Le avventure in musica di Sounds & Grooves si uniscono al resto della banda per la 17° Stagione di RadioRock.TO The Original
Nel primo episodio stagionale di Sounds & Grooves troverete un mix equilibrato tra novità e ripescaggi dal passato
Anche l’appuntamento quindicinale di Sounds & Grooves arriva ad impreziosire (spero) lo straordinario palinsesto di www.radiorock.to per il 17° anno consecutivo. A pensarci è pazzesco che sia passato già così tanto tempo da quando abbiamo iniziato questa folle ma fantastica avventura. Siamo una podradio nata per dare un segnale di continuità con il passato, con quella meraviglia che Franz Andreani, Marco Artico, Flavia Cardinali, Massimo Di Roma, Michele Luches, Aldo Semenuk, Giampiero Crisanti, Gianpaolo Castaldo avevano creato e a cui, nel mio piccolo, ho provato a dare un contributo dal 1991 al 2000. Sappiamo tutti benissimo che la Radio Rock in FM come la intendevamo noi è sparita da almeno due decenni, ma in tutti questi anni di podcast sul web abbiamo cercato di tenere accesa quella fiammella per poi tentare di moltiplicarla, facendola diventare un faro di emozioni e qualità musicale. Perché la passione e la voglia di fare radio, la voglia di ascoltare e di condividere la musica di qualità, nonostante tutto, non ci è mai passata. Questa creatura dopo 3 lustri continua orgogliosamente a remare controcorrente, cercando quella libertà in musica che nell’etere è ormai diventata una mosca bianca, ed esprimendo la passione per la condivisione, per la ricerca, per l’approfondimento. Non dobbiamo aderire ad una cieca linea editoriale che ormai spinge esclusivamente il pulsante play dei servizi di streaming, ma ci lasciamo guidare semplicemente dal nostro cuore e dalla nostra passione. Fulvio Savagnone, Marco Artico, Giampiero Crisanti, Franz Andreani, Flavia Cardinali, Francesco Cauli, Ivan Di Maro, Fabio De Seta, Massimo Santori, Maurizio Nagni, Angie Rollino ed io proveremo a coinvolgervi con i nostri podcast regolari e con le rubriche tematiche di approfondimento, sperando di farvi sentire sempre di più parte di questa fantastica avventura.
La musica ha spesso il potere terapeutico di guarire le anime, lenire in qualche modo il dolore e le storture dei nostri tempi come una pozione magica, un incantesimo primordiale, facendoci fare viaggi immaginari di enorme suggestione emotiva, ed è questo il percorso che Sounds & Grooves vuole seguire.
Il primo viaggio della nuova stagione inizia con i deflagranti (musicalmente e socialmente) Dead Kennedys, per poi inserirsi nei binari deviati (e devianti) tra noise e improvvisazione degli straordinari Party Dozen prima di ricordare un gruppo tanto grande quanto sfortunato come i Brainiac. Un assaggio del garage rock dell’ennesimo (misconosciuto) disco di Olivier Lambin aka DER ci porta a tuffarci nei ritmi forsennati della batteria del compianto Anton Fier dei The Feelies di Crazy Rhythms. Ancora novità con il caleidoscopio sonoro dei Kamikaze Palm Tree per poi tornare indietro al meraviglioso esordio dei Green On Red, a ricordarci la straordinaria stagione del Paisley Underground. C’è ancora spazio per quell’alchimia sonora tra Giant Sand+Lisa Germano chiamata OP8 e per l’anticipo di post-rock a fine ’80 degli A.R.Kane. E se i Breathless ci incantano ancora dopo 10 anni di silenzio, Jim O’Rourke riesce a sorprenderci ogni volta anche quando scrive “simple songs”. Il finale è dedicato a folk e jazz, prima con il folk blues scuro (omaggio a John Fahey) del batterista José Medeles in compagnia della sei corde di Marisa Anderson, poi con il ricordo del fraseggio impetuoso della tromba di Jaimie Branch che ci ha lasciato troppo presto, per poi finire con l’ennesimo centro di una delle migliori chitarriste jazz degli ultimi anni, Mary Halvorson. Il tutto, come da ben 16 anni a questa parte, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
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Vista la pubblicazione del podcast a ridosso delle elezioni, non potevo esimermi dal programmare un gruppo che dell’impegno sociale e del sarcasmo sulla classe politica (e mediatica) ne ha fatto una sorta di bandiera. I Dead Kennedys si formano a San Francisco nel 1978, nel pieno dell’era punk quando il cantante Eric Boucher aka Jello Biafra risponde ad un annuncio pubblicato su un giornale locale dal chitarrista Raymond Pepperell aka East Bay Ray. Ai due si aggiungono presto il bassista Geoffrey Lyall aka Klaus Flouride, il batterista Bruce Slesinger aka Ted e la chitarra ritmica di Carlos Cadona aka 6025, che lascia il gruppo nel 1979 per presunte divergenze musicali appena prima dell’esordio discografico.
Già il nome scelto lasciava intendere la vena provocatoria della band, ed il primo singolo ad essere pubblicato nel giugno del 1979 alza ancora l’asticella. “California Über Alles” è un’aperto attacco a Jerry Brown, all’epoca (e lo sarà ancora dal 2011 ai giorni nostri) governatore della Californa, che porta Biafra ad urlare come ritornello l’unica strofa dell’inno tedesco usato ai tempi del Nazismo. Basta sostituire Deutschland con California ed il gioco è fatto. Un anno più tardi Fresh Fruit For Rotting Vegetables conferma i Dead Kennedys come alfieri (insieme ai deflagranti Germs) della scena punk californiana, traghettandola meravigliosamente verso l’hardcore. Un esordio che è stato terribilmente influente per moltissimi gruppi del decennio successivo.
Devo dire di essere rimasto stupito quando, girando sul web, ho fatto parecchia fatica a trovare articoli riguardanti uno dei gruppi che più mi ha colpito negli ultimi mesi, gli australiani Party Dozen. Devo dire che anche io sono arrivato a scoprire in netto ritardo il duo formato a Sidney dalla sassofonista Kirsty Tickle e dal batterista Jonathan Boulet, visto che l’album The Real Work è il terzo della loro discografia. Un progetto nato dall’amore per l’improvvisazione, una passione che farebbe fatica a reggersi in piedi se non ci fossero della basi ben solide a sostenerla. E a sostenere i Party Dozen e a dargli un pochino di quella popolarità che meritano, ci ha pensato Nick Cave, con il suo contributo vocale a “Macca The Mutt”, uno dei brani più trascinanti dell’ultimo album in studio.
Il drumming potente di Boulet, il soffio vigoroso e le urla nel sassofono di Tickle insieme ad un uso intelligente dell’elettronica, formano un quadro intrigante e compiuto, con atmosfere variabili dal noise alla psichedelia. Un suono che riesce, come per magia, a fermarsi un attimo prima di diventare inaccessibile. The Real Work è un disco abrasivo e intenso, capace anche di regalare momenti di psichedelia immaginifica, la chimica tra i due musicisti raggiunge un elevato climax sonoro, dovuto agli anni passati in tour e a improvvisare insieme e ad ascoltare Alice Coltrane. “The Worker” è solamente uno degli episodi intriganti di un disco che, lo ammetto spudoratamente, è riuscito ad entusiasmarmi.
I Brainiac sono stati una band fuori dagli schemi e dall’immenso potenziale che sfortunatamente non ha mai fatto in tempo ad esplodere in tutto il suo goliardico genio. Come troppo spesso accade, è stata una tragedia a porre fine alla loro storia nel momento in cui stavano raccogliendo i frutti di un duro lavoro per diventare una stella del firmamento musicale. Dopo aver limato il loro suono nei primi due lavori facendo viaggiare i brani con un’alternanza di pause e accelerazioni ricca di pathos e di tensione emotiva, la firma con la prestigiosa Touch And Go aveva dato finalmente alla band di Dayton, Ohio, la visibilità che meritava. La struttura delle canzoni di Hissing Prigs in Static Couture è isterica e psicotica, le tracce sembrano respirare e contorcersi vivendo di vita propria, abbandonando quasi completamente la tradizionale struttura almeno per una buona metà dell’album.
Lo stridulo falsetto di Tim Taylor sbraita raddoppiandosi, le nevrotiche linee di synth lanciano la chitarra in orbita, il basso pulsa vigoroso. Il disco viene chiuso dalla tensione garage di “I Am A Cracked Machine”, dove il cantato di Taylor supera sempre il livello rosso in una veemente interpretazione, degno finale di un album fondamentale per ogni fan che si rispetti dell’Indie Rock anni ’90. Ma il loro quarto album non vedrà mai la luce. La notte del 23 maggio 1997 Tim Taylor perde la vita in un incidente automobilistico mentre stava tornando a casa dallo studio di registrazione. I Brainiac si sciolgono con effetto immediato. Auto-ironici, stravaganti, geniali. Chissà cosa sarebbe successo se la loro storia non si fosse così drammaticamente interrotta.
Olivier Lambin aka RED è un artista francese originario di Lille attivo da oltre un ventennio. Tra album autoprodotti e altri progetti, Red ha spalmato tutto il suo amore per il songwriting (Dylan e Cohen), il rock blues classico (Rolling Stones) e la nuova passione per il funk espressa in un progetto chiamato Bodybeat. Misconosciuto ma appassionato, Lambin nel corso del 2022 è tornato guardando il suo nickname allo specchio e reinventandosi come DER. Durante gli ultimi due anni, la presbiopia ha innervosito il nostro eroe, che ha deciso di cambiare strumento ed imbracciare il basso solo perché ha tasti più grandi e meno corde! Assoldata una nuova formazione che comprende due batteristi, Néman (Zombie Zombie, Herman Düne) e DDDxie (The Shoes, Rocky, Gumm), più Jex, alias Jérôme Excoffier, il suo complice di sempre, che ha ancora una vista eccellente e che ha suonato tutte le chitarre dell’album, i quattro sono entrati in studio.
Il risultato è un disco intitolato Supersound, pubblicato dalla etichetta Bisou Records a marzo 2022. L’album è estremamente fresco e ben suonato, spavaldo e tagliente nel suo incedere energico tra garage rock, post-punk e ritmi funkeggianti. 12 canzoni registrate quasi in presa diretta. Magari non è l’album consigliato se cercate nuove avventure in musica, ma se siete allineati su certe (immortali) traiettorie è un disco estremamente gratificante e coinvolgente come dimostra la “Ready To Founce” inserita in scaletta oppure la “Normal” che potete ascoltare qui sotto.
In questo ondeggiare nella macchina del tempo, torniamo indietro al 1980, anno in cui le scorie della rivoluzione punk si stanno trasformando in nuovi generi musicali. Nel New Jersey l’incontro tra Glenn Mercer e Bill Million (entrambi cantanti, chitarristi e compositori) da vita ai The Outkids che ben presto, con l’ingresso della sezione ritmica formata dal basso di Keith De Nunzio e dalla batteria di Anton Fier (saltuariamente già collaboratore di band come Electric Eels e Pere Ubu), cambiano ragione sociale diventando The Feelies, nome preso dal romanzo distopico Il Mondo Nuovo di Aldous Huxley. Nonostante la fatica nel destreggiarsi nella tentacolare NY musicale della fine degli anni ’70, e i rari concerti live, i quattro ragazzi trovano finalmente un contratto con la Stiff e registrano quello che sarà non solo il loro debutto, ma anche uno degli album più influenti degli anni ’80.
Crazy Rhythms esce il 29 febbraio 1980 (meraviglie degli anni bisestili) e gli 8 brani composti da Million e Mercer, più una stravolta cover della Beatlesiana “Everybody’s Got Something to Hide (Except Me and My Monkey)”, mostrano un gruppo che vuole allontanarsi in fretta dalle macerie del punk per andare a trovare un suono tanto pulito quanto frenetico delle chitarre e una percussività nevrotica che sarà il loro marchio di fabbrica. Nevrotico e in qualche modo ballabile, il disco ebbe un ottimo riscontro di critica, ed è entrato (come molti album della storia del Rock, Velvet Underground & Nico su tutti) in un’ipotetica top 100 di tutti i tempi solo qualche anno più tardi e grazie ad altre band più famose (come ad esempio gli R.E.M.) che li hanno citati spesso come fonti di ispirazione. “Moscow Nights” è solo una delle meraviglie inserite in questo “classico” della new wave. Dopo questo esordio la band faticò a ritrovarsi, Fier andò a fondare i Golden Palominos e Good Earth uscì solo sei anni più tardi. Incredibile pensare che ho saputo della morte di Anton Fier (uno dei più grandi batteristi della sua generazione) solo poche ore dopo aver registrato il podcast.
Lo ammetto, mi sono avvicinato agli equilibrismi sonori dei Kamikaze Palm Tree con colpevole ritardo. Il duo di San Francisco formato da Cole Berliner (chitarra e tastiere) e Dylan Hadley (batteria e voce) hanno esordito nel 2016 con The Hand Faces Upwards , un mini album uscito solo in digitale, per poi arrivare solo tre anni fa al primo disco vero e proprio, l’intrigante Good Boy che ha fatto drizzare le antenne a quelli della Drag City, pronti a metterli sotto contratto e a pubblicare in questo caldo agosto il secondo lavoro intitolato Mint Chip. Sicuramente deve aver influito per l’approdo all’etichetta di Chicago, la raccomandazione di Tim Presley, che con uno sguardo compiaciuto da dietro al mixer, ha messo mano alla registrazione dell’album. Non è un caso che la Hadley abbia suonato la batteria sull’ultimo White Fence, condividendo con il suo mentore l’amore per gli slanci sperimentali e le melodie oblique.
La freschezza lo-fi della irresistibile e spericolata “The Hit” ci fa ritrovare una libertà espressiva tra art rock, psichedelia e new wave che sembrava persa. I Kamikaze Palm Tree si allontanano dal suono più scuro dei primi lavori, dimostrandosi maestri nella creazione di canzoni solo apparentemente spigolose e sperimentali. In realtà è la loro abilità nel plasmare a proprio piacimento la materia lo-fi che gli permette di smussare gli angoli più rumorosi e taglienti. Insomma, Mint Chip è un disco che affascina e coinvolge, una delle novità più sorprendenti uscite in questi primi due terzi di 2022.
Tucson, Arizona 1979. Dan Stuart (chitarra), Jack Waterson (basso), Van Christian (batteria) e Sean Nagore (organo), che sarà presto sostituito da Chris Cacavas, formano una band chiamata The Serfers e per avere più visibilità, decidono di uscire dalla ristretta scena di Tucson per dirigersi a Los Angeles. In California, per evitare confusione con la scena surf-punk locale, decidono di cambiare il nome in Green On Red, prendendo il nome da una delle loro prime canzoni. Van Christian decide di tornare a Tucson, ma viene subito rimpiazzato da Alex MacNicol, già conosciuto per aver suonato con Lydia Lunch. Il gruppo si va subito ad inserire nella corrente Paisley Underground, quel genere nato proprio in California che andava ad unire l’energia reazionaria del punk con il recupero delle sonorità root e psichedeliche.
Nel gennaio del 1981 i quattro si autoproducono 300 copie di un EP di cinque pezzi intitolato Two Bibles. Queste 5 tracce bastano per far drizzare le antenne a Steve Wynn , leader di una delle band di maggior successo dell’epoca, The Dream Syndicate. Wynn decide di produrre il successivo lavoro della band per conto della sua etichetta personale, la Down There. Nel 1982 esce Green On Red, altro EP costituito da 7 traccie meglio curate e arrangiate dell’esordio. Grazie a Wynn, la band entra in contatto con il produttore e musicista Chris Desjardins dei The Flesh Eaters, che li mette subito sotto contratto per la sua etichetta di successo Slash. Nel 1983 esce il loro primo album sulla lunga distanza, Gravity Talks, 12 tracce che li proiettano di diritto nella storia del Paisley Underground e non solo. Le sonorità garage, la psichedelia desertica, le aperture melodiche e l’organo quasi doorsiano di Cacavas creano uno dei dischi più rappresentativi della scena californiana indipendente dei primi anni ’80. “Blue Parade” è uno dei brani più belli di un disco memorabile. Poco tempo dopo l’ingresso del giovane chitarrista Chuck Prophet aprì nuove prospettive alla band con la sua tecnica sopraffina, che possiamo ascoltare nel successivo e altrettanto splendido Gas, Food And Lodging del 1985.
Per la sua creatura chiamata Giant Sand, Howe Gelb ha riunito intorno a se moltissimi musicisti negli oltre 30 anni di storia. La sua visione permeata dalla tipica visione psichedelica, ha via via acquistato diversi altri elementi tra cui il country e la musica di frontiera. Nel 1996 la sezione ritmica del gruppo formata da Joey Burns e John Convertino, ha voluto esplorare soprattutto quest’ultima parte formando i Calexico. I tre, pur intraprendendo strade diverse, sono rimasti sempre amici, e appena 12 mesi dopo eccoli insieme di nuovo a creare un trio che durerà lo spazio di un solo disco, gli OP8. La band si unisce ad un talento incredibile come Lisa Germano, straordinaria cantautrice e violinista che da poco aveva pubblicato il suo capolavoro: Geek The Girl, registrando un album davvero meraviglioso.
Slush rimarrà (purtroppo) figlio unico di un’alchimia sonora che si dimostra meravigliosamente ispirata, un disco che andrebbe riscoperto e riascoltato per assaporarne ogni dettaglio. All’interno ci sono un paio di covers: “Sand” di Nancy Sinatra e Lee Hazlewood e “Round and Round” di Neil Young, ma a fare la parte del leone sono i brani scritti da questa band durata una sola stagione, una perfetta miscela di folk, country, tex-mex, blues, rock e canzone d’autore come dimostra la limpida melodia di “It’s A Rainbow” scritta da Lisa Germano.
Quasi tutti ricorderanno un tormentone che arrivò in vetta alle classifiche nel 1987, la canzone era “Pump Out The Volume” e gli autori/esecutori erano nascosti dietro il nome M|A|R|R|S per un progetto voluto dal deus ex machina della 4AD, Ivo Watts-Russell. I M|A|R|R|S erano due polistrumentisti provenienti dalla zona est di Londra, Alex Ayuli e Rudi Tambala, insieme ad alcuni membri dei compagni di etichetta Colourbox. Ayuli e Tambala avevano scelto un nome diverso per il loro gruppo, A.R. Kane, ed il loro suono fu propedeutico per una certa rivoluzione in Gran Bretagna che solo anni più tardi trovò la sua definizione in post rock.
Laddove Kevin Shields e i suoi My Bloody Valentine trovavano la strada della catarsi e dell’estasi nei muri di chitarre creando densità sonora, i due londinesi la trovavano nell’equilibrio delle varie forze messe in campo: dub, strumentazione rock, elettronica, pop, minimalismo. 69 esce nel 1988, trovando consensi solo poco più avanti nel tempo, ma il limbo celestiale di “Sperm Whale Trip Over” non ha davvero tempo ne spazio.
In questo 2022 così scuro e confuso, un lampo di vera luce a rischiarare la via è stato senza dubbio il grande (e per certi versi inaspettato) ritorno dei Breathless di Dominic Appleton, Ari Neufeld e Gary Mundy dopo ben 10 anni di silenzio. Certo erano in pochi ad aspettarsi il ritorno della band inglese, soprattutto dopo il grave incidente occorso al batterista Tristram Latimer Sayer. Ma i tre “superstiti” non si sono persi d’animo, lavorando con una batteria elettronica che non ha minimamente scalfito le potenzialità emozionali ed immaginifiche del gruppo, quella capacità di essere un faro nella nebbia, un suono delicato ma non certo timido. Senza troppi giri di parole, See Those Colours Fly è un disco assolutamente magnifico.
Il quartetto ridotto forzatamente a trio ha assorbito un evento così traumatico traendone in qualche modo nuova linfa, conducendoci con la consueta maestria su sentieri emotivi fuori dal tempo. Nove nuove tracce malinconiche in questo maestoso crocevia tra post-punk, psichedelia, dream-pop e shoegaze. Un flusso sonoro struggente ed evocativo che rischiara l’oscurità di questi tempi inquieti con brani meravigliosi come la “We Should Go Driving” inserita in scaletta. In definitiva, See Those Colours Fly sarà un album che difficilmente resterà fuori dalla consueta playlist annuale.
Personaggio incredibile Jim O’Rourke, importantissimo come musicista nel cesellare alcune della pagine più memorabili del post rock anni ’90 con i Brise-Glace e (insieme a David Grubbs) con i Gastr Del Sol. Ma anche formidabile nel rilanciare e recuperare Faust, John Fahey, Sonic Youth e far risorgere i Wilco, producendo il disco della discordia Yankee Hotel Foxtrot e rendendolo imperituro. Dopo molti anni Jimbo nel 2015 lascia da parte le sue più recenti incisioni perennemente in bilico tra improvvisazione ed avanguardia per tornare, già dal titolo, ad incidere canzoni semplici.
Simple Songs in realtà è un disco semplice solo di nome, di fatto le otto tracce che compongono l’album semplici non lo sono affatto, anche se il fatto di essere estremamente orecchiabili potrebbe farlo pensare. Le canzoni incise con la collaborazione di tutti musicisti giapponesi negli ormai famosi Steamroom Studios di Tokyo dove O’Rourke risiede da tempo, sono state concepite come una sorta di micro-suites che stupiscono per l’ispirazione limpida, la meraviglia della costruzione degli incastri e la grande sensibilità e capacità di autore del chicagoano. Basti ascoltare le melodie della meravigliosa “All Your Love” che chiude il programma del disco.
Cosa dire di un personaggio come José Medeles. Musicista e autore nato a Portland, Oregon, dove la passione per il suo strumento principe lo ha portato ad aprire nel 2009 il Revival Drum Shop, un negozio dedicato alle batterie vintage e personalizzate. Attualmente dirige il 1939 Ensemble, un quartetto di batteria, vibrafono, tromba e chitarra. Medeles ha collaborato, dal vivo o in studio con una quantità enorme di artisti tra cui The Breeders, Kim Deal, Ben Harper, Joey Ramone, Modest Mouse, Mike Watt, Scout Nibblet, CJ Ramone e tanti altri. La passione per il folk-blues oscuro di un personaggio iconoclasta come John Fahey lo ha portato a Vancouver per registrare una sorta di tributo al modo di concepire la musica del misantropo chitarrista.
Railroad Cadences & Melancholic Anthems in realtà non è un disco di cover, non presenta al suo interno composizioni di Fahey, ma una serie di brani ispirati dalla sua musica ed interpretati da tre diversi chitarristi che si intrecciano con le soluzioni ritmiche di Medeles. Insieme al batterista suonano M. Ward, che da ai brani un taglio quasi cantautorale, la chitarrista sperimentale Marisa Anderson e Chris Funk (Decemberists, Stephen Malkmus). Il disco è straordinario, intenso e pervaso da quell’aura mistica tipica delle composizioni di Fahey, e Marisa Anderson si conferma come artista capace con pochi e sapienti tocchi delle sue sei corde, di visualizzare evocativi luoghi della mente e panorami minimalisti, con la sua capacità di rinvigorire la tradizione country-blues-folk. “Before & After” è un brano assolutamente straordinario tratto da un disco da non perdere se siete addentro alla materia folk-blues.
Raramente ho assistito ad un cordoglio così diffuso e così sentito per un’artista decisamente non mainstream. E’ stato davvero un brutto colpo quello della scomparsa della trombettista Jaimie Branch, non solo per la sua giovane età (39 anni) ma per il vuoto che lascia in una comunità jazz (e in generale di splendida umanità) che si è creata a Chicago e non solo intorno all’etichetta International Anthem. Il suo fraseggio così intenso, dovuto dalla sua esperienza su un’ampia gamma di progetti, non solo nel jazz ma anche in ambito post punk, noise, indie rock, musica elettronica e hip-hop ha colpito tantissimo, sia con il quo quartetto sia con gli Anteloper il duo creato insieme al batterista/beatmaker/producer Jason Nazary.
Non contenta del suo lavoro come compositrice e produttrice, la Branch aveva trovato il tempo di suonare come turnista per artisti del calibro di William Parker, Matana Roberts, TV On The Radio e Spoon. Insomma, un’artista completa che per il suo esordio solista, Fly Or Die, aveva voluto portare la sua visione jazz da Chicago a New York, facendosi accompagnare da musicisti del calibro della versatile violoncellista Tomeka Reid, del contrabassista Jason Ajemian e dello stellare batterista Chad Taylor. Il risultato sono 35 minuti di assoluta meraviglia, un suono forte e coraggioso, tradizionale ma alternativo. “Theme Nothing” è una delle meraviglie del disco, un ritmo ipnotico ed una melodia che rimane in testa, il tutto condito dalle stellari interpretazioni dei musicisti coinvolti. Jaimie Branch ci mancherà davvero moltissimo.
Chiudiamo il podcast con una delle più dotate e talentuose chitarriste in ambito jazz. Ormai la “firma” di Mary Halvorson è perfettamente riconoscibile, sia che esplori territori avant rock e pop sghembo con i People, sia che si diletti con il suo “classico” sestetto jazz composto da Patricia Brennan (vibrafono), Nick Dunston (basso), Tomas Fujiwara (batteria), Jacob Garchik (trombone), e Adam O’Farrill (tromba). Per il suo approdo all’etichetta Nonesuch, la chitarrista ha fatto uscire ben due album insieme intitolati Amaryllis e Belladonna. E se il primo vede la Halvorson sempre più ispirata leader del suo sestetto capace di creare magie insieme al Mivos String Quartet (Olivia De Prato e Maya Bennardo al violino, Victor Lowrie Tafoya alla viola, e Tyler J. Borden al violoncello), il secondo esce un po’ dai binari consueti con la Halvorson a duettare in solitaria con il quartetto di archi.
I due dischi, usciti come due CD separati, sono appena stati stampati dall’etichetta statunitense in un unico doppio vinile a rafforzare l’idea di due pubblicazioni separate alla nascita ma dalla stessa ispirazione. Lei è il fulcro della magia, ma è capace di lasciare il proscenio ad una straordinaria sezione ritmica o al suo modo straordinario di raddoppiare il trombone di Garchik per poi avvolgerlo e lasciarlo in tutto il suo splendore come nella straordinaria atmosfera di “Night Shift” che apre il disco ma chiude il podcast.
Un grazie speciale va, come sempre, a Franz Andreani per la sua passione, la gestione di questa banda di pazzi e per la splendida riorganizzazione del sito già attiva da qualche anno. A cambiare non è stata solo la versione grafica del sito, ma anche la “filosofia” della podradio, con le rubriche che vanno ad integrarsi nella programmazione regolare sotto l’hashtag #everydaypodcast. Sulla nostra pagina Facebook troverete quotidianamente ogni upload del sito e, ormai da tempo, è attivo anche lo splendido canale YouTube della Radio, una nuova formula senza interruzioni ne spot per ascoltare la vostra-nostra musica preferita. Iscrivetevi numerosi, vi aspettiamo!
Nel prossimo episodio di Sounds & Grooves, andremo a ricordare un grande come Anton Fier entrando nella caleidoscopica e pulsante attività musicale di NYC nei primi anni ’80 con Lounge Lizards ed il collettivo mutante Golden Palominos. Non contenti ascolteremo insieme il nuovo, deflagrante album degli Oneida e l’altrettanto esplosivo mondo sonoro dei Don Caballero. Ci sarà un excursus sulla psichedelia dei sixties con Mad River, Jefferson Airplane, The Small Faces e Quicksilver Messenger Service, il funk blues della rivoluzione afroamericana di Sly & The Family Stone, il folk mistico e oscuro di Judee Sill e Linda Perhacs, e il post punk tribale delle The Slits. E ancora: l’eclettismo sorprendente dei The Boo Radleys e le traiettorie sghembe dei Pit Er Pat. Il tutto, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
Intanto se volete potete sfruttare la parte riservata ai commenti qui sotto per darmi suggerimenti, criticare (perché no), o proporre nuove storie musicali. Mi farebbe estremamente piacere riuscire a coinvolgervi nella programmazione e nello sviluppo del mio sito web.
Se volete ascoltare o scaricare il podcast, potete farlo anche dal sito della PodRadio cliccando sulla barra qui sotto. Buon Ascolto
TRACKLIST
01. DEAD KENNEDYS: California Über Alles da ‘Fresh Fruit For Rotting Vegetables’ (1980 – Cherry Red)
02. PARTY DOZEN: The Worker da ‘The Real Work’ (2022 – Temporary Residence)
03. 3RA1N1AC: I Am A Cracked Machine da ‘Hissing Prigs In Static Couture’ (1996 – Touch And Go)
04. DER: Ready To Founce da ‘Supersound’ (2022 – Bisou)
05. THE FEELIES: Moscow Nights da ‘Crazy Rhythms’ (1980 – Stiff Records)
06. KAMIKAZE PALM TREE: The Hit da ‘Mint Chip’ (2022 – Drag City)
07. GREEN ON RED: Blue Parade da ‘Gravity Talks’ (1983 – Slash)
08. OP8 Featuring the Ilk of LISA GERMANO: It’s A Rainbow da ‘Slush’ (1997 – Thirsty Ear)
09. A.R. KANE: Spermwhale Trip Over da ‘69’ (1988 – Rough Trade)
10. BREATHLESS: We Should Go Driving da ‘See Those Colours Fly’ (2022 – Tenor Vossa Records)
11. JIM O’ROURKE: All Your Love da ‘Simple Songs’ (2015 – Drag City)
12. JOSE MEDELES: Before & After (with Marisa Anderson) da ‘Railroad Cadences & Melancholic Anthems’ (2022 – Jealous Butcher Records)
13. JAIMIE BRANCH: Theme Nothing da ‘Fly Or Die’ (2017 – International Anthem Recording Company)
14. MARY HALVORSON: Night Shift da ‘Amaryllis’ (2022 – Nonesuch)