Le avventure in musica di Sounds & Grooves continuano nella 14° Stagione di RadioRock.TO The Original
In questo episodio di Sounds & Grooves troverete una esplosiva miscela di stoner, avant jazz, hardcore e pop di qualità
Sono davvero felice di essere tornato, con Sounds & Grooves, ad arricchire il palinsesto della 14° Stagione di www.radiorock.to. A volte c’è la necessità di fermarsi un attimo, riflettere sugli sbagli che abbiamo commesso, fare uno o più passi indietro, capire le cose che contano davvero nella vita e ripartire con tutto l’entusiasmo possibile di una nuova vita, di una nuova opportunità che non deve essere sprecata. E in questo ho avuto l’incredibile fortuna di avere accanto una persona assolutamente meravigliosa ed unica che non smetterò mai di ringraziare e di amare.
A pensarci è pazzesco che sia passato già così tanto tempo da quando abbiamo iniziato questa fantastica avventura di radiorock.to per dare un segnale di continuità con il passato, con quella meraviglia che Franz Andreani, Marco Artico, Flavia Cardinali, Massimo Di Roma, Michele Luches, Aldo Semenuk, Giampiero Crisanti, Gianpaolo Castaldo avevano creato e a cui, nel mio piccolo, ho provato a dare un contributo dal 1991 al 2000. Sappiamo tutti benissimo che la Radio Rock in FM come la intendevamo noi è sparita da almeno due decenni, ma in tutti questi anni di podcast sul web abbiamo cercato di tenere accesa quella fiammella per poi tentare di raddoppiarla, moltiplicarla, farla diventare un faro di emozioni e qualità musicale. Perché la passione e la voglia di fare radio, la voglia di ascoltare e di condividere la musica di qualità, nonostante tutto, non ci è mai passata.
Non siamo una radio “normale”. Non solo perché trasmettiamo in differita e attraverso podcast registrati, ma soprattutto perché andiamo orgogliosamente musicalmente controcorrente rispetto a quella che è diventata la consuetudine delle emittenti radiofoniche al giorno d’oggi. Quella libertà in musica che è diventata una mosca bianca, quella passione per la condivisione, per la ricerca, per l’approfondimento. Senza dover aderire per forza ad una cieca linea editoriale che privilegia il commercio, ma lasciandoci guidare semplicemente dal nostro cuore e dalla nostra passione.
Questo podcast è stato il primo registrato con uno stato d’animo particolare. In questi giorni dove non ci muoviamo da casa se non per le necessità imprescindibili e in cui si alternano preoccupazione e speranza per questo nemico silenzioso che sembra essere ovunque intorno a noi, abbiamo però una grande opportunità. Sono giorni difficili, e speriamo irripetibili, ma che proprio per questo in qualche modo non vanno sprecati. Possiamo in qualche modo riprenderci in parte quel tempo che spesso ci è stato negato dai ritmi nevrotici della nostra quotidianità. In particolare abbiamo anche la possibilità di riscoprire e riascoltare meraviglie che da tempo non accarezzano i nostri padiglioni auricolari. Non possiamo prevedere quanto durerà questa situazione, per quanto tempo saremo costretti ad agire prevalentemente all’interno delle mura domestiche. La speranza che questi giorni possano essere il meno possibile mi ha convinto a creare una nuova rubrica chiamata Music Room, dove quotidianamente troverete un’artista, un gruppo, una canzone, un’emozione da riscoprire, per combattere la noia e la paura con la bellezza. Cerchiamo di agire in maniera consapevole, restiamo a casa.
#andràtuttobene #iorestoacasa
Ho voluto in questo episodio, proporvi un po’ di doom & stoner con OM e Sleep, l’hardcore maturo degli Hüsker Dü, il Paisley Underground dei Green On Red, l’avant jazz di Fire! e The Thing insieme a Neneh Cherry, il pop introverso di Eyeless In Gaza e Blue Nile e molte altre suggestioni sonore. Il tutto, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
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Prima di partire con questo viaggio in musica potete effettuare il download del podcast anche nella versione a 320 kb/s semplicemente cliccando sul banner qui sotto.
Iniziamo il podcast con una band che ha ridisegnato i confini dello stoner rock. Il cantante e bassista Al Cisneros insieme a Chris Hakius (batteria), Matt Pike e Justin Marler (chitarre) forma a San Jose (California) nel 1990 gli Sleep, abbandonando il punk della sua vecchia band Asbestosdeath e abbandonandosi ai riff sabbathiani e ad una pesante cadenza lisergica che diventerà un vero e proprio marchio di fabbrica. La band appena formata entra subito in studio per registrare il loro primo lavoro. Volume One esce nel 1991, mostra un suono più scuro ed influenze doom molto marcate ed è l’unico album registrato con Justin Marler, che lascia quasi subito la band per diventare in monaco ortodosso.
Leggenda vuole che appena l’etichetta Earache ascoltò il demo del loro secondo album, decise subito di mettere la band sotto contratto. Sleep’s Holy Mountain è considerato una vera e propria pietra miliare di un genere che dal doom-metal si trasforma lentamente ma inesorabilmente in stoner-rock. “Holy Mountain” dimostra lo stato di grazia di una band all’apice della loro forza creativa. La band si è sciolta nel 1995 riformandosi nel 2009. Oggi sono ancora attivi, ma con alla batteria Jason Roeder dei Neurosis.
Nel 2003 Cisneros e Hakius decisero di formare una loro band, chiamandola OM, un duo dedito ad una sorta di lento rituale doom con precisi riferimenti religiosi. Om è un termine indeclinabile sanscrito che ha il significato di solenne affermazione, ed è anche il mantra più sacro e rappresentativo della religione induista. Già dal nome quindi il duo vuole trasferire in musica una personale declinazione spirituale ed esoterica della psichedelia. Advaitic Songs, è il loro quinto (secondo con il batterista Emil Amos al posto di Hakius) e tuttora ultimo album in studio, pubblicato nel 2012 per la Drag City. La band si dimostra maestra nel creare ambientazioni evocative e trascendentali, dando vita ad una vera e propria saga oscura, orientaleggiante, mistica e spirituale. Un doppio album che vede la presenza del nuovo membro Robert Aiki Aubrey Lowe (ex 90 Day Men) alla voce e cori, e che presenta ben tre brani su 5 sopra i dieci minuti. Ancora una volta l’iconografia cristiana trova spazio in una loro cover, con Giovanni Battista che campeggia nella copertina dell’album. “State Of Non-Return” è uno dei brani di maggior impatto del disco, perfetta per mostrare la maniera evocativa ed epica di composizione del duo statunitense.
Nel 2017 avevamo parlato di un cofanetto che la splendida etichetta specializzata in ristampe Numero Group aveva approntato per raccontare i primi passi di una band storica come gli Hüsker Dü. Purtroppo pochi giorni dopo la felicità si era trasformata in infinita tristezza per la prematura scomparsa di Grant Hart. Hart aveva formato gli Hüsker Dü insieme a Bob Mould e Greg Norton nel 1979 dando una nuova connotazione al punk, mantenendo l’urgenza dell’hardcore, ma allo stesso tempo imprimendo una svolta melodica ed introspettiva, rendendo la band estremamente attuale e avendo un impatto notevole sui giovani negli anni ’80.
La band di Minneapolis era sempre in bilico tra la cupa introspezione di Mould e la spavalderia di Hart, che si spartivano da (quasi) buoni fratelli la scrittura delle tracce dei dischi. Savage Young Dü è un meraviglioso box antologico di 69 pezzi (47 dei quali assolutamente inediti) che documenta l’attività della band di Minneapolis tra 1979 e il 1982, un arco di tempo che dagli esordi arriva fino ai mesi precedenti al passaggio alla SST. “Diane“ era stata originariamente registrata dalla band per l’EP Metal Circus uscito nel 1983, ma la band la suonava in concerto già da tempo. La canzone era stata scritta proprio da Grant Hart, e parla di un vero fatto di cronaca. L’omicidio di Diane Edwards, una cameriera di St.Paul (Minnesota), avvenuto nel 1980, viene riletto dal terribile punto di vista dell’omicida Joseph Ture. Questa versione è stata registrata dal vivo nel 1981 proprio a casa loro, a Minneapolis.
Pochi altri gruppi sono stati influenti su varie generazioni di rock americano e non solo come i Sonic Youth. Kim Gordon, Thurston Moore, Lee Ranaldo e Steve Shelley, pur partendo dall’avanguardia newyorchese, non hanno davvero mai ripudiato il formato della canzone rock, sperimentando, usando gli strumenti in modo totale (soprattutto la chitarra usata in modo totale grazie ad un grande uso di effettistica e con accordature inusuali), e diventando di fatto una vera e propria istituzione della scena alternativa americana e mondiale. Il loro sesto lavoro in studio, Goo, esce nel 1990, due anni dopo il loro capolavoro Daydream Nation, caposaldo del loro modo inconfondibile di fare musica, con le parti soliste e ritmiche che si uniscono in un unico flusso sghembo ma perfettamente lucido.
Goo è anche il primo lavoro ad uscire per la major Geffen, ed ha il difficile compito di venire dopo un album così seminale. Nel loro modo sghembo e unico di concepire il rock, riescono come per incanto a far fluire ritornelli melodici e quasi pop, ammorbidendo leggermente il suono rispetto all’illustre predecessore senza perdere in qualità ed esplosività. Thurston Moore e Kim Gordon incrociano le loro voci nel noise-psichedelico della splendida cavalcata finale “Titanium Exposé”, uno dei vertici del disco.
Michael Head è sempre stato uno dei talenti più cristallini del pop rock britannico, nato a Liverpool ma innamorato della musica statunitense, autore brillante sia con i The Pale Fountains che con gli Shack, gruppi che avrebbero meritato sicuramente più fortuna e considerazione. Da recuperare assolutamente Waterpistol, lo splendido esordio degli Shack. Pensavamo di averlo perso per strada, anche se nel 1998 con The Magical World Of The Strands a nome Michael Head & The Strands ci aveva incantato e nel 2013 con la sua nuova formazione chiamata The Red Elastic Band aveva fatto uscire Artorius Revisited, un EP più che dignitoso.
Tre anni fa era stata una meravigliosa sorpresa per me, ritrovare un Michael Head così in forma, quasi rinato in una capacità compositiva nuova di zecca. Adiós Señor Pussycat è uno splendido album, in cui Head riesce a farci dimenticare i suoi ultimi difficili anni, mostrandoci tutta la sua abilità nel costruire canzoni scintillanti e meravigliose come “Overjoyed”, mirabilmente sospesa tra rock, pop e folk.
Tucson, Arizona 1979. Dan Stuart (chitarra), Jack Waterson (basso), Van Christian (batteria) e Sean Nagore (organo), che sarà presto sostituito da Chris Cacavas, formano una band chiamata The Serfers e per avere più visibilità, decidono di uscire dalla ristretta scena di Tucson per dirigersi a Los Angeles. In California, per evitare confusione con la scena surf-punk locale, decidono di cambiare il nome in Green On Red, prendendo il nome da una delle loro prime canzoni. Van Christian decide di tornare a Tucson, ma viene subito rimpiazzato da Alex MacNicol, già conosciuto per aver suonato con Lydia Lunch. Il gruppo si va subito ad inserire nella corrente Paisley Underground, quel genere nato proprio in California che andava ad unire l’energia reazionaria del punk con il recupero delle sonorità root e psichedeliche.
Nel gennaio del 1981 i quattro si autoproducono 300 copie di un EP di cinque pezzi intitolato Two Bibles. Queste 5 tracce bastano per far drizzare le antenne a Steve Wynn , leader di una delle band di maggior successo dell’epoca, The Dream Syndicate. Wynn decide di produrre il successivo lavoro della band per conto della sua etichetta personale, la Down There. Nel 1982 esce Green On Red, altro EP costituito da 7 traccie meglio curate e arrangiate dell’esordio. Grazie a Wynn, la band entra in contatto con il produttore e musicista Chris Desjardins dei The Flesh Eaters, che li mette subito sotto contratto per la sua etichetta di successo Slash. Nel 1983 esce il loro primo album sulla lunga distanza, Gravity Talks, 12 tracce che li proiettano di diritto nella storia del Paisley Underground e non solo. Le sonorità garage, la psichedelia desertica, le aperture melodiche e l’organo quasi doorsiano di Cacavas creano uno dei dischi più rappresentativi della scena californiana indipendente dei primi anni ’80. “Deliverance” è uno dei brani più belli di un disco memorabile. Poco tempo dopo l’ingresso del giovane chitarrista Chuck Prophet aprì nuove prospettive alla band con la sua tecnica sopraffina, che possiamo ascoltare nel successivo e altrettanto splendido Gas, Food And Lodging del 1985.
Mats Gustafsson (sax, elettroniche e Fender Rhodes), Johan Berthling (basso e pianoforte) e Andreas Werliin (batteria, lap steel) hanno pubblicato nel 2013 (Without Noticing), il loro secondo album (quarto se contiamo le collaborazioni con Jim O’Rourke e Oren Ambarchi) sotto il nome di Fire!, dove confermano la bontà della loro idea sonora. Nessuno come loro riesce a costruire aerodinamiche navicelle spaziali, riempirle di psichedelia, noise e kraut, e poi farle atterrare dolcemente su un pianeta dove la materia prima è l’improv-jazz. Difficile dire se il combo svedese riesca ad entusiasmare più nella classica formazione a tre, o nella versione allargata Fire! Orchestra dove insieme ad altre decine di musicisti (dalla versione a 30 sono passati a quella a 18) provenienti dagli universi noise-jazz-improv scandinavi, riescono a lasciarsi andare senza rete nel mescolare e trasformare free jazz, canzoni, noise, kraut-rock in un’estatica orgia di suoni, facendo rivivere a modo loro i mondi solari e fantastici dell’Arkestra di Sun Ra.
Il disco è una sorta di oscuro rituale, una ipotetica colonna sonora di un noir ambientato in una notte piovosa e girato in bianco e nero. La combustione evocata dal nome del trio è lenta ma inesorabile, le linee di contrabbasso si fanno via via sempre più seducenti e rapide sotto un rotolare di percussioni e piatti, preparando il terreno prediletto per il chirugico incedere dei soffi del sax baritono che disegna orbite ellittiche di estatico rapimento. Nella splendida “Tonight. More. Much More. (Without Noticing)” le dita di Berthling si abbattono pesanti sulle corde come macigni, Werliin tratteggia un tempo slow-core, e Gustafsson tira fuori note lente malinconiche, una sorta di blues macilento, mentre il tempo scorre inesorabile. I passi si susseguono lenti, i nervi sempre tesi, gli anfratti sempre pericolosi, alle volte facendoci girare la testa all’indietro…circospetti…sospettosi. Un viaggio malinconico, scuro, lento, affascinante, notturno, emozionale. Rimane la consapevolezza che i Fire! sono al giorno d’oggi, tra i più incredibili/credibili compagni in questa fantastica avventura che è la musica, nonché una delle stelle probabilmente più luminose di tutto l’universo improv-avant-jazz.
Ma il visionario sassofonista svedese Mats Gustafsson non è semplicemente un componente dei Fire!, ma anche uno dei musicisti più importanti sulla scena musicale contemporanea, non solo quella legata al free jazz, ma anche quella delle ultime tendenze di ricerca elettronica e di sintesi tra rock e improvvisazione. Gustafson ha un altro trio, The Thing, insieme al bassista Ingebrigt Håker Flaten e al batterista Paal Nilssen-Love. Il nome del gruppo è stato preso da una delle tracce dell’album del trombettista jazz Don Cherry del 1966 Where Is Brooklyn? Era dunque solo questione di tempo, ma le strade dei The Thing e della figlia adottiva del trombettista, Neneh Cherry, non potevano non incontrarsi. Anche perché Neneh Cherry ha un passato di musicista avventurosa, basti pensare a quel gruppo avventuroso che si chiamava Rip Rig & Panic.
L’incontro avviene nel 2012 e prende il nome di The Cherry Thing, album che contiene sette cover più un brano inedito. Cover diverse per ispirazione e assai avventurose, da “Dirt” degli Stooges a “Dream Baby Dream” dei Suicide, passando per il dovuto omaggio a Cherry “Golden Heart” e alla conclusiva “What Reason Could I Give” di Ornette Coleman inserita in scaletta. Non semplici cover, ma brani rivestiti meravigliosamente di dettagli nuovi ma aderenti in qualche modo all’originale, pur con un notevole cambio di strumentazione e con la voce ora soul e sensuale ora graffiante di una splendida Neneh Cherry. Questo disco è stato anche un rilancio notevole per la carriera della Cherry, che di lì a poco troverà di nuovo ispirazione e poetica pubblicando tra il 2014 ed il 2018 due splendidi album come Blank Project e Broken Politics.
Nuneaton è una città della contea del Warwickshire, in Inghilterra teatro dell’incontro, all’inizio degli anni ’80 tra il tecnico di laboratorio Peter Becker e l’impiegato dell’ospedale locale Martyn Bates. Entrambi condividevano l’amore per la sperimentazione, per le ambientazioni elettroniche e per un certo tipo di post-punk molto particolare, dalle venature scure e crepuscolari. Nel periodo del loro incontro, Becker stava leggendo la novella Eyeless In Gaza del noto scrittore britannico Aldous Huxley, che l’aveva portato a scegliere proprio quel titolo come sigla del suo nuovo progetto musicale. La loro sensibilità, il loro pop crepuscolare insieme alla capacità di creare arrangiamenti non proprio convenzionali, convinsero quelli della Cherry Red Records a metterli sotto contratto. L’album di debutto Photographs As Memories esce nel febbraio 1981 mostrando le loro qualità di creare bozzetti e microfilm con molti strumenti elettrici ed acustici, tra new wave, pop da camera e minimalismo notturno come dimostra la splendida “Knives Replace Air”. Nonostante un successo commerciale che non è mai arrivato, il duo continua tuttora a fare musica, band di culto che riesce ad affascinare incurante delle mode che passano.
Altro gruppo britannico che non è mai riuscito ad avere la visibilità ed i riconoscimenti che meritava sono stati senza dubbio i The Sound. Gruppo formato nella zona sud di Londra nel 1979 da Adrian Borland dalle ceneri della band punk The Ousiders, Avevano tutto per sfondare, ma forse gli mancava una “specializzazione” per sfondare davvero. Era un periodo in cui c’erano ancora i punk duri e puri, iniziavano ad esserci i dark appartenenti alle legioni della new-wave, c’erano i fan della nuova psichedelia inglese. L’unica pecca dei The Sound, che accontentavano tutti ma allo stesso tempo non accontentavano nessuno… A guardar bene non era una pecca proprio per niente, ma in quel periodo andavano in maniera particolare le caratterizzazioni, sia di genere musicali che per quanto riguarda le personalità che guidavano le band on stage.
I The Sound fanno il loro esordio nel 1980 con Jeopardy, un album realizzato con un budget molto limitato, ma che colpì moltissimo la critica musicale dell’epoca. La new-wave del gruppo si aggira tra accelerazioni punk e momenti di desolazione, una visione introspettiva e romantica, che spesso vira verso una sorta di pessimismo cosmico. La title track proposta in scaletta è manifesto del loro modo di fare musica. Ma all’entusiasmo della critica non ci sarà un riscontro commerciale adeguato. Dopo il successivo e altrettanto splendido From The Lion’s Mouth, anche questo amato dalla critica ma non troppo dal pubblico, la band comincerà a subire la pressione dell’industria discografica che vuole rendere il loro suono più appetibile al grande pubblico. Il gruppo sceglierà di non adeguarsi al diktat della sua etichetta discografica spegnendosi lentamente. Lo stesso Borland tenterà una sfortunata ed inadeguata carriera solista prima di arrendersi ai proprio demoni gettandosi sotto un treno alla Wimbledon Station di Londra il 26 aprile 1999.
Altro gruppo di culto e tra i miei gruppi preferiti sono senza dubbio i The Blue Nile. Nati a Glasgow, sono riusciti a trasferire in musica la malinconia della città industriale scozzese. La voce e la chitarra di Paul Buchanan. il basso di Robert Bell, e le tastiere di Paul Joseph Moore hanno saputo creare una sorta di pop alternativo di enorme classe e suggestione sin dall’esordio di A Walk Across The Rooftops. Band non certo prolifica e perfezionista, pubblicherà il secondo album, Hats, solo cinque anni più tardi, nel 1989. Il disco non solo conferma le meraviglie dell’esordio, ma le accentua con un’urgenza emotiva che si stempera in una tipica e crepuscolare malinconia del nord della Gran Bretagna. La notte e le atmosfere dilatate riempite da suoni corposi e dalla voce piena e straordinaria di Paul Buchanan la fanno da padrona.
Un suono levigato e alla continua ricerca dalla perfezione, ma certamente non asettico, anzi, le sette tracce di cui è composto l’album sono un viaggio notturno e cinematico di grande emozione e sentimento, con la voce di Buchanan che con dolcezza ma senza pietà mette a nudo cuori ed anime come nella meravigliosa “The Downtown Lights”.
Nel 2003 un album intitolato Thank You For Not Discussing The Outside World faceva capolino nei negozi di dischi intrigando per il suo modo di intendere la melodia in uno scuro ed affascinante panorama in bilico tra post rock, pop cameristico e suggestioni elettroniche. Autore dell’album era un quartetto tedesco che si chiamava Audiac. Credevo onestamente che dopo tanti anni il progetto si fosse disperso nel nulla, ma con mia somma sorpresa, due superstiti della sigla sono tornati nel 2017 a 14 anni dall’esordio con un nuovo album intitolato So Waltz, condotti in sala d’incisione da Hans-Joachim Irmler dei Faust.
I due attuali componenti della band, Alex Wiemer Van Veem e Niklas David, dopo tanti anni non hanno perso un grammo della loro forza espressiva, e il loro album di ritorno è stato uno dei più interessanti usciti nel 2017. Un disco che riesce ad intrigare per la sua capacità di miscelare teatralità mitteleuropea, suoni analogici, scrittura raffinata, pop da camera e grande raffinatezza. Un disco meraviglioso e fuori dal tempo, come dimostra la splendida “When You Say My Name”, in perfetto equilibrio tra sogno ed incubo.
Parlando di scrittura raffinata, suggestioni notturne e crepuscolari, Scozia e The Blue Nile… Nigel Thomas è un batterista che ha collaborato più volte dal vivo con la band di Paul Buchanan finendo addirittura nei credits di Peace At Last, terzo lavoro del gruppo scozzese. Nel 2001, nascondendosi dietro alla sigla Quiet City, Thomas raccoglie alcuni amici musicisti tra cui Paul Buchanan e Paul Joseph Moore dei Blue Nile, il bassista Pino Palladino ed altri musicisti, registrando un disco intitolato Public Face, Private Face. Uno di quei CD riscoperti quasi per caso in questi giorni di lockdown, tra l’altro con una valutazione niente male visto che sul noto sito Discogs ci sono solo due copie in vendita con un prezzo che si aggira tra i 170 e i 200 €.
Tra alcuni strumentali di classe ma a volte un po’ stucchevoli con una bella sezione di archi e di fiati, ci sono alcune perle che spiccano per la solita, incantevole voce di Paul Buchanan. “Due North” è uno di quei brani immaginifici e onirici che valgono da soli il prezo del biglietto (anche se lo ammetto, 200€ è un po’ troppo). Un brano che non sfigurerebbe affatto in un disco dei Blue Nile e che sono felice di aver riscoperto e condiviso con voi.
Chiudiamo il podcast con una musicista che ha trovato poco spazio nei miei podcast tradizionali. Cècile Schott aka Colleen è una musicista e polistrumentista francese. Usa di solito vari strumenti classici come il violoncello, la viola da gamba, spinetta, clarinetto, chitarra classica, arpa, ma fin dall’inizio della sua carriera si è sempre dimostrata estremamente attenta ai software e ai campionamenti in generale. Dall’inizio della sua carriera ha saputo mutare lentamente pelle, partendo sempre dalla sua base di musica neo-classica per viaggiare nello spazio e nel tempo della musica. Incursioni folk e etniche, tessiture minimaliste, dalla folktronica di The Golden Morning Breaks allo splendido classicismo di quella meraviglia senza tempo chiamata Les Ondes Silencieuses.
Passando dalla etichetta Leaf alla Thrill Jockey, Colleen ha trovato il modo di inserire più partiture elettroniche nei suoi componimenti, arrivando con A Flame My Love, A Frequency del 2017 a sostituire completamente gli strumenti acustici a favore di una sorta di orchestra formata da controparti elettroniche. Pur cambiando pelle, Colleen è capace sempre di prenderci per mano e condurci nel suo mondo intimista ed onirico con grande maestria, come dimostra la splendida “Summer Night (Bat Song)”.
Un grazie speciale va, come sempre, a Franz Andreani per la sua passione, la gestione di questa banda di pazzi e per la splendida riorganizzazione del sito già attiva da qualche anno. A cambiare non è stata solo la versione grafica del sito, ma anche la “filosofia” della podradio, con le rubriche che vanno ad integrarsi nella programmazione regolare sotto l’hashtag #everydaypodcast. Da giugno 2019 è attivo lo splendido canale YouTube della Radio, una nuova formula senza interruzioni ne spot per ascoltare la vostra-nostra musica preferita. Iscrivetevi numerosi, vi aspettiamo! Naturalmente ogni aggiornamento e notizia sarà nostra premura comunicarla sulla nostra pagina Facebook.
Nell’8° Episodio di Sounds & Grooves troverete gruppi senza tempo come Wire, The Fall e The Replacements, il suono che sapeva mescolare con fantasia dub, funk e rock di The Slits e The Pop Group, la speirmentazione dei Gastr Del Sol, le avventure dei Can, il pop maturo di Trembling Blue Stars, In Embrace e Prefab Sprout e molte altre suggestioni sonore. Il tutto, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
Intanto se volete potete sfruttare la parte riservata ai commenti qui sotto per darmi suggerimenti, criticare (perché no), o proporre nuove storie musicali. Mi farebbe estremamente piacere riuscire a coinvolgervi nella programmazione e nello sviluppo del mio sito web.
Se volete ascoltare o scaricare il podcast, potete farlo anche dal sito della stessa PodRadio cliccando sulla barra qui sotto. Buon Ascolto
TRACKLIST
01. SLEEP: Holy Mountain da ‘Sleep’s Holy Mountain’ (1992 – Earache Records)
02. OM: State Of Non-Return da ‘Advaitic Songs’ (2012 – Drag City)
03. HÜSKER DÜ: Diane (Live in Minneapolis 1981) da ‘Savage Young Dü’ (2017 – Numero Group)
04. SONIC YOUTH: Titanium Exposé da ‘Goo’ (1990 – DGC)
05. MICHAEL HEAD & THE RED ELASTIC BAND: Overjoyed da ‘Adiós Señor Pussycat’ (2017 – Violette Records)
06. GREEN ON RED: Deliverance da ‘Gravity Talks’ (1983 – Slash)
07. FIRE!: Tonight. More. Much More. (Without Noticing) da ‘(Without Noticing)’ (2013 – Rune Grammofon)
08. NENEH CHERRY & THE THING: What Reason Could I Give da ‘The Cherry Thing’ (2012 – Smalltown Supersound)
09. EYELESS IN GAZA: Knives Replace Air da ‘ Photographs As Memories’ (1980 – Cherry Red)
10. THE SOUND: Jeopardy da ‘Jeopardy’ (1980 – Korova)
11. THE BLUE NILE: The Downtown Lights da ‘Hats’ (1989 – Linn Records)
12. AUDIAC: When You Say My Name da ‘So Waltz’ (2017 – Klangbad)
13. QUIET CITY: Due North da ‘Public Face, Private Face’ (2001 – Koch Records)
14. COLLEEN: Summer Night (Bat Song) da ‘A Flame My Love, A Frequency’ (2017 – Thrill Jockey)