Le avventure in musica di Sounds & Grooves continuano con il 10 Episodio per la 12 Stagione di RadioRock.to The Original
Andiamo ad esplorare la prima parte della mia personalissima Classifica del 2017
Speriamo che siano state di vostro gradimento tutte le novità messe in campo dalla 12° stagione di radiorock.to: dall’atteso restyling del sito, al nuovo hashtag #everydaypodcast che ci caratterizza, per finire (last but not least) alla qualità della musica e del parlato che speriamo sempre sia all’altezza della situazione e soprattutto delle vostre aspettative. La Radio Rock in FM come la intendiamo noi è sparita da due decenni, ma in questi 12 anni stiamo tenendo accesa una fiammella, cercando di raddoppiarla, moltiplicarla, farla diventare un faro di emozioni e qualità musicale con tutta la passione e la voglia di fare radio che nonostante tutto non ci è mai passata.
Il momento della tanto temuta Classifica del 2017 di Sounds & Grooves è finalmente arrivato. In questi due podcast (questo ed il prossimo) ho voluto semplicemente buttare giù, come appuntandoli su un taccuino, i 28 migliori album del 2017, quelli che ho ascoltato di più e che sono riusciti maggiormente a coinvolgermi tra quelli usciti in questi ultimi 12 mesi, e condividere con voi la mia interpretazione, il mio modo di sentire. Nonostante ci siano un milione di classifiche sparse nel web, sia quelle compilate dalla varie (più o meno trendy) music webzines e magazines, che quelle postate sui vari profili personali dei social networks, credo che da ognuna di queste ci sia sempre da qualcosa da imparare, uno o più nomi da annotarsi per approfondire con curiosità.
La cosa bella è che in questa ora e mezza troverete tanti generi diversi a passarsi il testimone. Ci sono certezze e conferme in ambito rock come Pontiak, Algiers, Dead Rider o Pissed Jeans. Ma c’è spazio anche per ritorni di gran classe come quelli di Randy Newman, Ryuichi Sakamoto o dei Pere Ubu. Verremo sballottati dal math rock degli Yowie alla psichedelia degli In Zaire, dal songwriting di Micah P.Hinson, Jim White ed Entrance all’afro jazz di Nicole Mitchell, passando anche per l’intrigante footwork di Jlin. Siete pronti?
Download, listen, enjoy!!!
Prima di partire con questo viaggio in musica potete effettuare il download del podcast anche nella versione a 320 kb/s semplicemente cliccando sul banner qui sotto.
Tra le accidentate e nebbiose salite delle Blue Ridge Mountains, in Virginia, i fratelli Carney stavolta hanno fatto trascorrere tre anni per pubblicare il nuovo album a nome Pontiak. Un inconsueta lunga pausa se pensiamo al loro usuale modo di lavorare. Ma non sono stati certo con le mani in mano, hanno infatti creato un birrificio artigianale nella loro fattoria, riuscendo a rivalutare il loro processo creativo proprio attraverso la produzione della birra. Le lezioni apprese da questa sperimentazione hanno avuto un effetto estremamente creativo sia sulle idee di base che sul suono che è più lisergico e meno arrembante. Con Dialectic of Ignorance (Leggi la recensione) che si posiziona al #28, Van, Lain e Jennings Carney hanno fatto l’ennesimo centro, completando così una discografia quasi perfetta che li consacra come miglior band di rock psichedelico del nuovo millennio, capace di standard qualitativi elevatissimi. A rappresentare l’album ho scelto “Tomorrow Is Forgetting”. Il brano è un classico mid-tempo della band, il cui potente andamento circolare viene evidenziato dall’uso dei synth in un crescendo esponenziale di enorme tensione e insistenza ritmica che culmina in un lungo assolo.
Saliamo di una posizione e cambiamo completamente atmosfera. Al #27 troviamo Nicole Mitchell è una nota flautista e compositrice, vincitrice del premio di miglior flautista dell’anno quattro anni di fila per la Jazz Journalists Association, presidente della Association for the Advancement of Creative Musicians (AACM) di Chicago, e fondatrice di diversi gruppi come Black Earth Ensemble e del Black Earth Strings. Il suo nuovo nuovo progetto multimediale si intitola Mandorla Awakening II: Emerging Worlds. Commissionato dal Museum of Contemporay Art di Chicago, è sia un romanzo che un disco. Basato nel 2099, quando la Società dell’Unione Mondiale è in decadenza, il racconto segue una coppia mentre naviga intorno a due civiltà contrastanti – una molto più utopica dell’altra. L’album è potente sia nel concept sia nell’esecuzione, evocativo e viscerale, tra jazz, avanguardia e afro-futurismo. “Dance Of Many Hands” è specchio fedele della creatività della Mitchell.
Lo yowie è una creatura leggendaria australiana, della cui esistenza non esistono prove, dalle sembianze umane ricoperto di pelo simile ad una grossa scimmia. Ma Yowie è anche il nome di una band creata a St.Louis nel 2000 che torna con il terzo album in studio intitolato Synchromysticism dopo cinque anni di silenzio. Un album che non fa fatica ad arrivare alla posizione #26. Il loro è un math rock codificato in maniera diversa dal solito con gli intrecci delle due chitarre di Jeremiah Wonsewitz e del nuovo Christopher Trull (ex Grand Ulena) con i complessi poliritmi del torrenziale batterista Shawn “Defenestrator” O’Connor. Se amate gli incastri perfetti di chitarra e una batteria che non sbaglia un colpo, se ricordate e ascoltate con passione gruppi come Blind Idiot God, Dazzling Killmen o Don Caballero, è un disco consigliatissimo che esce per un’ etichetta storica del genere come la Skin Graft in una splendida confezione completa di vinile colorato e poster. Sono solo 5 tracce, a partire dalla devastante “Ineffable Dolphin Communion”, ma in poco più di trenta minuti saranno capaci di conquistarvi.
Al #25 troviamo Micah P. Hinson, folksinger nato a Memphis ma texano d’adozione, è ormai da anni una delle voci più interessanti del songwriting americano. Le sue liriche autobiografiche, sarcastiche e profonde, si sposano perfettamente con la sua visione cinematica e il suo modo dolcemente violento di interpretare la tradizione americana. Micah si è sempre confermato anche live come grande intrattenitore, raccontando storie della sua vita personale e della grande periferia americana, quella dove il massimo della vita è andarsi a sbronzare al bar o trangugiare un six pack davanti alla tv.
Stavolta per il suo nuovo Micah P.Hinson presents The Holy Strangers, il songwriter ha voluto creare una «moderna opera folk» dove raccontare la storia di una famiglia in tempo di guerra, andando a scandagliare i vari momenti dei vari componenti, dalla nascita ai primi amori, passando per matrimoni, figli, conflitti, morte e suicidi. «Viviamo con loro e moriamo con loro» ha aggiunto in un comunicato stampa, «seguendone le decisioni, gli errori e le bellezze attraverso tutti gli strani e gloriosi luoghi in cui la vita ci porta». Una storia ambiziosa ma raccontata quasi come fosse una colonna sonora con splendidi affreschi sonori in gran parte strumentali, che ci fanno visualizzare perfettamente la storia tra ballate country e suggestioni folk, raccontati da Micah con la sua inconfondibile voce bassa ed emozionale. L’accoppiata iniziale “The Temptation / The Great Void” è da brividi.
Chi mi segue sa bene che il settore elettronica e altri ritmi non è propriamente il mio pane quotidiano. Ma il sentiero di sperimentazione e ricerca di Jerrilynn Patton aka Jlin è approdato sin dall’esordio Dark Energy (celebratissimo a tutto tondo da The Wire a Pitchfork) ad un’opera personale di superamento dei confini di quel genere nato a Chicago negli anni ’90 chiamato footwork. Il Black Origami che si posiziona al #24 è un disco di oscura bellezza, composto da un’anima in perenne ricerca, sonora, concettuale e visuale. Tra campionamenti originali ed un ritmo tribale capace di coinvolgere e stordire fino ad un lieve ma intenso flirt con un certo tipo di jazz, Jlin da prova di essere un’artista matura dotata di una fantasia e di un talento enorme. “Nyakinyua Rise” è perfetta nel suo tribalismo ricercato a rappresentare l’intero secondo lavoro dell’artista di Gary, Indiana.
Troviamo una vecchia conoscenza al #23. Ci mancava molto il sarcasmo, il talento di uno dei più grandi autori e musicisti americani. Randy Newman torna a far sentire la sua voce con un album regolare abbandonando per un attimo le colonne sonore che lo hanno portato a conquistare due Oscar per le colonne sonore di Monsters & Co. e Toys 3. Dark Matter ci fa ritrovare il caro vecchio amico che negli ultimi nove anni non ha perso lo smalto, il piacere di scrivere. Il ritorno di un vecchio amico, una musica senza tempo, che lascia quel piacevole gusto dolceamaro in bocca, una dedica al fratello, una al grande bluesman Sonny Boy Williamson, senza mai tralasciare il suo intelligente e proverbiale sarcasmo che lo ha portato a dedicare una canzone a Putin. Il vecchio leone ruggisce ancora, basti ascoltare la lunga e splendida “The Great Debate” che apre l’album.
Un piacere trovare una grande band italiana al #22. Nel 2013 Claudio Rocchetti, Stefano Pilia, Ricky Biondetti e Alessandro De Zan ci avevano piacevolmente sconvolto con un album fantastico uscito a nome In Zaire ed intitolato White Sun Black Sun prima di immergersi di nuovo nei loro mille progetti diversi. Rocchetti e Pilia hanno fatto parte degli indimenticati 3/4HadBeenEliminated per poi passare nel caso di Rocchetti principalmente alla carriera solista tra ambient e noise, mentre Pilia, da annoverare senza dubbio tra i migliori chitarristi italiani, fa parte della nuova formazione degli Afterhours, ha formato un trio con Andrea Belfi e il grande Mike Watt chiamato Il Sogno del Marinaio, ed è entrato in pianta stabile ad arricchire anche la formazione dei Massimo Volume. Non bastasse lo scorso anno ha pubblicato un album solista, Blind Sun New Century Christology, pubblicato dalla Sound of Cobra, etichetta fondata proprio dal batterista Ricky Biondetti.
Il nuovo Visions of the Age to Come è un altro disco enorme, che mostra un’evoluzione stilistica rispetto al disco precedente. Ci sono cose nuove, stili e generi diversi. La band si è avvicinata di più alla forma canzone senza per questo rinunciare alla loro grande voglia di sperimentare. La voce ha una sua parte importante anche se non centrale, e i quattro hanno un modo unico di presentare la loro personale forma di rock psichedelico mescolato al kraut-rock, al metal, alla musica nera africana e addirittura alla new wave come si può leggere talvolta tra le righe. Ascoltate “Revelations” e perdetevi tra le note di quella che è senza dubbio una delle migliori band italiane in senso assoluto.
David Thomas è il fondatore dei leggendari Pere Ubu, band di Cleveland cardine del post punk lacerato da incubi industriali. Ex Rockets From The Tombs e critico musicale sotto lo pseudonimo di Crocus Behemoth, Thomas è personaggio introverso, solitario al limite della paranoia. Le sue nevrosi urbane e pulsioni schizofreniche lo hanno portato ad essere un un profondo innovatore nello stile di canto, stridulo e disperato, con cui ha espresso il suo sentimento di alienazione. Parallelamente ai Pere Ubu, ha fondato nel 1994, il progetto David Thomas & Two Pale Boys, e ha riformato i RFTT. Ma non ha mai abbandonato la sua prima sigla e i Pere Ubu trovano il modo di stupire e di suonare ancora attuali con il nuovo 20 Years In A Montana Missile Silo, un disco che attualizza le nevrosi tipiche della band di Cleveland, e che si posiziona al #21. Il modo e la maniera di un uomo e di una band che a distanza di decenni non smettono mai di stupire. Lasciatevi travolgere dalla carica immutata della band ascoltando “Monkey Bizness”.
La lunga e affannosa ricerca di un’identità di songwriter capace di scrivere canzoni perfette da parte di Guy Blakeslee sembra davvero essere arrivata a compimento. La sua inquietudine lo ha portato ad incidere anche un paio di album con il suo vero nome, una sorta di sghembo indie rock cantautorale con il quale però non è mai riuscito ad incidere davvero e ad innalzarsi sopra ad una stiracchiata sufficienza. Cosa sia successo nel frattempo non lo sapremo mai. Se non tutto, molto sembra essere cambiato dopo un decennio durante il quale la sigla Entrance è rimasta ferma ai box. Nei poco più di 40 minuti del suo nuovo album Book Of Changes che si posiziona al #20 (leggi la recensione) c’è la vera rinascita di un artista che, inoltrandosi nella profondità dell’anima, riesce a dimostrare prima a se stesso e poi agli altri di essere un vero, grande songwriter. L’artista del Maryland snocciola un parlare d’amore scevro di banalità e di faciloneria. Un amore cantato con un ispirato vibrato su un tappeto di acustica psichedelia ai limiti del flamenco, i cui arrangiamenti ricordano da vicino i mai dimenticati Love di Arthur Lee. Difficile non lasciarsi incantare dalla forza espressiva e dal solenne lirismo di chi ha trovato una liberazione emotiva dopo aver subito cicatrici sul corpo e nel cuore. Liberazione che diventa catarsi nell’inno finale di “Revolution Eyes”, la cui coda strumentale vorremmo non finisse mai.
Al #19 c’è un disco arrivato alla fine dell’anno, ma che ha saputo colpirmi al cuore. Jim White incide dal 1997 canzoni estremamente classiche, peccatore folgorato sulla via di Damasco che rielabora in chiave moderna le sue radici country e hillbilly. Waffles Triangles and Jesus è composto da dodici canzoni scintillanti che sanno essere tanto tradizionali quanto moderne. Talvolta White si è divertito a creare questi ibridi di musiche antiche con testi moderni, e le sue storie di peccati e redenzioni, di dolori e di rinascite sono sempre in grado di coinvolgere e commuovere. “Silver Threads” per me è semplicemente una della canzoni più belle e trascinanti pubblicate nel corso del 2017.
Uno dei due chitarristi degli U.S. Maple (autori di 5 pregevoli album dal 1995 al 2003 e perfetta incarnazione di quel fenomeno che andava sotto il nome di now wave), Todd Rittmann, nel 2009 ha creato i Dead Rider, un nuovo progetto con cui portare a compimento la sua missione di scomporre e ricomporre vari generi musicali. Rittmann con i suoi nuovi compagni di avventura: Matthew Espy, batteria, Andrea Faugh, tromba e tastiere, e Thymme Jones, elettronica, tastiere, fiati e batteria aveva già convinto tre anni fa con un album intitolato Chills On Glass, che aveva incantato per il gioco degli incastri, e per l’abilità di Rittmann e compagni di creare un’equilibrata alchimia tra ingredienti apparentemente molto diversi.
A tre anni di distanza la band ci riprova, cambiando riferimenti stilistici ma facendo di nuovo centro. Con Crew Licks (Leggi la recensione) l’obiettivo del restauro diventa la black music, e il dipanarsi delle nove tracce diventa presto come il gioco della pentolaccia, con i quattro che mettono nella famosa pignatta di terracotta soul, funk, psichedelia anni ’70, e poi a turno la colpiscono con violente mazzate. Uno di quei dischi che per qualità e varietà stilistica (merce rara al giorno d’oggi) non mi stancherei mai di ascoltare. La “The Floating Dagger” che chiude la prima facciata, ha un trascinante ritmo alt-funk che i Red Hot Chili Peppers attuali possono sono sognarsi, con il sassofono di Noah Tabakin (ospite ricorrente di Rittmann e soci) che si muove suadente come un serpente a sonagli pronto ad attaccare ad ogni stacco di batteria prima che un finale rumorista spappoli il tutto in una coltre sintetica. Per me, #18.
Gli ultimi anni non sono stati affatto facili per Ryuichi Sakamoto. Prima il terremoto e lo tsunami che hanno colpito il Giappone nel 2011 provocando più di 15.000 morti e 5.000 dispersi, poi, tre anni dopo, la diagnosi di un tumore alla faringe che lo tiene per qualche tempo fuori dal mondo musicale. La remissione del brutto male lo ha fatto tornare in pista insieme ad Alva Noto per la colonna sonora di The Revenant. Async, che si posiziona al #17, è il primo album in studio pubblicato dall’artista giapponese da otto anni a questa parte, dove il pioniere della fusione tra la musica etnica orientale e le sonorità elettroniche occidentali disegna uno scenario meraviglioso di grande serenità, tra pianoforte, droni, archi e field recordings. Uno dei suoi album più evocativi e belli di sempre. In “Life, Life” c’è anche lo splendido spoken word di David Sylvian.
Due anni fa aveva particolarmente colpito l’album di esordio degli Algiers, un trio formato ad Atlanta, Georgia dal cantante Franklin James Fisher, insieme al chitarrista Lee Tesche e al bassista Ryan Mahan. In realtà i tre si dividevano diversi altri strumenti infilando nelle 11 tracce del disco una serie di suoni estremamente interessanti tra battiti di mani e chitarre sferzanti, tra ritmi industrial ipnotici e scuri arricchiti da un incedere vocale gospel e un impianto new wave. L’atteso seguito intitolato The Underside Of Power che troviamo al #16, fortunatamente ha confermato tutto quello che di buono si era detto della band. Il suono è diventato ancora più poderoso grazie all’inserimento in pianta stabile del batterista Matt Tong, ex Bloc Party. Difficile scegliere un brano tra i tanti dove si può davvero toccare con mano l’incredibile manifesto rabbioso, potente e impegnato della band. La voce soul dello splendido Fisher sa essere allo stesso tempo per l’ennesima volta tanto dirompente quanto emozionale, come dimostra la title track.
Chiudiamo il podcast con il #15 della mia personalissima classifica. Era in qualche modo atteso il ritorno delle eterne promesse dell’hardcore/noise Pissed Jeans. Il loro quinto disco intitolato Why Love Now li consacra ai livelli più alti. L’album, co-prodotto dalla regina della no wave Lydia Lunch, è una continua e mastodontica esplosione: dodici tracce che mostrano una rabbia controllata a stento e convogliata nei giusti binari dalla voce di un sempre più convincente Matt Korvette. Tanti i momenti immediati e coinvolgenti di un disco (e di un gruppo) che stupisce una volta di più per potenza muscolare, autoironia e scrittura raffinata. Tra l’altro in alcuni brani c’è da segnalare anche la presenza della voce narrante della scrittrice Lindsay Hunter. “The Bar Is Low” è una delle mie canzoni preferite in assoluto di questo splendido disco.
Spero abbiate gradito l’atteso restyling del sito, per questo e molto altro, un grazie speciale va sempre a Franz Andreani. A cambiare non è solo la veste grafica, ma anche la “filosofia” della podradio, con le rubriche che vanno ad integrarsi nella programmazione regolare sotto l’hashtag #everydaypodcast. Tutte le novità le trovate sempre aggiornate in tempo reale sulla nostra pagina Facebook.
Nel prossimo episodio di Sounds & Grooves ci sarà la seconda ed ultima parte della mia personalissima Playlist di fine anno, con le posizioni dal #14 al #1.
Intanto se volete potete sfruttare la parte riservata ai commenti qui sotto per darmi suggerimenti, criticare (perché no), o proporre nuove storie musicali. Mi farebbe estremamente piacere riuscire a coinvolgervi nella programmazione e nello sviluppo del mio sito web.
Se volete ascoltare o scaricare il podcast, potete farlo anche dal sito della stessa PodRadio cliccando sulla barra qui sotto. Buon Ascolto
TRACKLIST
01. PONTIAK: Tomorrow Is Forgetting da ‘Dialectic Of Ignorance’ (Thrill Jockey – 2017)
02. NICOLE MITCHELL: Dance Of Many Hands da ‘Mandorla Awakening II: Emerging Worlds’ (FPE Records – 2017)
03. YOWIE: Ineffable Dolphin Communion da ‘Synchromysticism’ (Skin Graft – 2017)
04. MICAH P. HINSON: The Temptation / The Great Void da ‘Presents The Holy Strangers’ (Full Time Hobby – 2017)
05. JLIN: Nyakinyua Rise da ‘Black Origami’ (Planet Mu – 2017)
06. RANDY NEWMAN: The Great Debate da ‘Dark Matter’ (Nonesuch – 2017)
07. IN ZAIRE: Revelations da ‘Visions Of The Age To Come’ (Sound Of Cobra – 2017)
08. PERE UBU: Monkey Bizness da ‘20 Years In A Montana Missile Silo’ (Cherry Red – 2017)
09. ENTRANCE: Revolution Eyes da ‘Book Of Changes’ (Thrill Jockey – 2017)
10. JIM WHITE: Silver Threads da ‘Waffles, Triangles & Jesus’ (Loose – 2017)
11. DEAD RIDER: The Floating Dagger da ‘Crew Licks’ (Drag City – 2017)
12. RYUICHI SAKAMOTO: Life, Life da ‘async’ (Milan – 2017)
13. ALGIERS: The Underside Of Power da ‘The Underside Of Power’ (Matador – 2017)
14. PISSED JEANS: The Bar Is Low da ‘Why Love Now’ (Sub Pop – 2017)