Ecco il sedicesimo podcast di Sounds & Grooves per la 18° stagione di RadioRock.TO The Original
In questa nuova avventura in musica troverete alcune novità importanti, una piccola panoramica del post-rock anni ’90 e un gran finale a sorpresa
Eccoci di nuovo puntuali con l’appuntamento quindicinale di Sounds & Grooves che per il 18° anno consecutivo impreziosisce (mi piace pensarlo) lo straordinario palinsesto di www.radiorock.to. 18 anni…siamo diventati maggiorenni!!!! A pensarci è incredibile che sia passato già così tanto tempo da quando abbiamo iniziato questa folle ma fantastica avventura. Come (credo) sappiate, la nostra podradio è nata per dare un segnale di continuità con quella meravigliosa radio del passato che molti custodiscono nel cuore e a cui ho provato a dare un piccolo contributo dal 1991 al 2000.
Sappiamo tutti benissimo che la Radio Rock in FM come la intendevamo noi è sparita da tanto tempo, ma in tutti questi anni di podcast sul web abbiamo cercato di tenere accesa quella fiammella per poi tentare di moltiplicarla, facendola diventare un faro di emozioni e qualità musicale. Perché la passione e la voglia di fare radio, la voglia di ascoltare e di condividere la musica di qualità, nonostante tutto, non ci è mai passata.
Questa creatura dopo quasi 4 lustri continua orgogliosamente a remare controcorrente, cercando quella libertà in musica che nell’etere è ormai diventata una mosca bianca, ed esprimendo con forza la passione per la condivisione, per la ricerca, per l’approfondimento. Non dobbiamo aderire ad una cieca linea editoriale che ormai spinge esclusivamente il pulsante play dei servizi di streaming, ma ci lasciamo guidare semplicemente dal nostro cuore e dalla nostra passione. Fulvio Savagnone, Marco Artico, Giampiero Crisanti, Franz Andreani, Flavia Cardinali, Francesco Cauli, Ivan Di Maro, Massimo Santori aka Moonchild, Maurizio Nagni ed io proviamo ogni giorno a coinvolgervi con i nostri podcast regolari e con le rubriche tematiche di approfondimento, sperando di farvi sentire sempre di più parte di questa fantastica avventura.
In questi 87 minuti di musica parleremo del 30° anniversario di un disco epocale come Rusty dei Rodan e faremo un piccolo giretto nella storia del post-rock anni ’90, prima in USA con i riflessivi Windsor For The Derby e gli scoppiettanti Sweep The Leg Johnny, poi in UK con il suono in bilico tra elettronica e shoegaze dei Seefeel. Ascolteremo anche novità importanti come il nuovo poderoso album dei Melvins, l’adrenalinico ritorno dei Pissed Jeans e l’enorme intensità emotiva dei BIG|BRAVE. Ci sarà anche un excursus sulla carriera di Grant-Lee Phillips con Shiva Burlesque e Grant Lee Buffalo e il potente messaggio degli Algiers. Il gran finale sarà appannaggio delle mille storie provenienti da Chicago con il songwriting eclettico di Ryley Walker, le carriere soliste di due personaggi straordinari come David Grubbs e Jim O’Rourke e quella condivisa sotto il nome di Gastr Del Sol. Il tutto, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
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Iniziamo il podcast parlando dei Melvins, un gruppo che, paradossalmente visto i quarant’anni di carriera e le molteplici collaborazioni, non ho passato spesso da queste parti. Roger “Buzz” Osborne, per gli amici King Buzzo, ne ha appena fatta una delle sue. Per la registrazione del 27° album della band, Tarantula Heart ha aggiunto ai collaboratori fissi Steven McDonald (basso) e Dale Crover (batteria), il chitarrista Gary Chester (Ed Hall, We Are The Asteroid) e un altro batterista come Roy Mayorga (attuale membro dei Ministry). “Il modo in cui abbiamo affrontato Tarantula Heart è stato diverso da qualsiasi altro album dei Melvins”, ha spiegato King Buzzo. “Ho chiesto a Dale e Roy Mayorga di venire a suonare con me e Steven alcuni riff, poi ho preso quelle sessioni e ho capito quali parti avrebbero funzionato e ho scritto nuova musica per adattarle. Un approccio che non abbiamo mai avuto in studio. Di solito abbiamo le canzoni scritte PRIMA di iniziare a registrare!”.
L’ennesimo folle tassello di una carriera che certo non è stata lineare. Un album nato dai riff di batteria improvvisati, con Buzz che, stimolato da questa nuova modalità creativa, si è sentito libero di andare in direzioni sonore imprevedibili, partendo da un brano “Pain Equals Funny”, della durata di ben 19 minuti! Due batterie, due chitarre, follie allucinate, scorribande surrealiste e brani poderosi in pieno stile Melvins come la “Working The Ditch” inserita in scaletta. Il gruppo di Montesano, Washington è tornato in forma strepitosa!!!
Nel 2015 ci aveva particolarmente colpito l’album di esordio degli Algiers, un trio formato ad Atlanta, Georgia dal cantante Franklin James Fisher, insieme al chitarrista Lee Tesche e al bassista Ryan Mahan. In realtà i tre si dividevano diversi altri strumenti infilando nelle 11 tracce del disco una serie di suoni estremamente interessanti tra battiti di mani e chitarre sferzanti, tra ritmi industrial ipnotici e scuri arricchiti da un incedere vocale gospel e un impianto new wave. Due anni dopo, l’atteso seguito intitolato The Underside Of Power fortunatamente aveva confermato tutto quello che di buono si era detto della band, che ha reso il suo suono ancora più poderoso grazie all’inserimento in pianta stabile dell’ex Bloc Party, Matt Tong, dietro ai tamburi. Il quartetto di Atlanta infatti non aveva affatto deluso le aspettative anche nel famoso “difficile” secondo album, mettendo nei solchi la loro versione più matura e consapevole.
Il loro mettere in primo piano l’impegno sociale anticapitalista, antirazzista e antifascista li ha resi in qualche modo unici. La potente ed empatica voce soul di Fisher unita ad un impianto musicale che unisce post punk e gospel con precisi innesti di elettronica ha reso questo gruppo uno dei più importanti degli ultimi anni per emozioni e contenuti. Difficile scegliere un brano tra i tanti dove si può davvero toccare con mano l’incredibile manifesto rabbioso, potente e impegnato della band, In questa “The Underside Of Power” la voce soul dello splendido Fisher sa essere allo stesso tempo per l’ennesima volta tanto dirompente quanto emozionale. Lo scorso anno Shook aveva messo in tavola tanta carne al fuoco, con varie contaminazioni stilistiche e molti ospiti coinvolti. Restano sicuramente tre la migliori band uscite nell’ultimo decennio.
Era in qualche modo atteso il ritorno delle eterne promesse del noise/hardcore Pissed Jeans. Sono passati ben sette anni dal loro quinto disco intitolato Why Love Now che li aveva consacrati ai livelli più alti. L’album, co-prodotto dalla regina della no wave Lydia Lunch, era una continua e mastodontica esplosione: dodici tracce che mostrano una rabbia controllata a stento e convogliata nei giusti binari dalla voce di un sempre più convincente Matt Korvette. Tanti i momenti immediati e coinvolgenti di un disco (e di un gruppo) che stupisce una volta di più per potenza muscolare, autoironia e scrittura raffinata.
Da Allentown, Pennsylvania, Matt Korvette insieme ai suoi compagni di avventura Bradley Fry (chitarra), Randy Huth (basso) e Sean McGuinness (batteria) si sono rimessi in moto trovando i loro meccanismi ben oliati e pubblicando Half Divorced, un album tanto breve (12 tracce per 30 minuti in totale), quanto devastante nel suo incedere punk hardcore che comprende anche la cover di “Monsters” dei Pink Lincolns. Il feroce cinismo di Korvette e compagni non fa sconti a nessuno esprimendo “la tensione tra l’ottimismo giovanile e la deprimente realtà dell’età adulta”. Un disco da ascoltare a volume alto e che non mi sorprenderei di trovare all’interno di molte classifiche di fine anno. Come resistere poi a un brano come “Moving On”?
Se solo recentemente mi sono riavvicinato a certe sonorità di musica che potremmo definire metal, il merito, tra gli altri, è dei BIG|BRAVE, trio canadese composto da Robin Wattie (chitarra e voce), Mathieu Ball (chitarra) e Tasy Hudson (batteria). Loro si collocano in quel nebuloso spazio tra il metal e la sperimentazione, alternando una schiacciante e drammatica pesantezza con una leggerezza eterea e meditativa, in una modalità che pochi dei loro colleghi riescono a percorrere con successo. Dopo aver sperimentato in ambito dark folk insieme ai compagni di etichetta The Body, lo scorso anno i tre sono tornati a far sentire le loro sonorità ossessive, pesanti e distorte con il loro sesto lavoro in studio intitolato Nature Morte, con cui pensavo che avessero raggiunto l’apice del loro percorso.
Un anno dopo ecco tornare il gruppo di Montreal con un nuovo album intitolato A Chaos Of Flowers, che sembra collegarsi al lavoro precedente già dalla copertina. Proprio lo sfondo bianco dell’artwork (quasi una controparte speculare dell’album di un anno fa) rivela l’anima meno violenta del disco, che pur collegandosi in parte al pericoloso e dilatato crocevia tra ambient, metal sperimentale e avant-rock del gruppo che aveva raggiunto l’apice con il lavoro precedente, qui si evolve in un mondo dove il loro “minimalismo estremo” si estende per evidenziare una modalità poetica legata all’emarginazione e alle esperienze che ci rendono vulnerabili. La chitarrista-cantante Robin Wattie ha voluto attingere a piene mani da alcune poesie di donne le cui parole hanno rispecchiato le esperienze di chi, o per la propria origine o per aver sfidato norme e pensiero comune della società, è stata spesso emarginata dalle convenzioni culturali. Alla “canon : in canon” inserita in scaletta spetta giustamente la parte centrale nel disco, un brano dilatato tra droni e la chitarra suggestiva dell’ospite Marisa Anderson che con il suo tocco tra folk e blues rende la voce di Wattie mai così intima, limpida e cristallina. A Chaos Of Flowers, con la sua anima tanto intima e sofferta quanto potente e apparentemente monolitica, ci mostra invece un gruppo ancora in crescita, pronto ad intraprendere un nuovo percorso di enorme intensità emotiva.
Negli anni ’90 i due poli del post-rock a stelle e strisce erano senza dubbio Chicago e Louisville. In particolare, nel suono dei gruppi che venivano dalla cittadina del Kentucky era preponderante la ritmica spigolosa dei Can o la spinta motoristica dei Neu!. La scena era estremamente vitale e comprendeva svariate collaborazioni tra musicisti, che portarono alla creazione di diversi side projects. Molti degli album registrati in quel periodo non ebbero all’epoca la meritata dimensione mediatica solo per la quasi contemporanea esplosione del movimento grunge che, almeno a livello mainstream, ne oscurò la visibilità. Fortunatamente il tempo si è rivelato galantuomo e con il passare degli anni ha reso giustizia a gruppi come i Rodan.
I Rodan erano formati da Jeff Mueller (chitarra/voce), Jason Noble (chitarra/voce), Tara Jane O’Neil (basso/voce) e Kevin Coultas (batteria). Il loro unico album, Rusty, ha appena festeggiato 30 anni ed è una delle pietre miliari del post-rock statunitense, con un’evocativa alternanza di melodie lente e strappi violenti come dimostra la “Tooth-Fairy Retribution Manifesto” inserita in scaletta. Nel 2013, 19 anni dopo Rusty, i Rodan sono riemersi dall’oblio con la pubblicazione di una splendida compilation intitolata Fifteen Quiet Years. L’album comprende alcune tracce inserite all’epoca solo in raccolte varie e delle splendide registrazioni fatte per le famose BBC Sessions del leggendario John Peel. I brani registrati per lo storico e compianto speaker radiofonico britannico sono uno specchio fedele del suono della band, mostrando spesso la loro capacità di sviluppare un perfetto equilibrio tra paesaggi ammalianti e tempeste travolgenti.
Per farvi capire quanto il movimento post-rock fosse incredibilmente vario e sfaccettato, andiamo a trovare un’altra di quelle band che sono (purtroppo) finite troppo presto nell’oblio. I Windsor For The Derby si sono formati nel 1995 a New York grazie all’incontro casuale tra tre chitarristi (Chris Goyer, Dan Matz e Jason McNeely) e un batterista (Greg Anderson). In realtà alcuni di loro venivano da Tampa in Florida e altri da Austin nel Texas, ma, una volta tornati nelle loro città natale, sono stati in grado di completare a distanza i loro album in studio. La loro musica è diametralmente opposta a quella dei Rodan, visto che il gruppo andava ad esplorare un oceano di musica d’ambiente esclusivamente strumentale al posto di preferire le accelerazioni violente.
Calm Hades Float è il loro album di esordio, uscito nel 1996 per la Trance Syndicate, un album senza note di copertina, ambient, quasi interamente strumentale, formato da sette tracce senza titolo. L’album ci porta tra arpeggi di chitarra, droni di organo, feedback e percussioni ovattate, in un universo “altro”, una sorta di trance ambientale e stordente di cui la “Four” inserita in scaletta è un’istantanea perfetta. Il gruppo continuerà a muoversi in queste traiettorie passando dalla Young God di Michael Gira alla Secretly Canadian che 10 anni dopo ristamperà il loro esordio aggiungendo ben 3 tracce dal vivo.
Gli anni ’90 in musica, ricordati soprattutto per i fenomeni mainstream grunge e brit-pop, sono stati in realtà palcoscenico di una serie di movimenti importanti e sfuggenti che andavano a ripescare riferimenti estetici del passato frullati attraverso le nuove esperienze. Come abbiamo detto più volte il microcosmo post-rock è stato estremamente frammentato, alcuni nomi sono saliti alla ribalta (Slint, Tortoise ecc..), ma altri purtroppo sono finiti troppo presto nel dimenticatoio. Tra i gruppi con i nomi più curiosi, meritano senza dubbio un posto d’onore i Sweep The Leg Johnny da Chicago, ispirati nella scelta del nome dall’ordine impartito dal perfido maestro sensei John Kreese al suo allievo Johnny Lawrence per spezzare la gamba a Daniel LaRusso nel primo film della serie Karate Kid.
Il cantante e sassofonista Steve Sostak e il chitarrista Chris Daly si sono incontrati mentre frequentavano l’ Università di Notre Dame. Dopo essersi trasferiti a Chicago dopo la laurea, dove hanno reclutato il batterista Scott Anna e il bassista Matt Alicea che abbandonerà dopo l’album di esordio sostituito da John Brady. Il secondo album Tomorrow We Will Run Faster viene pubblicato nel 1999 dalla Southern Records ed è la loro miglior prova, a metà strada tra la matematica degli Shellac e l’alternanza tra furia e calma dei June Of 44, con il sax di Sostak a squarciare il suono dandogli una connotazione estremamente personale. “Please Give Me Roses Before I Am Dead” è la testimonianza di un gruppo e di un periodo oltremodo creativo. Dopo aver sdoganato ante litteram il termine Sto Cazzo! nell’album successivo, la band si trascinerà ancora per poco sciogliendosi nel 2002.
Anche oggi torna la ormai leggendaria rubrica “dischi che non ricordavo di avere”. Chiudiamo la parentesi post-rock anni ’90 andando dall’altra parte dell’oceano. All’inizio degli anni ’90 il londinese Mark Clifford entusiasta ricercatore musicale, ha creato i Seefeel insieme a Daren Seymour (basso), Justin Fletcher (batteria ed elettronica), e Sarah Peacock (voce e chitarra). Il gruppo, nonostante avesse le sembianze di un tipico quartetto rock, amava giocare con i suoni trasformandosi da shoegaze ad ambient, da noise a dub, tra Aphex Twin e i My Bloody Valentine. Clifford mandò un demo fu inviato a tre case discografiche e allo storico John Peel della BBC Radio 1 che si dimostrò entusiasta e li invitò per una delle sue memorabili sessions. Poco dopo, una delle etichette a cui era stato inviato il demo, la Too Pure, contattò la band mettendoli sotto contratto.
Come detto più volte, la Too Pure è stata l’etichetta di riferimento di quel periodo storico, fondata a Londra nel 1990 da Richard Roberts e Paul Cox e salita improvvisamente alla ribalta grazie alla pubblicazione di Dry, l’album di esordio di PJ Harvey. La label londinese era diventata in breve tempo il punto di riferimento per gli ascoltatori e gli addetti ai lavori meno allineati e usuali. Le band che incidevano per l’etichetta da una parte non si somigliavano affatto, ma allo stesso tempo erano pervase dalla stessa comune voglia di sperimentare. L’album di esordio del gruppo si intitolava Quique, ed è stato uno degli “Album dell’anno” del Melody Maker grazie ad una recensione proprio di Simon Reynolds che ne apprezzava il movimento ondivago tra shoegaze ed elettronica. “Plainsong” è uno dei momenti più memorabili del disco, poi ristampato nel 2007 in forma di redux, contenente versioni alternative e materiale non pubblicato all’epoca. Recensendo questa riedizione Pitchfork ha dichiarato che “la musica dei Seefeel continua a brillare 14 anni dopo, un’intera generazione ha costruito un’estetica ambient-motorik noise-pop intorno alle canzoni di Quique come ‘Plainsong'”.
Torniamo indietro di qualche anno, metà degli anni ’80, Grant-Lee Phillips insieme al suo socio Jeffrey Clark (entrambi provenienti da Stockton, California) decidono di creare una band chiamata Shiva Burlesque. Uno dei gruppi di culto di quel periodo, un gruppo sottovalutato e rimasto sempre nell’ombra senza mai avere avuto almeno un briciolo della popolarità avuta dai Dream Syndicate o dai Rain Parade. Eppure la band ha saputo sfornare due ottimi album, l’esordio autointitolato del 1987 e lo splendido Mercury Blues del 1990 dove il gruppo capitanato da Phillips e Clark dimostra di essere cresciuto in maniera esponenziale dal punto di vista compositivo, e l’unico punto a sfavore risulta essere l’inquietante immagine di copertina raffigurante un’inquietante immagine di Medusa.
Proprio i Dream Syndicate sembrano essere il punto di riferimento di una scrittura più solida e di una voce, quella di Clark, che sembra avere acquisito una nuova consapevolezza. “Sick Friend” è l’esempio, con il suo entusiasmante crescendo, di quanto questa band sia stata sottovalutata e sia più che degna di essere riscoperta. Clark dopo lo scioglimento del gruppo non è più riuscito a trovare la passata alchimia e magia, mentre della splendida carriera di Phillips, attualmente ancora attiva con una invidiabile coerenza stilistica, abbiamo raccontato già in precedenza.
Grant-Lee Phillips non ha mai davvero inseguito la popolarità. La sua passione e visione musicale è stata ispirata, almeno agli inizi, dal Paisley Underground e dal post punk. Come abbiamo appena detto, insieme all’amico californiano Jeffrey Clark aveva creato gli Shiva Burlesque. Una delle band di culto di quel periodo. Un gruppo sottovalutato e rimasto sempre nell’ombra senza mai avere avuto almeno un briciolo della popolarità avuta dai Dream Syndicate o dai Rain Parade. Una volta sciolta la band, Phillips salì sul palco per una manciata di spettacoli da solista nei club di Hollywood, prima di reclutare gli ex membri degli Shiva Burlesque Joey Peters (batteria) e Paul Kimble (basso) e chiamare il nuovo gruppo Grant Lee Buffalo. Il trio si costruì rapidamente un seguito locale, facendo il tutto esaurito nei club grazie ad alcune intense performances dal vivo. per Phillips il nuovo gruppo è stato stata la sua consacrazione in parte anche commerciale del suo talento di musicista.
Fuzzy, l’album di esordio del trio formato insieme a Paul Kimble (basso) e Joey Peters (batteria, con lui già negli Shiva Burlesque), è stato uno splendido affresco di come il suo suono abbia abbandonato in parte la matrice Paisley per andare a pescare nella tradizione folk e country. Tra ballad elettriche, melodie impetuose e piccoli gioielli come “Jupiter And Teardrop”, l’esordio della band si rivela come un piccolo grande capolavoro, non scevro da aperte denunce politiche. Un affascinante viaggio sulle strade blu americane. Phillips successivamente non ripeterà più le vette dei primi due lavori della sua creatura, ma continua a sfornare album dalla media qualitativa estremamente elevata.
Abbiamo parlato più di una volta su queste pagine di Ryley Walker, un cantautore chitarrista dell’Illinois capace con il suo talento di intraprendere un affascinante percorso partendo da una perfetta integrazione della sua scrittura con il retaggio della scena folk britannica degli anni ’70. Dopo il successo di Primrose Green, Walker ha evidenziato negli album seguenti la splendida irrequietezza di un artista sempre in cerca di cambiamento. Nei solchi dei suoi album possiamo trovare non solo tutte le influenze apertamente dichiarate durante l’arco della sua carriera, ma anche altre ispirazioni e riferimenti sempre nuovi oltre a mostrare una notevole personalità e unicità. Il tutto messo al servizio di una scrittura non facile ma sempre perfettamente a fuoco tra rilassamenti bucolici e momenti sperimentali, accordi aperti e accelerazioni sincopate improvvise. Un itinerario tortuoso, irrequieto, alla ricerca di una strada che sembra difficile da trovare, ma che all’improvviso appare in tutto il suo splendore davanti all’ascoltatore.
Dopo il successo di Primrose Green ed un lunghissimo tour il chitarrista aveva raccolto le sue idee, gli appunti presi ovunque in giro, e si era chiuso in tre diversi studi di Chicago insieme al produttore e polistrumentista Leroy Bach, noto per aver fatto parte dei Wilco dal 1998 al 2004. Il risultato Golden Sings That Have Been Sung era leggermente diverso da precedente, meno prolisso e più personale. Le coordinate erano sempre quelle ma con taglio forse troppo ricercato e meno popolare. In ogni caso le canzoni non mancavano, l’abilità di percorrere gli spazi folk, blues e jazz con il suo emozionante fingerpicking anche, come nella splendida “The Halfwit In Me” che apriva l’album. Il suo ultimo lavoro, Course In Fable, è stato prodotto da un personaggio cardine della storia recente di Chicago in musica come John McEntire ed è lo specchio un artista che giunto in una fase di piena maturità artistica in cui riesce con disinvoltura a creare un incredibile e avventuroso equilibrio tra sperimentazione e struttura classica.
Cosa dire di Jim O’Rourke? Personaggio cardine non solo del post-rock di Chicago, ma di tutta la musica alternativa in generale a partire dagli anni ’90 sia come chitarrista (Gastr Del Sol, Loose Fur, Sonic Youth e molti altri) che come produttore (Wilco, Stereolab, Superchunk, John Fahey, Smog, Faust, Tony Conrad, The Red Krayola, Bobby Conn, Beth Orton, Joanna Newsom e U.S. Maple solo per citarne alcuni). Jimbo è stato formidabile nel rilanciare e recuperare gruppi ed artisti come Faust, John Fahey, Sonic Youth e a far risorgere i Wilco, producendo il disco della discordia Yankee Hotel Foxtrot e rendendolo imperituro. Nel 1999 O’Rourke ha lasciato per un attimo da parte le sue più recenti incisioni perennemente in bilico tra improvvisazione ed avanguardia per andare ad incidere canzoni semplici.
In realtà le otto tracce che compongono Eureka semplici non lo sono affatto, anche se il fatto di essere estremamente orecchiabili potrebbe farlo pensare. L’inclusione in scaletta di “Something Big” di Burt Bacharach è la cartina di tornasole di un’idea precisa di pop orchestrale che stupisce per l’ispirazione lucida, la meraviglia della costruzione degli incastri e la grande sensibilità e capacità di autore del chicagoano, dimostrata nella splendida “Eureka” con le sue limpide armonie, i suoi arrangiamenti vaporosi e la splendida sezione di fiati.
Abbiamo parlato più di una volta su queste pagine degli Squirrel Bait e della loro importanza. Dalle loro ceneri si sono formati gruppi fondamentali per lo sviluppo del rock alternativo americano degli anni ’90. Dopo la repentina chiusura di quel progetto, David Grubbs e Clark Johnson (rispettivamente chitarrista e bassista degli Squirrel Bait), hanno creato una nuova band chiamata Bastro con cui proseguire il loro percorso musicale. Insieme a loro c’era anche John McEntire, futuro fulcro percussivo e non solo dei Tortoise. Quella scena, come abbiamo detto, era estremamente ribollente ed era naturale per i musicisti non rimanere in pianta stabile in una band ma collaborare in altre situazioni sonore adiacenti. Ecco che Grubbs abbandona il progetto Bastro, collabora con Bitch Magnet e Codeine e forma, in coppia con il bassista Bundy K. Brown, il suo progetto più sperimentale, i Gastr Del Sol, che diventerà un duo insieme a Jim O’Rourke.
Dopo la rottura tra i due, avvenuta dopo l’uscita di Camoufleur, Grubbs sfoggia il suo grande talento con il suo secondo album solista intitolato The Thicket. Il disco è assolutamente straordinario, e prosegue idealmente l’unione tra musica colta e popolare dell’ultimo disco dei Gastr Del Sol. Con l’aiuto di straordinari musicisti come Joshua Abrams al basso, Jeb Bishop al trombone, uno straordinario Tony Conrad al violino, l’amico John McEntire alla batteria e Mary Lass Stewart alla voce, Grubbs inanella nove tracce meravigliose tra cui la “Fool Summons Train” inserita in scaletta.
Unendo i puntini delle ultime due tracce chiudiamo il podcast proprio con un gruppo apertamente citato che sta per tornare negli scaffali dei negozi di dischi con una raccolta di brani inediti in studio e dal vivo a 26 anni dallo scioglimento intitolata We Have Dozens of Titles. All’inizio degli anni ’90 l’appena citato David Grubbs aveva abbandonato il progetto Bastro, collaborando con Bitch Magnet e Codeine e formando, in coppia con il bassista Bundy K. Brown e il batterista John McEntire, il suo progetto più sperimentale, i Gastr Del Sol. Il gruppo fece il proprio esordio nel 1993 con l’EP The Serpentine Similar. Un anno più tardi Brown e McEntire lasciarono per entrare in pianta stabile nei Tortoise e a Grubbs si unì il chitarrista, compositore e produttore Jim O’Rourke.
Da quel momento in poi i Gastr Del Sol saranno principalmente una collaborazione tra Grubbs e O’Rourke anche se McEntire farà quasi sempre parte, parzialmente, della partita. Testi surreali, arrangiamenti che si fanno via via più liberi, decostruzione, orchestra da camera, inserimenti elettronici, e la chitarra Faheyana di Grubbs a marchiare a fuoco un suono che si fa sempre più personale a partire da Crookt, Crackt, Or Fly (1994), per arrivare al capolavoro Upgrade & Afterlife del 1996, in bilico tra immaginarie colonne sonore da film e rievocazioni dello scuro folk blues proprio di John Fahey. La loro versione colta del pop è immersa in arrangiamenti straordinari tra archi e fiati, tape loop e accordi sparuti di strumenti acustici. Al disco partecipano il chitarrista Kevin Drumm, la violoncellista Sue Wolf e i violinisti Tony Conrad e Terri Kapsalis, oltre a John McEntire. “Rebecca Sylvester” è solo una delle tante meraviglie del disco. Nel 1998 Camoufleur, forse il loro album più accessibile, ma non per questo meno qualitativo, farà calare il sipario sul duo.
Un grazie speciale va, come sempre, a Franz Andreani per la sua passione, la gestione di questa banda di pazzi e per la splendida riorganizzazione del sito già attiva da qualche anno. A cambiare non è stata solo la versione grafica del sito, ma anche la “filosofia” della podradio, con le rubriche che vanno ad integrarsi nella programmazione regolare sotto l’hashtag #everydaypodcast. Sulla nostra pagina Facebook troverete quotidianamente ogni upload del sito e, ormai da tempo, è attivo anche lo splendido canale YouTube della Radio, una nuova formula senza interruzioni ne spot per ascoltare la vostra-nostra musica preferita. Iscrivetevi numerosi, vi aspettiamo!
Nel prossimo episodio andremo a ritrovare l’inizio della carriera di Nick Cave, l’energia degli ZZ Top, il ritorno di una Jane Weaver in gran forma, un piccolo excursus sul folk irlandese e ascolteremo tante altre piccole e grandi meraviglie. Il tutto sarà, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
Intanto se volete potete sfruttare la parte riservata ai commenti qui sotto per darmi suggerimenti, criticare (perché no), o proporre nuove storie musicali. Mi farebbe estremamente piacere riuscire a coinvolgervi nella programmazione e nello sviluppo del mio sito web.
Per suggerimenti e proposte, scrivetemi senza problemi all’indirizzo e-mail stefano@stefanosantoni14.it.
Potete ascoltare o scaricare il podcast anche dal sito di Radio Rock The Original cliccando sulla barra qui sotto.
Buon Ascolto
TRACKLIST
01. MELVINS: Working The Ditch da ‘Tarantula Heart’ (2024 – Ipecac Recordings)
02. ALGIERS: The Underside Of Power da ‘The Underside Of Power’ (2017 – Matador)
03. PISSED JEANS: Moving On da ‘Half Divorced’ (2024 – Sub Pop)
04. BIG|BRAVE: Canon : In Canon da ‘A Chaos Of Flowers’ (2024 – Thrill Jockey)
05. RODAN: Tooth-Fairy Retribution Manifesto da ‘Rusty’ (1994 – Quarterstick Records)
06. WINDSOR FOR THE DERBY: Four da ‘Calm Hades Float’ (1996 – Trance Syndicate Records)
07. SWEEP THE LEG JOHNNY: Please Give Me Roses Before I Am Dead da ‘Tomorrow We Will Run Faster’ (1999 – Southern Records)
08. SEEFEEL: Plainsong da ‘Quique’ (1993 – Too Pure)
09. SHIVA BURLESQUE: Sick Friend da ‘Mercury Blues’ (1990 – Fundamental)
10. GRANT LEE BUFFALO: Jupiter And Teardrop da ‘Fuzzy’ (1993 – Slash)
11. RYLEY WALKER: The Halfwit In Me da ‘Golden Sings That Have Been Sung’ (2016 – Dead Oceans)
12. JIM O’ROURKE: Eureka da ‘Eureka’ (1999 – Drag City)
13. DAVID GRUBBS: Fool Summons Train da ‘The Thicket’ (1998 – Drag City)
14. GASTR DEL SOL: Rebecca Sylvester da ‘Upgrade & Afterlife’ (1996 – Drag City)
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