Fol De Rol” dimostra la classe infinita e la carica di un artista che ha sfornato meraviglie fino alla fine.
Anche se dovrei cercare di rimanere il più obiettivo possibile, non nascondo che i Love sono sempre stati tra le mie band preferite in assoluto uscite dagli anni ’60. Il gruppo fu importante non solo perché è stato uno dei primi gruppi multirazziali negli Stati Uniti, ma per il visionario e riuscito mix di psichedelia e suggestioni beat dove si va ad innestare una fantastica componente orchestrale che al posto di appesantire il suono va a dirigerlo magistralmente verso il cielo. Già nel novembre 1966 avevano trovato la quadratura del cerchio con un album splendido intitolato Da Capo. Un anno dopo, se possibile, i cinque riescono a perfezionarsi alzano l’asticella ancora più in alto con il meraviglioso Forever Changes, uno dei dischi più memorabili di quella indimenticabile stagione.
Eppure per il talentuoso Arthur Lee e compagni la registrazione del disco era stata tutto fuorché tranquilla. Il produttore Bruce Botnick infatti aveva trovato una band a pezzi, squassata dalle droghe e dall’alcool, tanto da dover “affittare” un paio di turnisti per le sessioni in studio. Nonostante questo l’album, registrato in quattro lunghi mesi, è un miracolo di equilibrio e di melodie affascinanti, senza punti deboli. “The Red Telephone”, con i suoi curatissimi arrangiamenti, è una delle vette assolute del capolavoro dei Love. Il chitarrista e cofondatore Bryan MacLean lasciò la band subito dopo l’uscita di Forever Changes, in parte perché aveva firmato un contratto da solista con l’Elektra, in parte perché soffriva il dualismo con Lee, che andò avanti creando una formazione nuova di zecca che non riuscì mai ad eguagliare quei due album straordinari.
C’è poco da fare, il 1967 è stato un punto di svolta per quanto riguarda la storia della musica. Nel 1967 i The Byrds sono già un gruppo famoso grazie alla rilettura di un classico di Dylan come “Mr. Tambourine Man”, portato nel 1965 addirittura in vetta alle classifiche americane. In quell’anno la formazione della band vede Roger McGuinn e David Crosby a chitarra e voce, Chris Hillman al basso e Michael Clarke alla batteria, e Younger Than Yesterday è il primo album che non vede l’apporto del principale autore delle canzoni del gruppo, Gene Clark, che se ne andò nel febbraio 1966. McGuinn e Crosby proseguono il discorso iniziato nel precedente Fifth Dimension rendendo il suono più psichedelico e impreziosendolo con mille finezze e sfumature, mentre Hillman prende coraggio come compositore firmando splendide canzoni come la “Thoughts and Words” inserita in scaletta.
E se il disco vede una delle più belle composizioni di Crosby (“Everybody’s Been Burned” ), spicca un’altra rilettura di Dylan, “My Back Pages”, il cui testo da anche il titolo all’album. L’album in patria non andò oltre la posizione N°24, ricevendo tuttavia recensioni complessivamente positive da parte della stampa musicale ufficiale, anche se al contrario la stampa underground ebbe commenti meno lusinghieri nei confronti dell’opera. Il celebre giornalista rock Lester Bangs affermò che “Younger Than Yesterday poteva essere considerato come il Revolver del pop-rock americano”. Probabilmente il disco del 1967 resta l’apice di un gruppo che di lì a poco perderà l’apporto di David Crosby, sostituito da un personaggio cardine del country-rock come Gram Parsons.
C’è sempre stata, in qualche modo, la visione musicale dei tardi anni ’60 e dei ’70 dietro all’ispirazione di un artista come Ray LaMontagne, cantautore e chitarrista del New Hampshire. Se per l’album Supernova nel 2015 si era affidato dietro al mixer a Dan Auerbach dei Black Keys, per il seguente Ouroboros la produzione è appannaggio a Jim James dei My Morning Jackets. Paradossalmente, dopo aver raggiunto la Top Ten statunitense per tre volte di fila, LaMontagne decide per una sorta di svolta stilistica abbandonando il suono radiofonico e andando a trasferire curiosamente le suggestioni Floydiane era Dark Side Of The Moon nell’assolata California. Il titolo enigmatico, Ouroboros, è tratto da un antico simbolo di un serpente che si mangia la coda (a rappresentare l’energia universale che si consuma e si rinnova di continuo), ed è stato concepito per essere suonato su vinile, con due lunghi pezzi, uno per lato, divisi in parti.
Certo, il citazionismo è sempre stato una delle caratteristiche di LaMontagne in tutte le fasi della sua carriera. Dal folk rock dell’amato Stephen Stills al blues venato di soul per poi passare a questa fase in cui la psichedelia britannica dei seventies sembra prendergli la mano in un pericoloso esercizio di stile che, in superficie, potrebbe anche apparire come mancanza di una personalità ben definita. In realtà, come dimostra la rilassata vena della “Wouldn’t It Make A Lovely Photograph” inserita in scaletta, affiora qua e là una passione viscerale ed emotiva che allontana gli ingombranti richiami al passato disseminati nelle due facciate di questo, comunque ottimo, disco.
Volevo ripescare un disco arrivato alla fine del 2017, ma che ha saputo colpirmi al cuore tanto da inserirlo al volo nella mia personalissima Playlist annuale. Jim White incide dal 1997 canzoni estremamente classiche, peccatore folgorato sulla via di Damasco che rielabora in chiave moderna le sue radici country e hillbilly. Waffles Triangles and Jesus è composto da dodici canzoni scintillanti che sanno essere tanto tradizionali quanto moderne. White si è divertito a creare questi ibridi di musiche antiche con testi moderni, e le sue storie di peccati e redenzioni, di dolori e di rinascite sono sempre in grado di coinvolgere e commuovere.
Il disco, il suo sesto registrato in studio, è uno dei più riusciti e coinvolgenti. D’altra parte uno che, tra i tanti mestieri praticati, ha guidato il taxi a NYC per 13 anni di storie da raccontare ne deve avere parecchie. White ama attingere a piene mani dal patrimonio musicale storico americano ponendosi al crocevia tra cultura, musica, e fede religiosa. Tra momenti malinconici ed altri più estroversi e pop il disco si mostra sempre vitale e piacevole. “Here I Am” non è solo un mettersi a nudo ma semplicemente una della canzoni più belle e trascinanti pubblicate nel corso del 2017.
A cavallo tra i ’90 e gli anni 2000 ci sono stati diversi songwriters che hanno saputo tracciare una linea importante e toccare le corde giuste dell’emozione. In particolare tre ragazzi tanto talentuosi quanto fragili psicologicamente sono riusciti ad emozionarmi in maniera importante, tre ragazzi che sono stati vittime della loro stessa fragilità interiore scegliendo la medesima strada per allontanarsi da questo mondo. Vic Chesnutt, Mark Linkous aka Sparklehorse e Jason Molina. Anche se quest’ultimo non ha proprio volontariamente lasciato questo piano dell’esistenza ma in qualche modo è come se lo avesse fatto lentamente ma inesorabilmente, aveva grandi problemi con l’alcool e purtroppo non aveva l’assicurazione sanitaria: questo negli Stati Uniti difficilmente perdona…
Tornando a Chesnutt, nel 1983 fu vittima di un tremendo incidente stradale mentre guidava sotto effetto di alcool. Perse il controllo della vettura finendo in un canale, uscendone con gli arti inferiori paralizzati e rimanendo su una sedia a rotelle per il resto della sua vita. Questo non impedì a Chesnutt di iniziare una carriera musicale che trovò una svolta con il trasferimento a Athens, Georgia, e l’interesse di Michael Stipe che produsse i suoi primi due lavori. North Star Deserter è il suo penultimo lavoro, uscito per la Constellation, e che vede la sinergia con i Silver Mt. Zion e con Guy Picciotto dei Fugazi. Quattro facciate dove si mescolano perfettamente il songwriting dolente di Chesnutt con le atmosfere cinematiche e tragiche del collettivo canadese. “Marathon” è solo una delle sofferte meraviglie di questo album di cui consiglio assolutamente l’ascolto. Una scrittura magistrale ed ipnotica, tormentata e affascinante. Sono passati poco più di 12 anni da quel tragico giorno, ma Vic Chesnutt non smette mai di mancarci.
A volte mi scordo di un songwriter interessante come l’irlandese Damien Rice. Dopo aver iniziato la carriera come membro della band Juniper, ben presto si è trovato a fare i conti con una major come la PolyGram davvero troppo invasiva nella ricerca dell’hit single. L’ingerenza del music business nella fase compositiva ha spinto Rice ad abbandonare la band e a iniziare una carriera solista. La bontà delle sue composizioni hanno convinto il produttore David Arnold a finanziarlo per fargli registrare e pubblicare un album. Il suo disco di esordio, “O”, viene licenziato dalla piccola 14th Floor nel 2002 ed è composto da 10 piccole-grandi magie acustiche, registrate con l’apporto della cantante Lisa Hannigan.
Le limpide armonie delle canzoni dell’esordio hanno colpito la sensibilità di molti autori televisivi e registi, tanto che nel corso degli anni molte sono state scelte per far parte della colonna sonora di alcune serie tv: “Cannonball” e “The Blower’s Daughter” in The L Word, “Delicate” in Lost, Dr. House – Medical Division, Dawson’s Creek, Alias, Misfits e CSI: Miami, “Cold Water” in E.R. – Medici in prima linea e nel film Stay – Nel labirinto della mente e “Cannonball” in The O.C. La mia scelta per rappresentare questo modo di intenso e poetico lirismo è stata proprio la splendida magia di “The Blower’s Daughter”.
Eric Chenaux è una sorta di songwriter post moderno in bilico tra folk e jazz. Nato a Toronto, ottimo chitarrista, è entrato nelle grazie della prestigiosa etichetta canadese Constellation Records per il suo modo originale ed obliquo di comporre e di pizzicare le sei corde. Eric ha composto e suonato musica per film e danza contemporanea, e ha collaborato con con l’artista visuale Marla Hlady per numerose installazioni sonore. Tra ostiche sperimentazioni e ballate oblique, Chenaux tre anni dopo l’ottimo Skullsplitter, da alle stampe il suo sesto lavoro in studio nel 2018 intitolandolo Slowly Paradise.
La sua voce e il suo suono distintivo vanno di pari passo diventando meno ostici del passato, ma allo stesso tempo strizzando l’occhio ad un viaggio nella memoria. “Slowly Paradise” rappresenta perfettamente (e non potrebbe essere diversamente visto che è la title track) lo spirito dell’album, un brano che mostra le sue romantiche dissonanze, la sua tecnica chitarristica, la sua splendida voce ed un modo quasi unico di coniugare acustica ed elettronica in un disco di grande fascino e di trasporto quasi mistico. “Posso scegliere? Preferirò sempre incontrare Miss Sperimentazione piuttosto che Miss Interpretazione. È una ballerina molto migliore.” (Eric Chenaux)
Chiudiamo il podcast con un’artista dalla voce potente ed evocativa dal notevolissimo talento. Tutto nasce il 22 gennaio del 2016, quando Haley Fohr all’improvviso collassa durante la notte senza un motivo apparente e questo episodio in qualche modo la segna profondamente. La cantautrice dell’Indiana ma residente a Chicago, più conosciuta con il moniker di Circuit Des Yeux, da quel momento cambia approccio alla sua vita vedendo le cose sotto una luce diversa. Non sapremo mai se è una storia vera o inventata, sta di fatto che dopo la parentesi quasi country sotto il nome di Jackie Lynn, questo evento è stata la scintilla e l’ispirazione per la composizione dell’album Reaching For Indigo, sesto lavoro in studio che vede l’artista accasarsi presso la prestigiosa Drag City.
L’album è più scuro ed intimista rispetto al precedente In Plain Speech, pubblicato due anni prima per un’altra splendida etichetta come la Thrill Jockey. Il pathos che va a braccetto con la melodia, un intrigante, scuro e surreale modo di vedere il mondo, come dimostra la lunga ed affascinante “Black Fly”, uno dei vertici assoluti del disco.
Un grazie speciale va, come sempre, a Franz Andreani per la sua passione, la gestione di questa banda di pazzi e per la splendida riorganizzazione del sito già attiva da qualche anno. A cambiare non è stata solo la versione grafica del sito, ma anche la “filosofia” della podradio, con le rubriche che vanno ad integrarsi nella programmazione regolare sotto l’hashtag #everydaypodcast. Sulla nostra pagina Facebook troverete quotidianamente ogni upload del sito e, ormai da tempo, è attivo anche lo splendido canale YouTube della Radio, una nuova formula senza interruzioni ne spot per ascoltare la vostra-nostra musica preferita. Iscrivetevi numerosi, vi aspettiamo!
Nel prossimo episodio di Sounds & Grooves, andremo innanzitutto a ricordare un grande come Mark Lanegan con tracce degli Screaming Trees, degli Earth, dei Mad Season e del suo repertorio solista. Poi troverete il rock fiammeggiante e venato di soul di un The Afghan Whigs d’annata, un piccolo excursus sulla California psichedelica della seconda metà degli anni ’80 con gli Shiva Burlesque di Grant-Lee Phillips e gli Psi Com di Perry Farrell, un ricordo di Brian Jones (che quest’anno avrebbe festeggiato l’80° compleanno) risalente a 55 anni fa, quando da dietro le quinte dispensava piccole grandi magie negli album dei Rolling Stones. E ancora: il post-punk emozionale dei Protomartyr, l’eclettismo sorprendente dei controversi Fat White Family , le traiettorie lisergiche di una delle nuove band più interessanti, i King Hannah da Liverpool. Il finale onirico sarà appannaggio del trittico Lambchop, The Delines e The Blue Nile. Il tutto, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
Intanto se volete potete sfruttare la parte riservata ai commenti qui sotto per darmi suggerimenti, criticare (perché no), o proporre nuove storie musicali. Mi farebbe estremamente piacere riuscire a coinvolgervi nella programmazione e nello sviluppo del mio sito web.
Se volete ascoltare o scaricare il podcast, potete farlo anche dal sito della PodRadio cliccando sulla barra qui sotto. Buon Ascolto
TRACKLIST
01. ONEIDA: Reputation da ‘Romance’ (2018 – Joyful Noise Recordings)
02. GNOD: A Body da ‘Chapel Perilous’ (2018 – Rocket Recordings)
03. THE MEMBRANES: Dark Energy da ‘Dark Matter/Dark Energy’ (2015 – Cherry Red)
04. FELT: September Lady da ‘Forever Breathes The Lonely Word’ (1986 – Creation Records)
05. THAT PETROL EMOTION: It’s A Good Thing da ‘Manic Pop Thrill’ (1986 – Demon Records)
06. THE FALL: Segue/Fol De Rol da ‘New Facts Emerge’ (2017 – Cherry Red)
07. LOVE: The Red Telephone da ‘Forever Changes’ (1967 – Elektra)
08. THE BYRDS: Thoughts And Words da ‘Younger Than Yesterday’ (1967 – Columbia)
09. RAY LaMONTAGNE: Wouldn’t It Make A Lovely Photograph da ‘Ouroboros’ (2016 – RCA)
10. JIM WHITE: Here I Am da ‘Waffles, Triangles & Jesus’ (2017 – Loose)
11. VIC CHESNUTT: Marathon da ‘North Star Deserter’ (2007 – Constellation)
12. DAMIEN RICE: The Blower’s Daughter da ‘O’ (2002 – 14th Floor Records)
13. ERIC CHENAUX: Slowly Paradise da ‘Slowly Paradise’ (2018 – Constellation)
14. CIRCUIT DES YEUX: Black Fly da ‘Reaching For Indigo’ (2017 – Drag City)