Le avventure in musica di Sounds & Grooves continuano nella 16° Stagione di RadioRock.TO The Original
In questo episodio di Sounds & Grooves troverete un giusto mix tra novità e ripescaggi dal passato
Sounds & Grooves è un appuntamento quindicinale che (spero) impreziosisce lo straordinario palinsesto di www.radiorock.to da ben 16 stagioni. A pensarci è pazzesco che sia passato già così tanto tempo da quando abbiamo iniziato questa folle ma fantastica avventura. Siamo una podradio nata per dare un segnale di continuità con il passato, con quella meraviglia che Franz Andreani, Marco Artico, Flavia Cardinali, Massimo Di Roma, Michele Luches, Aldo Semenuk, Giampiero Crisanti, Gianpaolo Castaldo avevano creato e a cui, nel mio piccolo, ho provato a dare un contributo dal 1991 al 2000. Sappiamo tutti benissimo che la Radio Rock in FM come la intendevamo noi è sparita da almeno due decenni, ma in tutti questi anni di podcast sul web abbiamo cercato di tenere accesa quella fiammella per poi tentare di moltiplicarla, facendola diventare un faro di emozioni e qualità musicale. Perché la passione e la voglia di fare radio, la voglia di ascoltare e di condividere la musica di qualità, nonostante tutto, non ci è mai passata. Questa creatura dopo 3 lustri continua orgogliosamente a remare controcorrente, cercando quella libertà in musica che nell’etere è ormai diventata una mosca bianca, ed esprimendo la passione per la condivisione, per la ricerca, per l’approfondimento. Non dobbiamo aderire ad una cieca linea editoriale che ormai spinge esclusivamente il pulsante play dei servizi di streaming, ma ci lasciamo guidare semplicemente dal nostro cuore e dalla nostra passione. Fulvio Savagnone, Marco Artico, Giampiero Crisanti, Franz Andreani, Flavia Cardinali, Francesco Cauli, Ivan Di Maro, Fabio De Seta, Massimo Santori, Maurizio Nagni, Angie Rollino ed io proveremo a coinvolgervi con i nostri podcast regolari e con le rubriche tematiche di approfondimento, sperando di farvi sentire sempre di più parte di questa fantastica avventura.
La musica ha spesso il potere terapeutico di guarire le anime, lenire in qualche modo il dolore e le storture dei nostri tempi come una pozione magica, un incantesimo primordiale, facendoci fare viaggi immaginari di enorme suggestione emotiva, ed è questo il percorso che Sounds & Grooves vuole seguire.
Nel decimo viaggio della nuova stagione, andiamo ad esplorare la sarcastica forza bruta degli Art Brut, il punk-hop sempre in prima linea degli Sleaford Mods, l’esordio coinvolgente dei britannici Yard Act, il caleidoscopio sonoro di due eccellenze del post rock britannico: Laika e Pram, i Gang Of Four con una delle pietre miliari del post punk e le traiettorie lisergiche degli scandinavi Moon Relay e di un grande della 6 corde come Chris Forsyth. E ancora, l’eclettismo sorprendente dei Tropical Fuck Storm, le atmosfere cupe degli Årabrot, il songwriting elegante, pieno ed emozionante di Bill Callahan e Sufjan Stevens, il percorso intrigante di Neneh Cherry e le suggestioni sonore di Eva Pfitzenmaier aka By The Waterhole. Il tutto, come da 15 anni a questa parte, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
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Iniziamo il podcast con un gruppo che è passato poche volte da queste parti. Eddie Argos, cantante e fumettista di belle speranze, arriva a Londra nel 2001 per metter su una band e l’anno seguente durante un party organizzato dalla indie rock band Ciccone, incontra il chitarrista Chris Chinchilla trovando un perfetto partner in crime. Ai due si aggiungono presto l’altro chitarrista Ian Catskilkin, che insieme ad Argos aveva condiviso in passato la scena musicale di Bournemouth, il bassista Freddy Feedback, coinquilino di Chinchilla ed il batterista Mike Breyer. Ispirato da una visita al parigino Musée d’Art Naïf – Max Fourny, Argos battezzò la neonata band come Art Brut.
Dopo qualche problema con le case discografiche (primo singolo per la Rough Trade, primo album con la Fierce Panda e secondo per la Mute) e l’abbandono per stress da tour intensivo del co-fondatore Chris Chinchilla (sostituito da Jasper Future), la band approda alla Cooking Vinyl per il terzo lavoro intitolato Art Brut vs. Satan. L’album, prodotto da un’istituzione come Frank Black, mostra la solita freschezza ed entusiasmo, con la voce di Argos a declamare ansiogeno versi ironici e talvolta legati alla sua passione per i fumetti come nella saltellante e travolgente “DC Comics and Chocolate Milkshake” inserita in scaletta. La band è tuttora in attività anche se ha sposato la propria sede sociale a Berlino dove Argos vive con la sua famiglia.
Per voi malcapitati che seguite i miei podcast su Radio Rock The Original non sarà affatto una sorpresa la mia predilezione per gli Sleaford Mods. Sulla loro forza rabbiosa mi sono espresso più di una volta. Da qualche anno il duo punk-hop di Nottingham formato da Jason Williamson e Andrew Fearn ha firmato per la storica etichetta britannica Rough Trade senza perdere un grammo della loro ferocia sociale. Dal vivo poi sono assolutamente divertenti, più Williamson si danna, sbraita, inveisce, si avvita su se stesso, urla con il suo accento improponibile del nord dell’inghilterra, più il suo compare se la sghignazza bevendo birra e semplicemente facendo partire e stoppando le sue basi sul laptop.
Lo scorso anno è uscito Spare Ribs, il loro undicesimo album in studio, profondamente ispirato dalla questione pandemica e, come sempre, dalla situazione politica britannica che fornisce sempre a Williamson spunti intriganti per i suoi testi. La loro formula è ormai facilmente identificabile, ma la semplicità con cui i due la fanno evolvere rimanendo fedeli a loro stessi è meravigliosamente spaventosa. In “Shortcummings” i due si scagliano contro uno dei grandi sostenitori della Brexit come Dominic Cummings, mentre la novità è che Amy Taylor degli Amyl and the Sniffers e Billy Nomates sono ospiti più che gradite in due delle tracce più accattivanti del disco. La scelta sul brano da inserire è caduta su “Elocution” che, come dice lo stesso Williamson, “Parla del rifiuto dei network, del non voler far parte delle linee comunicative dell’industria, di non essere sempre disponibile per un’intervista, di non assomigliare a chi non fa altro che conformarsi alle regole.” Pur non essendolo nel suono, nessun gruppo incarna meglio di loro la vera essenza del punk, e sono in pochi a poter vantare livelli così qualitativamente alti al giorno d’oggi.
Ultimamente il termine post-punk è stato usato un po’ a casaccio, calderone dai confini labili in cui è stato infilato un po’ di tutto, dagli Squid agli Idles. Nel caso degli Yard Act da Leeds capitanati da James Smith, viene facile accomunarli ai Gang Of Four per origini geografiche e ai The Fall per omonimia di cognome. in realtà non si manca di molto il bersaglio, visto che c’è una certa analogia tra James e Mark E. (facendo i debiti distinguo) nel declamare versi cinici, spigolosi e sarcastici a punzecchiare la classe politica britannica, e per quanto riguarda le chitarre taglienti non così lontane da uno dei gruppi più importanti della “vera” scena post-punk a cavallo tra i 70 e gli 80.
The Overload era un album molto atteso in UK e non solo, visto il notevole riscontro avuto da critica e pubblico dell’EP di debutto intitolato Dark Days che aveva fatto drizzare le antenne alla Island, pronta a metterli sotto contratto. L’esordio sulla lunga distanza dei giovanissimi inglesi colpisce nel segno di un punk declamato con ritmi talvolta funkeggianti, a volte pop ma con modalità eclettiche ed intelligenti, con la verbosità torrenziale di Smith a dominare il proscenio. “Tall Poppies” è il brano più lungo ed intrigante di un album centrato e molto interessante, dove i quattro ragazzi di Bristol mostrano una notevole personalità.
Due anni fa ci ha lasciato Andy Gill, chitarrista e fondatore della band più politicizzata e tra le più importanti della scena post-punk britannica. Nato a Manchester nel 1956, aveva fondato i Gang Of Four a Leeds, dove si era trasferito con la famiglia, insieme ad altri tre studenti universitari: Jon King (voce), Dave Allen (basso) e Hugo Burnham (batteria). I quattro seppero dare subito una precisa identità e direzione al loro lavoro, scegliendo un nome abbastanza provocatorio per l’epoca. Gang Of Four infatti era il soprannome dispregiativo affibbiato ai leader del gruppo rivoluzionario culturale cinese che rimase alla guida del paese fino a poco dopo la morte di Mao, avvenuta nel settembre 1976, quando il nuovo premier cinese decise di arrestarli.
I componenti del gruppo sono stati un vero prodotto della cultura universitaria di sinistra diventando presto il cardine della scena di Leeds, affiancata da compagni di strada come Au Pairs e Mekons, tutti dotati di una forte coscienza politica. La band aveva deciso, pur essendo teoricamente rivoluzionaria, di avere la maggior visibilità possibile all’esordio, e tra le tante etichette interessate, decise di accasarsi presso la EMI, major che aveva grande distribuzione e identità politica neutra. Neutra sicuramente non era la copertina del loro memorabile album di esordio, pubblicato nel 1979. L’artwork di Entertainment!, ideato e disegnato dal cantante Jon King e dallo stesso Gill mostra in tre sequenze la stretta di mano tra un cowboy e un nativo americano. E mentre il primo pensa con il sorriso sulle labbra quanto con quel gesto abbia costretto il pellerossa ad un becero sfruttamento, il secondo non immagina nemmeno quello che succederà successivamente. L’aperta accusa verso ogni tipo di colonialismo e sfruttamento trova il suo contraltare musicale tra i solchi dell’album. Basti ascoltare un brano come il primo folgorante singolo “Damaged Goods”: il suono potente del basso, e quello volutamente scarno e abrasivo della chitarra. Una produzione in studio, che voleva evitare il riverbero e la potenza del loro live-act per privilegiare una sensazione di abrasività secca. Uno dei dischi essenziali della storia del post-punk.
Avevamo già avuto a che fare con l’australiano Gareth Liddiard, che, con i suoi The Drones, aveva deliziato i nostri padiglioni auricolari con la giusta miscela di psichedelia, folk e blues deviato. Il cantante-chitarrista di Melbourne, insieme alla sodale Fiona Kitschin, abbandona la vecchia ragione sociale, prende a bordo la batterista Lauren Hammel e la polistrumentista Erica Dunn e crea una nuova entità chiamata Tropical Fuck Storm. La nuova creatura si muove subito senza impacci, partendo dal DNA della band precedente e arricchendolo di imprevedibili soluzioni sonore di follia visionaria, coerenti con la personalità del suo leader.
Dopo l’acerbo ma notevole esordio di A Laughing Death In Meatspace, i quattro nel 2019 pubblicano il secondo Braindrops mostrando già dalla copertina la schizofrenica e lucida follia che troveremo all’interno delle nove tracce di cui è composto l’album. 48 minuti in cui veniamo frullati in un calderone tra psichedelia, lampi rabbiosi, momenti di stasi, echi Talking Heads come dimostra già la “Paradise” che apre il programma. Un’energia tanto viscerale e trascinante quanto lucida e programmatica che fortunatamente i quattro confermano anche nel successivo Deep States uscito lo scorso anno.
Gli Årabrot sono una noise-rock band fondata nel 2001 a Haugesund in Norvegia da Kjetil Nernes, chitarrista, cantante e autore di quasi tutte le musiche e i testi. E se l’impatto della band non è stato mai esclusivamente muscolare ma teso anche a coinvolgere emotivamente l’ascoltatore. Il loro settimo album in studio si intitola The Gospel ed è uscito nel 2016. La genesi dell’album è stata alquanto complicata per il leader della band, reduce da un complicato intervento chirurgico atto ad asportare un tumore maligno alla gola. Ma a conti fatti il disco rimane uno dei più sentiti, ispirati e coinvolgenti mai incisi dai norvegesi.
Notevole poi il “cast” messo in piedi da Nernes. Dalla produzione di Steve Albini nei suoi Electrical Studios alle collaborazioni di Ted Parsons (ex Swans ora nei Prong), Stephen O’Malley dei Sunn O))) e Andrew Liles (Current 93 e Nurse With Wound). Il suono è meno intransigente e disturbante del solito, più raffinato e con un’epicità di fondo che conquista. Per il podcast ho scelto l’incedere marziale di “Tall Man” a rappresentare forse l’album più variegato e riuscito della formazione norvegese.
Ho parlato in passato più di una volta su queste pagine di un’etichetta norvegese chiamata Hubro. Una grafica riconoscibile e molti progetti interessanti che sanno spaziare dall’avant-jazz all’elettroacustica. I Moon Relay vengono da Oslo e sono composti da Daniel Meyer Grønvold (chitarra, basso, percussioni, piano, synth, nastri), Håvard Volden (chitarra, basso, synth, nastri), Ola Høyer (basso) e dal nuovo batterista Christian Næss, arrivato per completare le sessions del loro terzo album in studio intitolato IMI.
La band mette in campo molte influenze: dalla ritmica profondamente krautrock, ad un’attitudine tra psichedelia e jazz, prendendo a piene mani anche da alcune band post-punk e no wave degli anni ’80. Il risultato è un disco ipnotico fin dalla copertina (e dai titoli delle tracce, come la “[^] II” che trovate in questo podcast). Un collage irresistibile ascoltando il quale è impossibile tenere le gambe ferme: riffs ripetitivi, un groove intenso, un intricato motorik ritmico che tiene sempre vivo l’ascolto. Probabilmente se avessero un cantante sarebbero ancora più interessanti. Una splendida conferma.
Chris Forsyth, il chitarrista dei fantasiosi Peeesseye (un trio di pazzi furibondi che amavano celebrare arditi baccanali dedicati all’improvvisazione e all’avant-rock), dopo lo scioglimento della band ha intrapreso un percorso estetico diametralmente opposto. Nel 2011 pubblica il suo terzo lavoro solista, primo per l’etichetta Family Vineyard intitolato Paranoid Cat. Nel disco Forsyth rinuncia alle atmosfere spoglie del disco precedente andando a fare un notevole salto di qualità e andando ad esplorare nella lunga suite che copre l’intera prima facciata, le radici folk primitive di John Fahey, il lavoro di Richard Lloyd con i Television, e persino omaggiando un grande del blues come John Lee Hooker.
Il disco vede Forsyth riunire in studio grandi musicisti come il batterista Mike Pride, il bassista Peter Kerlin, il pianista Hans Chew (membro di D. Charles Speer & Helix), il suonatore di pedal steel Marc Orleans (Sunburned, D. Charles Speer, ecc.), Koen Holtkamp (dei Mountains) ai sintetizzatori, il trombettista Nate Wooley e molti altri. Un paio di anni più tardi l’album Solar Motel sarà stata la scintilla che gli ha fatto venire l’idea di creare una vera band, chiamata proprio The Solar Motel Band, con cui poter definitivamente accantonare le asprezze del suo precedente progetto e approdare ad un suono che bilancia l’amore per il suono chitarristico trascendente degli anni ’70 con la sperimentazione dei giorni nostri.
Ho già parlato (più di una volta…lo so) della via britannica al post rock e al suono dei gruppi della Too Pure presentando i Moonshake. La band formata da David Callahan e Margaret Fiedler aveva trovato un perfetto equilibrio pur nella diversità dell’approccio alla materia sonora, la Fiedler più propensa a creare brani eterei e di atmosfera, Callahan a preferire un tessuto urbano più duro e spigoloso. Erano due facce della stessa medaglia, l’amore per le stesse bands (Can, My Bloody Valentine, PIL, Kraftwerk) espresso in maniera completamente differente. Un incontro esplosivo, una collisione tanto inevitabile quanto evocativa. Ma dopo l’uscita di Eva Luna questo equilibrio si spezza: Callahan rimane con i Moonshake mentre la Fiedler insieme al bassista John Frenett e al produttore Guy Fixen, da vita ai Laika, band che continuerà sul binario intrapreso dai Moonshake accentuando esclusivamente la vena melodica e la percussività psichedelica.
Così l’album di esordio Silver Apples Of The Moon viene registrato senza chitarre (come orgogliosamente rivendica anche il secondo album dei Moonshake uscito quasi contemporaneamente), ma mentre la band di Callahan si infila in un suono scuro e torbido, i Laika scelgono un approccio diverso portandoci in una sorta di poliritmica foresta tropicale disegnata con colori pastello, condotti da un insistente e fluido basso dub come dimostra la splendida “44 Robbers”.
ra le bands di punta della scuderia Too Pure vanno assolutamente riscoperti i Pram. Originari di Birmingham, erano formati dalla cantante Rosie Cuckston, il bassista Sam Owen, il batterista Andy Weir e Max Simpson alle tastiere e campionamenti. Le loro influenze sono diverse, e spesso anche difficili da scoprire. La base di partenza è un certo tipo di jazz, con i fiati a fare da contrappunto alla sezione ritmica, ma possiamo trovare anche new wave, disturbi etnici e un certo tipo di minimalismo. Helium è il loro secondo album in studio uscito per la Too Pure, e vede la band andare a briglie sciolte con la fantasia tra rock e jazz, avanguardia e trip-hop con brani elaborati e sofisticati, come “Little Angel, Little Monkey”.
La chitarra (già poco presente) sparisce quasi del tutto, lasciando l’asse tastiere/ritmica a menare le danze. Dopo un ulteriore splendido lavoro per la Too Pure (Sargasso Sea) la band si muoverà su binari più semplici e consueti prima di sciogliersi. Dopo dieci anni di silenzio, la band è tornata nel 2018 on uno splendido album intitolato Across The Meridian.
Ho sempre amato le canzoni in bassa fedeltà, pervase da un ambientazione decadente, da una malinconia che non raramente viene attraversata da un pungente sarcasmo. Lui si nascondeva sotto il moniker di Smog, ma dal 2007, dopo aver rilasciato diversi album notevoli tra cui il capolavoro Julius Caesar, ha deciso di firmarsi semplicemente con il suo vero nome, Bill Callahan. Esponente di punta di un certo tipo di cantautorato lo-fi insieme a Will Oldham o al compiano Jason Molina, Callahan ha sempre continuato a sfornare album mai meno che eccellenti.
A sei anni di distanza dallo splendido Dream River, Callahan è tornato nel 2019 con un nuovo album. Shepherd in a Sheepskin Vest è stato pubblicato (come i precedenti) dalla benemerita Drag City ed è composto da ben 20 canzoni. L’album mostra una rilassatezza ed una profondità nuova, dovuta al matrimonio e alla recente paternità. Le sue composizioni sono semplici ma mai banali, suonate in punta di dita, sussurrate, attraversate da anni di folk, country, da storie di vita vissuta da raccontare con intelligente sarcasmo. Sornione come sempre, questa condizione familiare non inficia certo la sua capacità di racconto, e Callahan canta e suona (superbamente) con la consapevolezza dello stregone che sa come ammaliare chiunque lo ascolti, come dimostra la splendida “Black Dog On The Beach”.
Davo ormai per perso artisticamente un dotato autore come Sufjan Stevens, fino a quando non è arrivato nel 2015 Carrie & Lowell (recensione). Una copertina con una foto rovinata dal tempo, due nomi che campeggiano, riferiti alla coppia della foto. Non due personaggi immaginari, bensì persone vere, reali. Lowell è Lowell Brams, patrigno di Stevens e co-fondatore con lo stesso figliastro dell’etichetta indipendente Asthmatic Kitty; mentre Carrie è la madre dello stesso Stevens. Carrie, che soffriva di disturbi bipolari e faceva abuso di droghe, ha abbandonato Sufjan quando era ancora un bimbo, un distacco che ha segnato profondamente il songwriter di Detroit.
Un destino crudele sotto forma di male incurabile ha portato via Carrie proprio quando le ferite di quel distacco si stavano finalmente cicatrizzando, e questo dolore ha portato Stevens ad abbandonare le sue precedenti trovate, spesso fin troppo elaborate, rifugiandosi in una visione che mai è stata così scarna, dolente, sussurrata e confidenziale, e allo stesso tempo così completa e matura. Una confessione. 11 fotografie registrate a bassa fedeltà in un afflato di ricordi, rimorsi, pentimenti e gioie. 11 canzoni che abbandonano completamente gli arrangiamenti fastosi del passato per emergere in tutta la loro semplice nudità.
Stavolta Stevens, mettendosi a nudo, riesce a coinvolgere empaticamente l’ascoltatore raccontando la sua vita, pizzicando le corde della sua chitarra e del suo cuore. Dopo aver inserito nello scorso podcast la bellezza di “Should Have Known Better”, stavolta non ho saputo resistere al commovente racconto dell’ultimo dialogo in un letto di ospedale di “Fourth Of July”. Un disco solitario ed intimo, colmo allo stesso tempo di fede e di scetticismo, fino alla resurrezione della fiducia e dei sogni. Un disco da riscoprire ogni volta per la sua umanità, emotività e per la sua accecante bellezza.
Di una straordinaria artista come Neneh Cherry abbiamo parlato in molte altre occasioni, anche quando giovanissima militava nei Rip Rig & Panic, band del marito Bruce Smith, cui prestava spesso e volentieri la sua splendida voce. Nata come Neneh Mariann Karlsson ha utilizzato il cognome del padre adottivo, il celebre trombettista jazz Don Cherry. Dopo l’esperienza con la celebre band, Neneh Cherry prova con successo l’avventura solista negli anni ’90 con due buoni lavori come Homebrew e Man. raggiungendo il successo nel 1994 con “7 Seconds”, duetto con il senegalese Youssou N’Dour.
Ancora un decennio di silenzio prima di formare una nuova band chiamata CirKus con Burt Ford (soprannome dell’attuale marito Cameron McVey). Molte collaborazioni, prima di tornare ad incidere insieme al gruppo avant-jazz The Thing un album di cover intitolato The Cherry Thing, in cui esplorava avidamente le sue radici. Il suo primo album solista dopo 18 anni è uscito nel 2014 e si intitola Blank Project, realizzato con la complicità di un genio dell’elettronica come l’inglese Kieran Hebden aka Four Tet. Un disco dove le atmosfere e i ritmi tribali si sposano perfettamente con la splendida voce di Neneh Cherry come dimostra la “Naked” inserita nel podcast.
Chiudiamo il podcast con quella che per me era stata una delle più belle sorprese ddel 2016: l’esordio della tedesca trapiantata in Norvegia Eva Pfitzenmaier. Ben nascosta dietro al moniker di By The Waterhole ha dato alle stampe il suo secondo lavoro intitolato semplicemente Two che esprime perfettamente il talento di questa cantante, musicista, poetessa e pittrice che, lavorando con percussioni e loop, è capace di creare un microcosmo di grande fascino usando la sua straordinaria voce tra elettronica, pop, afrobeat. Con campioni simili a stomp-box, percussioni sferraglianti, suoni di synth e pianoforte accuratamente selezionati a mano, Eva – originaria della Foresta Nera tedesca – ci invita nel suo mondo scricchiolante ed eclettico, dove un paralume diventa una grancassa e il suono della danza improvvisata e dei coni scoppiettanti creano uno sfondo giocoso.
Aiutata dall’amico Stephan Meidell (metà degli Strings & Timpani, band del prezioso roster dell’etichetta Hubro di cui abbiamo parlato in relazione ai Moon Relay), l’artista riesce ad incantarci costruendo un disco fuori dagli schemi ed estremamente originale. Ascoltate per credere la splendida chiusura di “The End Of It All”, sperando che Eva possa tornare a farci ascoltare qualcosa di nuovo dopo 6 anni di silenzio.
Un grazie speciale va, come sempre, a Franz Andreani per la sua passione, la gestione di questa banda di pazzi e per la splendida riorganizzazione del sito già attiva da qualche anno. A cambiare non è stata solo la versione grafica del sito, ma anche la “filosofia” della podradio, con le rubriche che vanno ad integrarsi nella programmazione regolare sotto l’hashtag #everydaypodcast. Sulla nostra pagina Facebook troverete quotidianamente ogni upload del sito e, ormai da tempo, è attivo anche lo splendido canale YouTube della Radio, una nuova formula senza interruzioni ne spot per ascoltare la vostra-nostra musica preferita. Iscrivetevi numerosi, vi aspettiamo!
Nel prossimo episodio di Sounds & Grooves, andremo ad esplorare gli abissi oscuri del collettivo Gnod, le traiettorie orgogliosamente anarchiche degli Oneida, il ritrovato vigore art-punk dei The Membranes, le melodie senza tempo di Felt, Love e The Byrds, la coerenza e la carica degli irlandesi That Petrol Emotion, il sarcasmo di Mark E.Smith e dei suoi The Fall. E ancora, il songwriting elegante di Ray LaMontagne, quello sofferto di Vic Chesnutt, la redenzione di Jim White e il ripescaggio dell’emozionale Damien Rice. Per concludere ci saranno le atmosfere noir di Circuit Des Yeux e la sensibilità jazz-folk di Eric Chenaux. Il tutto, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
Intanto se volete potete sfruttare la parte riservata ai commenti qui sotto per darmi suggerimenti, criticare (perché no), o proporre nuove storie musicali. Mi farebbe estremamente piacere riuscire a coinvolgervi nella programmazione e nello sviluppo del mio sito web.
Se volete ascoltare o scaricare il podcast, potete farlo anche dal sito della PodRadio cliccando sulla barra qui sotto. Buon Ascolto
TRACKLIST
01. ART BRUT: DC Comics And Chocolate Milkshake da ‘Art Brut Vs. Satan’ (2009 – Cooking Vinyl)
02. SLEAFORD MODS: Elocution da ‘Spare Ribs’ (2021 – Rough Trade)
03. YARD ACT: Tall Poppies da ‘The Overload’ (2022 – ZEN F.C. / Island Records)
04. GANG OF FOUR: Damaged Goods da ‘Entertainment!’ (1979 – EMI)
05. TROPICAL FUCK STORM: Paradise da ‘Braindrops’ (2019 – Joyful Noise Recordings)
06. ÅRABROT: Tall Men da ‘The Gospel’ (2016 – Fysisk Format)
07. MOON RELAY: (^)II da ‘IMI’ (2018 – Hubro)
08. CHRIS FORSYTH: Paranoid Cat, Part II da ‘Paranoid Cat’ (2011 – Family Vineyard)
09. LAIKA: 44 Robbers da ‘Silver Apples Of The Moon’ (1994 – Too Pure)
10. PRAM: Little Angel, Little Monkey da ‘Helium’ (1994 – Too Pure)
11. BILL CALLAHAN: Black Dog On The Beach da ‘Shepherd In A Sheepskin Vest’ (2019 – Drag City)
12. SUFJAN STEVENS: Fourth of July da ‘Carrie & Lowell’ (2015 – Asthmatic Kitty Records)
13. NENEH CHERRY: Naked da ‘Blank Project’ (2014 – Smalltown Supersound)
14. BY THE WATERHOLE: The End Of It All da ‘Two’ (2016 – Playdate Records)