Ecco il ventesimo podcast di Sounds & Grooves per la 18° stagione di RadioRock.TO The Original
In questa nuova avventura in musica troverete moltissime novità con un occhio di riguardo per l’etichetta Constellation
Eccoci puntuali con l’appuntamento quindicinale di Sounds & Grooves che per il 18° anno consecutivo impreziosisce (mi piace pensarlo) lo straordinario palinsesto di www.radiorock.to. 18 anni…siamo diventati maggiorenni!!!! A pensarci è incredibile che sia passato già così tanto tempo da quando abbiamo iniziato questa folle ma fantastica avventura. Come (credo) sappiate, la nostra podradio è nata per dare un segnale di continuità con quella meravigliosa radio del passato che molti custodiscono nel cuore e a cui ho provato a dare un piccolo contributo dal 1991 al 2000.
Sappiamo tutti benissimo che la Radio Rock in FM come la intendevamo noi è sparita da tanto tempo, ma in tutti questi anni di podcast sul web abbiamo cercato di tenere accesa quella fiammella per poi tentare di moltiplicarla, facendola diventare un faro di emozioni e qualità musicale. Perché la passione e la voglia di fare radio, la voglia di ascoltare e di condividere la musica di qualità, nonostante tutto, non ci è mai passata.
Questa creatura continua orgogliosamente a remare controcorrente, cercando quella libertà in musica che nell’etere è ormai diventata una mosca bianca, ed esprimendo con forza la passione per la condivisione, per la ricerca, per l’approfondimento. Non dobbiamo aderire ad una cieca linea editoriale che ormai spinge esclusivamente il pulsante play dei servizi di streaming, ma ci lasciamo guidare semplicemente dal nostro cuore e dalla nostra passione. Fulvio Savagnone, Marco Artico, Giampiero Crisanti, Franz Andreani, Flavia Cardinali, Francesco Cauli, Ivan Di Maro, Massimo Santori aka Moonchild, Maurizio Nagni ed io proviamo ogni giorno a coinvolgervi con i nostri podcast regolari e con le rubriche tematiche di approfondimento, sperando di farvi sentire sempre di più parte di questa fantastica avventura.
La metà di questi nuovi 80 minuti di podcast è composta da novità discografiche, dagli inarrestabili Big Special con il loro folgorante debutto allo splendido songwriting di Bill MacKay, passando per le dolenti meraviglie dell’attesissimo disco solista di Beth Gibbons e soprattutto per le straordinarie novità del catalogo Constellation. Dal debutto degli incredibili FYEAR alla conferma di Eric Chenaux e Kee Avil, senza dimenticare le meraviglie di Erika Angell. Il tutto, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
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Prima di partire con questo viaggio in musica potete effettuare il download del podcast anche nella versione a 320 kb/s semplicemente cliccando sul banner qui sotto.
Iniziamo il podcast con un altro duo proveniente dal Regno Unito, in particolare da Birmingham, che ha appena esordito con un album che contiene ben 15 brani tra cui tutti i singoli che negli ultimi due anni hanno fatto presa su critica e pubblico. Joe Hicklin (voce e chitarra) e Callum Moloney (batteria e voce) hanno preso il nome di Big Special e hanno pubblicato il loro atteso album di esordio intitolato Postindustrial Hometown Blues. I due si sono conosciuti al college quando avevano 17 anni, dopo essersi esibiti insieme sotto varie forme, la loro chimica e l’amore per la scrittura li ha tenuti legati in modo creativo, portandoli a formare i Big Special un decennio dopo per sconfiggere la noia e la frustrazione dell’isolamento.
Un duo come gli Sleaford Mods che vuole esprimere in modo più potente tra punk, soul e blues tutta la frustrazione dell’alienazione della classe operaia moderna e di una generazione di giovani disincantati. Nella situazione attuale del Regno Unito c’è così tanto da ribellarsi, così tanto per cui arrabbiarsi ma non è facile catturare appieno questo spirito. Come ha detto il batterista Callum Moloney: “Chiunque si senta escluso da questo sistema costruito contro di noi capirà la nostra musica”. Un debutto molto coinvolgente e ricco di emozioni, in cui inni di sfida all’orgoglio operaio come “Dig!” si contendono lo spazio con l’incalzante confessionale di blues urbano “This Here Ain’t Water” inserito in scaletta. Poco lo spazio dato loro dalla stampa musicale italiana, ma sono sicuramente un gruppo da tenere d’occhio con grande attenzione.
Visto che abbiamo appena parlato di loro andiamo per l’ennesima volta a trovare chi ha trovato una strada incredibilmente originale per esprimere quel disagio generazionale in Gran Bretagna di cui parlavamo prima, soprattutto post Brexit. Quante volte su queste pagine abbiamo speso inchiostro (ed elogi) per gli Sleaford Mods. Sulla loro forza rabbiosa mi sono espresso più di una volta. Da qualche anno il duo punk-hop di Nottingham formato da Jason Williamson e Andrew Fearn ha firmato per la storica etichetta britannica Rough Trade senza perdere un grammo della loro ferocia sociale ma nel 2019 Eton Alive è stato pubblicato dalla loro etichetta, la Extreme Eating Records. Dal vivo poi sono assolutamente divertenti, più Williamson si danna, sbraita, inveisce, si avvita su se stesso, urla con il suo accento improponibile del nord dell’inghilterra, più il suo compare se la sghignazza bevendo birra e semplicemente facendo partire e stoppando le sue basi sul laptop.
Molti trovano la band estremamente ripetitiva, e vista la composizione dei due è complicato pensare ad una rivoluzione sonora. La loro formula è ormai facilmente identificabile, ma la semplicità con cui i due la fanno evolvere rimanendo fedeli a loro stessi è meravigliosamente spaventosa. La rabbia era ancora evidente nel primo album del duo di Nottingham con la propria etichetta, ma allo stesso tempo è sembrata in qualche modo mitigata da un maggiore senso di rassegnazione. Nel loro tipico stile “O.B.C.T.” offre un commento pungente sulla cultura contemporanea, sfidando gli ascoltatori a riflettere sulla propria autenticità e sui propri valori. Oliver Bonas è un negozio del Regno Unito. È un negozio di strada ma abbastanza di nicchia. “Chelsea tractor” è un termine gergale inglese che indica le auto 4×4 utilizzate inutilmente dagli abitanti della città. O.B.C.T è l’acronimo di “Oliver Bonas Chelsea Tractor”.
Non abbiamo mai parlato abbastanza dei Cheer-Accident, gruppo tanto creativo quanto, purtroppo, poco considerato. La creatura di Thymme Jones (Dead Rider) ha sempre preferito trame tortuose per esprimere il proprio discorso musicale. Un incredibile ed inestricabile intreccio di post-rock, kraut, progressive, dove melodie e dissonanze sanno amalgamarsi in un’appiccicosa ed intrigante melassa. La band in realtà è stata sempre una sorta di collettivo mutante, plasmato dalle sapienti mani di Thymme Jones (batteria, voce, piano, tromba, noises), capace di passare da quartetto a ensemble comprensivo di fiati ed archi.
Negli ultimi anni il fulcro del gruppo sembra essersi stabilizzato, vedendo a fianco del leader il basso e le tastiere di Dante Kester, la chitarra e la tromba di Jeff Libersher. Intorno a questo trio girano a turno numerosi altri musicisti. In particolare, per il loro diciottesimo album in studio intitolato Putting Off Death troviamo il sax di Cory Bengtsen e Ross Feller, il violino di Julie Pomerleau e molti altri musicisti di Chicago, impegnati a rendere ancora più denso e complesso il suono. L’album, come quasi tutta la discografia della band, regala momenti di complessità intrigante come dimostra la splendida “Lifetime Guarantee”.
Questo è il nostro terzo album. È un disco che risponde alle ansie del momento: ecologia, isolamento, estinzione, tecnologia, l’appiattimento della storia, la morsa sclerotica di una cultura impantanata in citazioni, riferimenti e immaginazione svuotata.” Così i The God In Hackney hanno provato a raccontare in breve The World In Air Quotes, disco purtroppo quasi ignorato dalle nostre parti (nonostante abbiano fan dal nome importante come Mike Watt o Thurston Moore) ma che ho trovato sorprendentemente interessante e coinvolgente. Il gruppo è composto dal nucleo centrale: Andy Cooke, Dan Fox, Ashley Marlowe e Nathaniel Mellors, ampliando poi la propria formazione includendo i polistrumentisti e compositori americani Eve Essex (Eve Essex & The Fabulous Truth, Das Audit, Peter Gordon & Love of Life Orchestra, Peter Zummo, Liturgy) e Kelly Pratt (Father John Misty, David Byrne/St Vincent, Beirut e Lonnie Holley tra i tanti).
Dan Fox, Nathaniel Mellors e Andy Cooke si sono conosciuti alla scuola d’arte di Oxford, a metà degli anni Novanta, senza però all’epoca fare musica insieme, ma il gruppo esiste da ben 25 anni, anche se era nato come progetto parallelo dei Socrates That Practices Music, fondati da Cooke nel 1998 a Londra. Dunque The God In Hackney è un progetto ad ampio respiro, che pur partendo da basi art rock che ricordano a tratti alcuni gruppi progressive del passato, ingloba diversi generi musicali, dal jazz al rock, risultando eclettici e mai banali, e riuscendo a non sfociare mai nell’onanismo strumentale, anzi, intrigando con gli intrecci di voci, fiati, ritmi come nella splendida “In This Room” che apre l’album. Dice Dan Fox: “Lavorare con Eve e Kelly ha ampliato il nostro senso di ciò che è musicalmente possibile con The God in Hackney. Un’abilità che abbiamo acquisito alla scuola d’arte è stata quella di rimanere aperti a qualcosa di inaspettato durante il processo di scrittura, piuttosto che cercare di controllarne ogni aspetto. Fare arte è più eccitante quando non si sa con precisione cosa succederà”. Ed è proprio l’inaspettato ad essere senza dubbio uno dei segreti di questo album intrigante.
Ecco a grande richiesta il ritorno della popolare rubrica “dischi che non ricordavo di avere”. Stavolta impreziosita da una sottorubrica intitolata “Fratelli che non ricordavo fossero tali”. Eh si perché i fratelli David Alan Batt e Stephen Ian Batt sono molto più noti con i nomi d’arte di David Sylvian e Steve Jansen. Entrambi protagonisti del progetto Japan insieme a Mick Karn, Richard Babieri e Rob Dean, i due nel 2005 hanno dato vita ad un progetto estemporaneo insieme al compositore elettronico Burnt Friedman chiamato Nine Horses. Due soli album pubblicati nell’arco di tre anni, il primo e più interessante si intitola Snow Borne Sorrow.
Una serie di collaboratori impressionate, dal flautista Theo Travis (al contrabbassista jazz Keith Lowe, da Thomas Hass al sax, a Arve Henriksen dei Supersilent alla tromba, per non parlare di Ryuichi Sakamoto al pianoforte. Magari, come spesso è accaduto a molti supergruppi, il risultato è inferiore a quello che si potrebbe pensare, ma non mancano gli spunti interessanti. Questo progetto in realtà era stato avviato da Sylvian e Jansen nel 2002, molto prima dell’inversione di rotta creativa compiuta con Blemish due anni prima. “Darkest Birds” vede la solita inimitabile voce vellutata di Sylvian e una produzione di grandissima classe.
Jason Sharp è da anni una colonna portante della comunità musicale avant-jazz, sperimentale e improvvisata di Montréal. Sassofonista e compositore elettroacustico, il suo lavoro da solista ha prodotto un insieme unico di musica unendo la padronanza della tecnica estesa del sassofono con microfoni personalizzati, elettronica e sintesi modulare. Kaie Kellough è un’acclamato poeta e scrittore, la cui raccolta di poesie Magnetic Equator ha ricevuto il Griffin Poetry Prize 2020 (il principale premio di poesia canadese). Oltre alla scrittura, negli ultimi due decenni la sua pratica principale sono stati lavoro sonoro e le performance dal vivo in innumerevoli manifestazioni di spoken word e multi-media, sperimentazioni e collaborazioni.
Dopo diversi anni di collaborazione, sviluppo, workshop, commissioni ed esibizioni in configurazioni minori, i due artisti hanno creato e perfezionato il progetto FYEAR che, nella sua definitiva configurazione, vede la partecipazione della poetessa/scrittrice Tawhida Tanya Evanson (voce) e dei musicisti Jesse Zubot (violino), Joshua Zubot (violino), Joe Grass (pedal steel), Stefan Schneider (batteria), Tommy Crane (batteria) oltre all’artista/designer Kevin Yuen Kit Lo (video performance e visual design). Il risultato è un album tanto sorprendente quanto complicato da definire e raccontare, dove il collettivo unisce improvvisazione e composizione, strumentazione elettronica e acustica, recitazione vigorosa e vocalizzazione astratta, bilanciando una struttura intensiva con un un intenso spirito esplorativo. La “Pt II Mercury Looms” inserita in scaletta è composta da quasi 8 minuti di magia dove le due voci, il sax e tutta la strumentazione si inseguono a volte in maniera forsennata a volte più estatica in una sorta di caos controllato ed incredibilmente coeso che ci trascina tra alt-jazz e post-rock in un personale ed inedito microcosmo musicale.
Restiamo in casa Constellation per andare a trovare Erika Angell, cantante e compositrice svedese, che ha trascorso gli ultimi due decenni nelle scene musicali d’avanguardia di Stoccolma dal 2004 e di Montréal dal 2012. Tra i suoi progetti principali figurano il gruppo art-rock Thus Owls e il trio Beatings Are In The Body. Angell ha pubblicato ad inizio marzo 2024 The Obsession With Her Voice, il suo album di debutto da solista, un lavoro elettroacustico di esplorazione vocale senza freni e composizione avant-elettronica espressionista dove la sua voce e le sue tastiere vengono accompagnate da Mili Hong alla batteria, Andrea Stewart e Audréanne Filion al violoncello e Scott Chancey e Thierry Lavoie-Ladouceur alla viola.
Un art-rock visionario che si regge su una solo apparentemente leggera struttura di archi e soprattutto sulla splendida voce dell’artista svedese di base a Montréal, capace di veleggiare da Laurie Anderson a Jenny Hval. Una narrazione potente e ricercata che può essere solenne e spettrale, capace di inserirsi perfettamente nel solco di casa Constellation. Un esordio già maturo di grande originalità come dimostra la splendida “Up My Sleeve” inserita in scaletta. Se il buongiorno si vede dal mattino…
Visto che la abbiamo appena nominata, andiamo ad esplorare Il sentiero di sperimentazione e ricerca della norvegese Jenny Hval. Per farlo sono tornato indietro al 2013, quando il desiderio di suonare più rumorosamente invece di lavorare con paesaggi sonori acustici e calmi ha portato la Hval a collaborare con John Parish per incanalare questa energia. Ecco dunque quale è stata la spinta propulsiva che Jenny Hval ha saputo mettere nei solchi del suo secondo lavoro Innocence Is Kinky, ponendosi dal punto di vista maschile ed esplorando lo studio del volto femminile passando da Giovanna D’Arco a Sasha Grey, scavando nella psiche ed esplorando ogni limite del suo indiscutibile talento vocale.
Un’artista tanto decisa quanto matura, tanto intensa quanto consapevole. I suoi occhi di ghiaccio esplorano il volto femminile che si trasforma mentre la sua voce che sa essere allo stesso tempo dolce, stridula e potente, rompe gli argini e si espande in una dimensione elettrica che finora era stata solo sfiorata, ma che si addice perfettamente a questo suo darsi senza limiti. La Hval sa cambiare atmosfere mantenendo alta la tensione come dimostra la title track, un numero ambient dark di sicuro impatto che ci fa capire come è facile farsi rapire dalle sonorità e dalla voce meravigliosa della talentuosa norvegese.
“Scrivere canzoni, per me, è come scolpire. Nasce da una parola, un’emozione o un suono iniziale, che poi costruisco, modellandolo in una forma più raffinata, incollata in una struttura artificiale. Altre volte il mio ruolo è quello di scrostarla, raschiarne l’esterno, per rivelare il suo stato naturale e la sua parte all’interno del tutto.” Così si presentava due anni fa la cantautrice, chitarrista e produttrice di Montréal Vicky Mettler, al suo esordio per l’etichetta Constellation sotto il nome di Kee Avil. La Mettler combina chitarra, voce, elettroacustica e produzione elettronica per creare assemblaggi di canzoni che sembrano collassare da un momento all’altro ma che allo stesso tempo riescono ad evolversi come resina appiccicosa che raccoglie e disperde elementi disparati lungo il suo percorso.
Se già ci aveva colpito l’esordio chiamato Crease, un ascolto non certo facile dove Kee Avil concretizzava la sua musica in una chitarra post-punk lavorata a cesello, in un’elettronica sinuosa di fascia bassa, in una tavolozza di microcampionamenti organici e digitali capaci di creare ritmi alternati e propulsivi e nell’intimità ansiosa del suo lirismo e della sua voce finemente lavorati, anche il nuovo Spine colpisce nel segno. Anche qui ci sono canzoni che non lasciano molto spazio alla melodia, che spiazzano non appena sembra che abbiamo trovato una direttrice. Tra post-punk, electro-industrial e avant-pop, quelli del secondo lavoro di Vicky Mettler sono brani forse più convinti e convincenti, finemente lavorati, meticolosamente assemblati e pronti a celare la realtà. Un album sperimentale che ci conferma Kee Avil come un’artista estremamente intrigante come dimostra la “Remember Me” inserita in scaletta
Chiudiamo il capitolo delle nuove (splendide) uscite Constellation con il grande ritorno di uno dei miei artisti preferiti, stavolta in una veste leggermente diversa. Eric Chenaux è una sorta di songwriter post moderno in bilico tra folk e jazz. Nato a Toronto, ottimo chitarrista, è entrato nelle grazie della prestigiosa etichetta canadese Constellation Records per il suo modo originale ed obliquo di comporre e di pizzicare le sei corde. Eric ha composto e suonato musica per film e danza contemporanea, e ha collaborato con con l’artista visuale Marla Hlady per numerose installazioni sonore. Tra ostiche sperimentazioni e ballate oblique, Chenaux due anni fa aveva dato alle stampe l’ottimo Say Laura, il suo settimo lavoro in studio.
Accompagnato dall’organo Wurlitzer di Ryan Driver e dalle percussioni e dall’elettronica di Philippe Melanson, il cantante/chitarrista si ribattezza Eric Chenaux Trio, pubblicando (in una primavera straordinaria per l’etichetta canadese) l’ottimo Delights Of My Life. In realtà la nuova ragione sociale non apporta grandi modifiche all’impianto sonoro conosciuto, un suono cangiante che vira dal jazz al blues, dal folk al cantautorato classico amplificando emozioni e sensazioni ad ogni cambiamento della sua chitarra amplificata, trattata e astratta. Le sette tracce del disco mostrano e amplificano le sue romantiche dissonanze, la sua tecnica chitarristica, la sua splendida voce ed un modo quasi unico di coniugare acustica ed elettronica mantenendo un grande fascino e un trasporto quasi mistico, come nella “I’ve Always Said Love” inserita nel podcast.
Bill MacKay è un chitarrista, compositore, cantante e improvvisatore di Chicago. Sono passati cinque anni dall’uscita del precedente album solista intitolato Fountain Fire, ma nel frattempo l’artista non ha smesso di muoversi, collaborando con artisti di ogni genere, tra cui la violoncellista Katinka Kleijn, il banjoista Nathan Bowles e il tastierista Cooper Crain (Cave). Ha inoltre collaborato con Steve Gunn, Ryley Walker, Bill Callahan & Bonnie Prince Billy (Blind Date Party) e Black Duck (nel loro disco autointitolato insieme a Douglas McCombs e Charles Rumback).
Da poco è uscito per la splendida Drag City Locust Land, un disco tanto breve quanto splendido. Nove brani per una mezz’ora scarsa di durata, ma un paesaggio lussureggiante che MacKay dipinge da par suo con la calda risonanza della sua sei corde e la sua voce limpida. Ballate acustiche alternate a brani di folk elettrico, suonate con gusto e passione come nella “Half Of You” inserita in scaletta. A volte non serve inventarsi qualcosa di nuovo, bastano splendidi arrangiamenti e tanta passione per far entrare un disco o un artista nel cuore.
Cantante tanto conosciuta quanto sempre lontana dalla luce dei riflettori. Interviste? Si contano sulle dita di una mano. Foto? Quasi sempre fuori fuoco. Ma la sua voce…beh, quella è indimenticabile per aver marchiato a fuoco la scena di Bristol ad inizio anni ’90 con i Portishead. Carriera iniziata relativamente tardi e centellinata con cura quella di Beth Gibbons, tra alcune memorabili collaborazioni ed un disco pubblicato ben 22 anni fa (incredibile pensare a quanto passa in fretta il tempo) in coabitazione con Paul Webb aka Rustin Man intitolato Out Of Season. Sei anni dopo, il ritorno a sorpresa dei Portishead, ma dopo, di nuovo, il silenzio, interrotto solo da alcune colonne sonore, la collaborazione con Kendrick Lamar e un contratto, nel 2013, con la Domino.
Undici anni dopo, ecco uscire il suo vero debutto solista intitolato Lives Outgrown, un album atteso non solo da chi spera ancora in una riunione con Geoff Barrow e Adrian Utley, ma anche da tutti quelli che con la sua voce ha fatto volare in posti lontani. Prodotto dalla stessa Gibbons insieme a James Ford e ad un altro ex Talk Talk come Lee Harris, il disco è naturalmente lontano dai suoni della sua vecchia sigla, andando ad approfondire dinamiche di folk scuro sicuramente ispirato dalla campagna di Devon dove vive ormai da tempo. Un album fuori dal tempo come dimostra la “Lost Changes” che potete ascoltare nel podcast.
Abbiamo appena parlato di Beth Gibbons, e del legame della cantante con la sezione ritmica dei Talk Talk. Il legame di Paul Webb con il batterista Lee Harris risaliva fin dai tempi dell’università, e con lui Webb, parallelamente agli ultimi respiri dei Talk Talk, fondò il collettivo .O.Rang, band che sviluppava l’ultimo percorso musicale della loro ex band aggiungendo innesti tribali a base di world music e improvvisazione. I due musicisti, lontani dalla leadership di Hollis, sono riusciti a creare una propria visione sonora, prendendo a piene mani dalle loro influenze più etniche.
L’album di esordio si intitola Herd Of Instinct, e vede, insieme ai due, l’apporto di moltissimi collaboratori provenienti dalle più diverse estrazioni musicali: Graham Sutton (Bark Psychosis e Boymerang), Beth Gibbons (Portishead), Mark Feltham (Talk Talk), Matt Johnson (aka The The) e molti altri. Un apporto enorme e disparato di varie influenze, con percussioni, archi e fiati a scolpire il suono e a renderlo sempre più tribale e ossessivo. Uno splendido affresco sonoro che possiamo ascoltare nella trascinante danza di “Orang” con la voce di Beth Gibbons che canta addirittura in lingua malese Due anni più tardi Fields And Waves ne approfondirà le velleità elettroniche e sperimentali, senza però colpire a fondo come il predecessore. Il disco sarà anche l’ultimo di un collettivo che è rimasto un vero e proprio oggetto di culto.
Chiudiamo il podcast con la band che, forse, è stata capace di effettuare la più incredibile mutazione da bozzolo a farfalla che si sia vista nella storia della musica. I Talk Talk di Mark Hollis, hanno vissuto alcune stagioni mischiati, non per colpa loro, nel calderone synth-pop anni ’80 insieme a Spandau Ballet o Duran Duran grazie a hit singles come “It’s My Life” o “Such A Shame”. Ma il quartetto aveva, fortunatamente, dalla sua parte una notevole e superiore capacità di scrittura e, passo dopo passo, è riuscito a reinventare il proprio stile portando la loro evoluzione al climax sonoro ed emotivo. Così nel 1988, il sublime Spirit Of Eden e le sei meravigliose e lunghe tracce di cui era composto, è riuscito a portarci felicemente lontani dai sentieri già percorsi dal gruppo.
Quelle tracce lasciavano intravedere parte dell’estetica che, 6 anni dopo, il critico musicale Simon Reynolds mise su carta prima su Mojo e poi su The Wire definendo, o provando a farlo, un nuovo termine chiamato post rock. Il suono, non più radiofonico e tutto tranne che commerciale, mandò su tutte le furie i vertici della EMI, portando le due parti ad una sbrigativa risoluzione del contratto. Ma ormai il gruppo era proiettato verso nuovi lidi. I Talk Talk, ormai ridotti a trio dopo l’abbandono del bassista Paul Webb con Hollis, Lee Harris (batteria) e Tim Friese-Greene (piano e tastiere), si lasciano circondare da archi e fiati, capaci di creare le atmosfere eteree e dilatate su cui il canto di Hollis diventa liquido, psichedelico e ispirato. Laughing Stock è il canto del cigno della band, e un album che, a posteriori, è stato giustamente considerato tra i precursori di quel suono che troverà compimento in Gran Bretagna nella prosecuzione degli anni ’90. “Ascension Day” è la perfetta dimostrazione della raggiunta perfezione sonora del gruppo ed il brano perfetto per chiudere il podcast.
Un grazie speciale va, come sempre, a Franz Andreani per la sua passione, la gestione di questa banda di pazzi e per la splendida riorganizzazione del sito già attiva da qualche anno. A cambiare non è stata solo la versione grafica del sito, ma anche la “filosofia” della podradio, con le rubriche che vanno ad integrarsi nella programmazione regolare sotto l’hashtag #everydaypodcast. Sulla nostra pagina Facebook troverete quotidianamente ogni upload del sito e, ormai da tempo, è attivo anche lo splendido canale YouTube della Radio, una nuova formula senza interruzioni ne spot per ascoltare la vostra-nostra musica preferita. Iscrivetevi numerosi, vi aspettiamo!
Nel prossimo ed ultimo episodio stagionale andremo ad alternare novità come l’anteprima del disco solista di Steve Wynn a veri e propri classici come l’esordio di una già straordinaria Rickie Lee Jones o al capolavoro di John Martyn.
Il tutto sarà, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
Intanto se volete potete sfruttare la parte riservata ai commenti qui sotto per darmi suggerimenti, criticare (perché no), o proporre nuove storie musicali. Mi farebbe estremamente piacere riuscire a coinvolgervi nella programmazione e nello sviluppo del mio sito web.
Per suggerimenti e proposte, scrivetemi senza problemi all’indirizzo e-mail stefano@stefanosantoni14.it.
Potete ascoltare o scaricare il podcast anche dal sito di Radio Rock The Original cliccando sulla barra qui sotto.
Buon Ascolto
TRACKLIST
01. BIG SPECIAL: This Here Ain’t Water da ‘Postindustrial Hometown Blues’ (2024 – So Recordings)
02. SLEAFORD MODS: O.B.C.T. da ‘Eton Alive’ (2019 – Extreme Eating Records)
03. CHEER-ACCIDENT: Lifetime Guarantee da ‘Putting Off Death’ (2017 – Cuneiform Records)
04. THE GOD IN HACKNEY: In This Room da ‘The World In Air Quotes’ (2013 – Junior Aspirin Records)
05. NINE HORSES: Darkest Birds da ‘Snow Borne Sorrow’ (2005 – Samadhisound)
06. FYEAR: Pt II Mercury Looms da ‘FYEAR’ (2024 – Constellation)
07. ERIKA ANGELL: Up My Sleeve da ‘The Obsession With Her Voice’ (2024 – Constellation)
08. JENNY HVAL: Innocence Is Kinky da ‘Innocence Is Kinky’ (2013 – Rune Grammofon)
09. KEE AVIL: Remember Me da ‘Spine’ (2024 – Constellation)
10. ERIC CHENAUX TRIO: I’ve Always Said Love da ‘Delights Of My Life’ (2024 – Constellation)
11. BILL MacKAY: Half Of You da ‘Locust Land’ (2024 – Drag City)
12. BETH GIBBONS: Lost Changes da ‘Lives Outgrown’ (2024 – Domino)
13. ‘O’RANG: Orang da ‘Herd Of Instinct’ (1994 – Echo)
14. TALK TALK: Ascension Day da ‘Laughing Stock’ (1991 – Verve Records)
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SEASON 18 EPISODE 20: “Lost Changes” [Podcast] https://t.co/h3eiKUBEI2 In attesa di riprendere (il 13 settembre) Sounds & Grooves su https://t.co/mhp0KpML6S The Original è disponibile per l'ascolto e la lettura il penultimo podcast della scorsa stagione.
— SoundsAndGrooves (@SoundsGrooves) September 4, 2024