Ecco l’ultimo podcast di Sounds & Grooves che chiude la 18° stagione di RadioRock.TO The Original
In questa ultima avventura stagionale troverete un mix intrigante tra novità e brani senza tempo
Eccoci puntuali con l’appuntamento quindicinale di Sounds & Grooves che per il 18° anno consecutivo impreziosisce (mi piace pensarlo) lo straordinario palinsesto di www.radiorock.to. 18 anni…siamo diventati maggiorenni!!!! A pensarci è incredibile che sia passato già così tanto tempo da quando abbiamo iniziato questa folle ma fantastica avventura. Come (credo) sappiate, la nostra podradio è nata per dare un segnale di continuità con quella meravigliosa radio del passato che molti custodiscono nel cuore e a cui ho provato a dare un piccolo contributo dal 1991 al 2000.
Sappiamo tutti benissimo che la Radio Rock in FM come la intendevamo noi è sparita da tanto tempo, ma in tutti questi anni di podcast sul web abbiamo cercato di tenere accesa quella fiammella per poi tentare di moltiplicarla, facendola diventare un faro di emozioni e qualità musicale. Perché la passione e la voglia di fare radio, la voglia di ascoltare e di condividere la musica di qualità, nonostante tutto, non ci è mai passata.
Questa creatura continua orgogliosamente a remare controcorrente, cercando quella libertà in musica che nell’etere è ormai diventata una mosca bianca, ed esprimendo con forza la passione per la condivisione, per la ricerca, per l’approfondimento. Non dobbiamo aderire ad una cieca linea editoriale che ormai spinge esclusivamente il pulsante play dei servizi di streaming, ma ci lasciamo guidare semplicemente dal nostro cuore e dalla nostra passione. Fulvio Savagnone, Marco Artico, Giampiero Crisanti, Franz Andreani, Flavia Cardinali, Francesco Cauli, Ivan Di Maro, Massimo Santori aka Moonchild ed io proviamo ogni giorno a coinvolgervi con i nostri podcast regolari e con le rubriche tematiche di approfondimento, sperando di farvi sentire sempre di più parte di questa fantastica avventura.
Per l’ultimo podcast stagionale ho voluto alternare novità come l’anteprima del disco solista di Steve Wynn o il nuovo Goat Girl a veri e propri classici come l’esordio di una già straordinaria Rickie Lee Jones e uno dei capolavori di un immortale come John Martyn. Il tutto, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
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Prima di partire con questo viaggio in musica potete effettuare il download del podcast anche nella versione a 320 kb/s semplicemente cliccando sul banner qui sotto.
C’era una volta ElectraGlide In Blue, un film uscito nel 1973 con Robert Blake che interpretava un poliziotto motociclista e diretto da quel James William Guercio, che è stato il produttore dei primi album dei Chicago. Mick Collins e i suoi Dirtbombs nel confezionare il secondo album Ultraglide In Black hanno voluto omaggiare non solo il film del 1973, ma anche gli artisti soul che amavano ascoltare durante la loro gioventù. Tutte le influenze che hanno contribuito a plasmare la psiche sonora di Collins sono qui in primo piano: Sly & the Family Stone, Marvin Gaye, Curtis Mayfield, Stevie Wonder, Parliament, The Miracles e una miriade di altri troppo oscuri da citare ma che fanno sentire la loro presenza importante.
Anche la copertina dell’album è un omaggio agli dei della black music, visto che ricalca quella di I Was Made to Love Her di Stevie Wonder del 1967. La doppia batteria, la potenza del basso e il feedback della chitarra creano un muro di suono perfetto per ricreare l’energia della black music. Il brano di apertura del disco, “Chains Of Love”, era stato pubblicato originariamente nel 1967 da J.J. Barnes come lato B del suo hit single “Baby Please Come Back Home”. Tra Barry White e Phil Lynott (di cui parleremo più tardi) il disco è un flusso ininterrotto di energia da parte del gruppo di Detroit. Ultraglide In Black ha catturato un momento che non potrebbe essere ricreato altrettanto bene da nessuno, se non dalle persone che ne fanno parte. Era la blackness che i garage rocker di Detroit non avevano idea di essersi persi.
Non c’è alcun dubbio sul fatto che una delle poche reunion di gruppi storici che abbiano davvero avuto un senso sia stata quella dei The Dream Syndicate, band storica del Paisley Underground che dal 2017, dopo quasi 30 anni di silenzio, è tornata a far sentire la propria splendida nuova voce. Il primo album solista dal 2010 del leader del gruppo, Steve Wynn, si intitola Make It Right, uscirà 30 agosto per la Fire Records e coinciderà con la pubblicazione del suo nuovo libro di memorie “I Wouldn’t Say It If It Wasn’t True”. Quest’autunno Wynn andrà anche in tour, una serie di concerti che promette di essere un one-man-show capace di mescolare canzoni tratte e ispirate dal libro con una struttura narrativa di letture e racconti.
La sua autobiografia non è altro che il racconto di come scrivere canzoni e suonare im una band sia il tramite per un mondo che il suo autore ad inizio carriera poteva a malapena immaginare: un mondo di grandi etichette, tour bus di lusso e teatri esauriti, ma anche di alcol, droghe e una Babilonia del rock’n’roll di basso livello. In definitiva, è una storia di redenzione, con la musica come veicolo di trasformazione artistica e personale e di trascendenza. Il disco vede il contributo di Mike Mills (R.E.M.), Vicki Peterson (The Bangles), Chris Schlarb (Psychic Temple), Emil Nikolaisen (Serena Maneesh), Linda Pitmon (The Baseball Project) e un cast di decine di persone. La title track inserita in scaletta mostra l’intatta abilità di Wynn nel costruire melodie senza tempo.
Cosa si può dire degli R.E.M. che non sia già stato detto? Una carriera trentennale, quindici album in studio, tutti nessuno escluso (anche gli ultimi due nella fase di minore ispirazione) di grande coerenza ed onestà artistica. Michael Stipe e compagni hanno portato con classe, sensibilità ed enorme capacità di scrittura, l’indie rock nel mainstream, vendendo quasi 90 milioni di dischi. Green è il loro sesto album in studio, primo con la major Warner Bros dopo il lungo contratto con la IRS. Altre etichette offrirono più dei 10 milioni di dollari della WB, ma il management della band di Athens approvò quella richiesta in cambio di una completa indipendenza artistica.
Green ebbe un grande successo, anche se il botto vero e proprio sarebbe arrivato solo con il tormentone “Losing My Religion” contenuto nel successivo Out Of Time. Il disco è perfettamente bilanciato tra brani tirati come l’opener “Pop Song 89”, “Stand” ,“Orange Crush” o la “World Leader Pretend” inserita in scaletta e ballate accompagnate dal mandolino di Peter Buck come la splendida “You Are The Everything”. Pochi come loro sono riusciti a fare il salto tra il mondo indie e quello mainstream senza perdere un briciolo della loro integrità artistica e della loro qualità compositiva.
Passando dal debutto autointitolato e pieno di rabbia (2018) al mondo di evasione del secondo On All Fours (2021), il trio di South London chiamato Goat Girl composto da Rosy Jones, Lottie Pendlebury e Holly Mullineaux, ha appena pubblicato il suo terzo album intitolato Below The Waste. Co-prodotto insieme a John “Spud” Murphy (Black Midi e, più recentemente, False Lankum dei Lankum, nominato al Mercury), l’approccio delle Goat Girl al nuovo album appare sicuro e maturo, pur mantenendo un senso giocoso di curiosità e meraviglia. Approfondendo gli estremi del loro suono distintivo, la conoscenza, l’entusiasmo e la pazienza di Spud hanno fornito un paio di mani sicure per dare vita alle alte ambizioni del trio.
L’album è stato composto come un collage in un periodo di tempo esteso, mentre la parte strumentale è stata registrata nel corso di dieci giorni in Irlanda agli Hellfire Studios, all’ombra del famigerato Hellfire Club, ma anche nello Studio 13 di Damon Albarn. Gli archi (Reuben Kyriakides e Nic Pendlebury), gli strumenti a fiato (Alex McKenzie) e le voci (tra cui un coro composto da familiari e amici), sono stati aggiunti in diverse location, da un granaio nell’Essex allo studio delle Goat Girl a South London. Il gruppo, diventato un trio a causa dell’abbandono della chitarrista L.E.D. (Ellie Rose Davies), appare meno convincente del disco precedente, ma con brani di sicura presa come questa “Play It Down”.
Philip Parris Lynott era nato in Inghilterra, più precisamente a West Bromwich, ma già da piccolo si era trasferito a Dublino, a casa della nonna Sarah. Phil passò la sua giovinezza per le strade di Dublino, spesso schernito dalla società bigotta che condannava la sua estrazione complicata e sofferta di mezzosangue senza padre che a quel tempo in Irlanda non era una posizione comune e tantomeno accettata. Nel dicembre del 1969 a Dublino il chitarrista Eric Bell e il tastierista Eric Wrixon (entrambi avevano suonato nei Them di Van Morrison) assistettero a un concerto degli Orphanage, che aveva in formazione proprio Phil Lynott (voce e basso) e il batterista Brian Downey. Bell e Wrixon si presentarono a Lynott e Downey al termine dello show, proponendogli di unirsi al loro progetto. In realtà Wrixon suonò solo in un brano del primo album mentre Bell lasciò nel 1973, sostituito da grandi chitarristi come Brian Robertson, Gary Moore e John Sykes.
I due musicisti, a conoscenza dell’ottima reputazione musicale di Bell accettarono la proposta e il progetto prese forma prima con nome Thin Lizzie, per poi diventare dopo pochi mesi Thin Lizzy. Il gruppo esordì nel 1971, per poi intraprendere una straordinaria carriera con Lynott a difendere con i suoi testi la propria sensibilità dalla condanna della società e la consapevolezza del suo essere diverso, e la musica a proporre un hard rock personale tra folk e psichedelia. “The Sun Goes Down” è un brano tratto dall’ultimo album in studio del gruppo, Thunder And Lightning, qui proposta nella versione live contenuta in Life Live pubblicato nel 1983, tre anni prima della morte di Lynott all’età di 36 anni in seguito a un’overdose di eroina. Una sua statua in bronzo a grandezza naturale è stata eretta nel 2005 in Harris Street nel centro di Dublino.
Alla fine del 2023 ho voluto premiare con la prima posizione della mia classifica un gruppo che sta rivitalizzando un genere storico come il folk cambiando in corsa le regole del gioco. Il 2023 ha visto il ritorno dei dublinesi Lankum con il loro quarto album intitolato False Lankum, atteso seguito di quel The Livelong Day che nel 2019 gli ha permesso di vincere il RTE Choice Music Prize (equivalente irlandese dei Grammy). Partendo da canzoni folk tradizionali, i Lankum (nome preso dal protagonista della scura folk ballad intitolata proprio “False Lankum” scritta da John Reilly) hanno impresso il loro marchio personale facendo leva su pesanti droni e distorsioni che conferiscono nuova intensità e bellezza a ogni brano. Con questo album il quartetto ha consolidato il suo distacco dal genere folk classico, creando una musica audace e contemporanea che nasce, come detto, da elementi tradizionali ma che suona decisamente nuova.
Nelle 12 tracce dell’album il quartetto irlandese ha utilizzato una nuova tavolozza per colorare il proprio suono in modo sempre più sperimentale, grazie anche all’ausilio del produttore di lunga data John ‘Spud’ Murphy. Solo dopo la registrazione il gruppo si è reso conto che quasi tutte le canzoni dell’album, raccolte o scritte, avevano una sorta di riferimento al mare. A confermare il loro status di nuove superstar del folk, a fine giugno il quartetto ha pubblicato Live in Dublin, un album registrato in tre serate da tutto esaurito al Vicar Street di Dublino dove i Lankum hanno eseguito diversi brani del loro catalogo, tra cui “The Rocky Road to Dublin” che finora non era mai stato pubblicato ufficialmente. Unico neo, dei 9 brani che compongono la scaletta dell’edizione digitale, solo 6 sono finiti sul vinile. La meravigliosa “On A Monday Morning” è, purtroppo, uno dei brani esclusi nella versione fisica del disco.
Restiamo in Irlanda andando a trovare uno degli artisti più longevi ed importanti dell’isola di smeraldo. Ho sempre avuto una grande ammirazione per Christy Moore. La sua passione, il suo impegno politico, il suo timbro vocale caldo, l’amore profondo per la sua terra. Una volta terminata l’esperienza Planxty, band fondamentale per il folk revival degli anni ’70. Christy Moore (voce e bodhrán) insieme al sodale Dónal Lunny (bouzouki) ha creato i Moving Hearts con l’intento di unire il folk irlandese ad altre forme di musica come rock e soul. La formazione che ha inciso nel 1981 l’album di debutto autointitolato vedeva, insieme ai due fondatori, Declan Sinnot (chitarra), Keith Donald (alto sax), Eoghan O’Neill (basso), Brian Calnan (batteria), e Davy Spillane, un vero e proprio enfant prodige delle uillean pipes, le tipiche cornamuse irlandesi che si suonano con le dita senza emettere aria dalla bocca.
L’album è una perfetta sintesi di stili, con il folk sempre presente nelle fondamenta, con una alternanza tra nuove canzoni e traditionals riarrangiati, non di rado legati ad un impegno politico e sociale. Un impegno che va spesso e volentieri a trattare i temi relativi alle rivolte irlandesi per la conquista dell’indipendenza oppure ad ammonire i potenti. Un anno dopo il gruppo (con Matt Kellaghan alla batteria al posto di Brian Calnan) ha pubblicato Dark End Of The Streets, album che ricalca lo straordinario debutto risultando forse un filo meno d’impatto. “Remember The Brave Ones” è il primo brano dell’album, scritto dal fratello minore Barry conosciuto anche con lo pseudonimo di Luka Bloom. Dopo l’uscita del disco Moore ha lasciato il gruppo. I superstiti proveranno prima a sostituirlo con Mick Hanly (con cui registreranno l’album dal vivo Hearts Live) e poi diventeranno una band interamente strumentale registrando il terzo ed ultimo album in studio The Storm con Lunny e O’Neill come membri trainanti. Nel 2007 si sono riformati con una parte della line-up originale (Lunny, Spillane, O’Neal, Donald, il secondo batterista Matt Kelleghan) insieme a Anthony Drennan (chitarra), Graham Henderson (tastiere) e Kevin Glackin (fiddle). Questa formazione ha registrato un CD-DVD intitolato Live In Dublin che mostra il ritorno trionfale del gruppo nello storico Vicar Street.
Anima folk sensibile e sofisticata, Kate Stables con il suo progetto This Is The Kit si è saputa ritagliare uno spazio importante e i favori di altri artisti come Sharon Van Etten, John Parish o Aaron Dessner dei National. Proprio poco tempo dopo aver partecipato all’album dei National I Am Easy To Find, la Stables insieme ai suoi collaboratori (Neil Smith alla chitarra, Rozi Leyden al basso, Jamie Whitby-Coles alla batteria e Jesse D Vernon a chitarra e piano) hanno testato le nuove tracce in un casolare della campagna Gallese per poi pubblicare Off Off On, il quinto album della band dove arrangiamenti si sono fatti più corposi grazie al banjo della Stables e ad una misurata sezione fiati.
Dopo un altro riuscito lavoro in studio intitolato Careful of Your Keepers, la Stables ha condiviso in digitale il suo album dal vivo Live at The Minack Theatre, pubblicato per la prima volta in aprile come vinile in edizione limitata per il Record Store Day nel Regno Unito. È stato registrato il 19 maggio 2023, quando i This Is The Kit hanno suonato un doppio concerto nello splendido Minack Theatre in Cornovaglia. Il disco mostra la band (che include una sezione fiati di tre elementi) in piena forma di fronte a un pubblico entusiasta. Ascoltate “Slider” per credere. Kate Stables ha detto dello spettacolo: “Il nostro amico Will ha avuto l’idea un po’ ambiziosa di prenotarci al Minack Theatre. È un incredibile anfiteatro all’aperto sul bordo di una scogliera della Cornovaglia che si affaccia sul mare e quindi ci è sembrata un’idea fantastica fare un concerto lì. Ne è venuta fuori una giornata di musica in un ambiente davvero emozionante, che in qualche modo abbiamo avuto l’ intuizione di registrare”.
Iain David McGeachy, meglio conosciuto come John Martyn, è stato un meraviglioso songwriter dall’incredibile talento vocale, capace di spaziare dal folk al blues, dal jazz al soul. Il suo talento, purtroppo, era pari all’amore che provava per la bottiglia, situazione aggravata dal fatto che i suoi primi album, sebbene siano stati rivalutati eccome dalla critica, sono stati davvero un fiasco commerciale. Il successo, come spesso purtroppo avviene, lo trovò parecchi anni dopo, convertendosi al pop di classe. Nel 1972, Martyn ha pubblicato Bless The Weather, album dove iniziava lentamente a distaccarsi dal folk tradizionale, sperimentando nuove tecniche vocali e arrangiamenti più ricchi. Di li a poco pubblicherà i suoi due capolavori (Solid Air e Inside Out) nel giro di pochi mesi nel 1973.
Solid Air, il suo quarto album in studio, è stato registrato in otto giorni e presenta contributi strumentali del bassista Danny Thompson e di membri dei Fairport Convention come Dave Mattacks, Dave Pegg e Richard Thompson, oltre al grande tastierista John “Rabbit” Bundrick. “Solid Air”, la title track, è stata da Martyn al suo grande amico Nick Drake, che sarebbe morto per overdose di antidepressivi 18 mesi dopo l’uscita dell’album. Martyn disse del brano: ”È stato scritto per un mio amico, è stato creato con motivazioni molto chiare, e ne sono molto soddisfatto, per varie ragioni. Ha un messaggio molto semplice, ma dovrete capirlo da soli”. Il disco scorre magnificamente e mostra l’intero spettro della musica che John Martyn aveva a disposizione nelle sue dita e nella sua voce.
Guardi una foto di Fiona Apple, ascolti le sue canzoni, e pensi “una così potrebbe avere tutto il music business ai suoi piedi!”, ed invece no. La talentuosa e bella Fiona è quanto di più distante possa esserci dal mondo rutilante del red carpet. Una ragazza con un’adolescenza travagliata e difficile alle spalle, che ha saputo reggere l’urto di un avvenimento che non può non lasciare il segno nella vita di chiunque con grande personalità. Dopo i primi due album che avevano riscosso un gran successo sia di pubblico che di critica, nel 2003 la Apple aveva registrato insieme a Jon Brion il terzo Extraordinary Machine. Ma la Epic Records, che si aspettava un elevato riscontro, non aveva gradito la scrittura del disco definita “poco commerciale”.
L’artista, sicura dei propri mezzi ed incurante della multinazionale che aveva bloccato la produzione, distribuì lo stesso gratuitamente l’album in rete, anche se la maggior parte delle canzoni ufficialmente vennero pubblicate quasi di nascosto. I fans della Apple protestarono sotto la sede della Sony per una settimana in maniera fragorosa. Il risultato fu che la Apple registrò nuovamente l’album che uscì ufficialmente sul mercato due anni dopo, nell’Ottobre 2005. Nel 2012 è uscito il suo quarto lavoro dal titolo lunghissimo: The Idler Wheel Is Wiser Than The Driver Of The Screw And Whipping Cords Will Serve You More Than Ropes Will Ever Do. Uno sfaccettato e meraviglioso diario personale, che mostra la maturità di un’artista di straordinaria sensibilità e talento, come dimostra la splendida “Werewolf”. Otto anni dopo Fetch The Bolt Cutters ha confermato di nuovo tutto il talento della Apple.
Restiamo nel solco del cantautorato al femminile. Nonostante sia rimasta sempre lontana dalle luci dei riflettori, Laura Veirs negli ultimi anni si è dimostrata autrice sempre ispirata ed estremamente attiva. Dopo aver esordito nel 1999, la Veirs ha pubblicato 11 album in studio, creando una sua personale etichetta, la Raven Marching Band, anche se i suoi dischi sono distribuiti dalla Bella Union in Europa. Un’autrice di rara eleganza, la cui scrittura è sempre misurata e sensibile, ogni suo album raccoglie la sufficienza piena e talvolta va anche oltre. Il suo album del 2020, My Echo, ha esplorato con delicatezza e sensibilità il divorzio dal batterista/produttore/marito Tucker Martine.
Warp And Weft è il suo nono album in studio, uscito nel 2013 dove, condotta proprio da Martine, ha esplorato tra folk, indie rock e country la serenità della sua seconda maternità. L’ennesima prova superlativa di un’artista non troppo celebrata come avviene per alcune sue colleghe ma che mostra disco dopo disco un livello qualitativo elevatissimo. Al disco hanno collaborato KD Lang, Jim James dei My Morning Jacket e Neko Case, capaci di impreziosire le sue notevoli doti narrative. La meraviglia di “Dorothy Of The Island” è perfetta nel fotografare un disco molto più che buono. L’ultimo album, il tredicesimo, della Veirs è uscito lo scorso anno e si intitola Phone Orphans.
Parliamo adesso di un’etichetta britannica che si chiamava Sarah Records. Creata a Bristol nel 1987, le sue pubblicazioni hanno accompagnato i nostri sogni più romantici, popolato la parte più pop e malinconica del nostro cuore, abbracciato le nostre lacrime e le nostre gioie. Un mondo sognante ed incantevole popolato da band di culto come The Orchids, Blueboy, Brighter, The Field Mice e molte altre. Poco importa che il sogno creato dai visionari Clare Wadd e Matt Haynes sia in qualche modo finito nel 1995, il mondo della Sarah Records sarà sempre presente nel nostro immaginario. Bob Wratten era il leader proprio dei The Field Mice, gruppo nato come duo insieme al bassista Michael Hiscock, suo compagno di scuola nel sud di Londra.
Dopo poco ai due si aggiunsero Harvey Williams (aka Another Sunny Day) alla chitarra, Mark Dobson alla batteria e Anne Mari Davies alla voce, alle tastiere e alle chitarre. In For Keeps, ultimo album (e unico sulla lunga distanza) dei Field Mice, troviamo tutte le coordinate che hanno reso celebre la Sarah Records, un indie-pop malinconico e romantico così lontano dalle logiche di mercato, dai ritornelli appiccicosi al punto giusto come la “Of The Perfect Kind” inserita nel podcast. La band chiuse i battenti in contemporanea al fallimento della Sarah Records e alla fine della storia d’amore del povero Bob con la sua partner nella vita e sul palco Anne Mari Davies. Wratten nel 1996, con il cuore spezzato, formerà una nuova entità chiamata Trembling Blue Stars, affidandola all’etichetta che ha preso il testimone e l’eredità della Sarah, quella Shinkansen Recordings voluta da Matt Haynes, proprio uno dei fondatori della label di culto di Bristol.
Lei è semplicemente una delle grandi signore della musica d’autore americana. Nata a Chicago ma trasferitasi da giovane a Los Angeles, Rickie Lee Jones si è esibita nei folk club locali prima dell’incontro con Tom Waits nel 1977 che rimase talmente stregato dalla sua abilità e personalità da diventare il suo pigmalione e intraprendere con lei una relazione sentimentale che durerà tre anni. Ma Tom Waits non è stato certamente l’unico ad accorgersi del suo talento. Anche il capo della Warner Bros, Lenny Waronker, rimase talmente colpito dalla giovane cantautrice da lanciarla nell’olimpo della canzone d’autore americana producendo nel 1979 il suo straordinario album di debutto omonimo.
Nell’album intitolato semplicemente Rickie Lee Jones, la cantautrice di Chicago, aiutata da una serie di grandi turnisti, tra cui Randy Newman, Steve Gadd e Dr. John, mette in mostra tutto il suo spettro esecutivo, composto non solo da ballate intrise di blues e country rock ma anche di incursioni nel jazz, nel soul e rhythm and blues. Il tutto condito da grandi performance vocali e da momenti di drammatica meraviglia come la “The Last Chance Texaco” capace, all’ennesimo ascolto, di spargere brividi dappertutto.
Un silenzio durato 30 anni. Un oblio in cui il cantautore inglese Bill Fay era caduto dal 1971, anno in cui veniva pubblicato il suo secondo album, Time Of The Last Persecution, stroncato dalla critica che di fatto relegherà il già depresso artista ai margini del music business. Anche nel silenzio, Fay resterà nel corso degli anni artista di culto, citato spesso da personaggi come David Tibet (Current 93), Jim O’Rourke e Jeff Tweedy dei Wilco, che ha spesso cantato nei suoi concerti canzoni di Fay come “Be Not So Fearful”, inserendola anche nel film documentario I Am Trying to Break Your Heart: A Film About Wilco. Un giorno il produttore statunitense Joshua Henry ha preso il coraggio a due mani, ha alzato la cornetta raccontando al quasi settantenne Fay come, grazie al papà si è innamorato delle sue splendide canzoni e invitandolo a registrare nuova musica.
Fortunatamente Bill Fay si è convinto della bontà del progetto, accettandolo. Il risultato è questo Life Is People, album che ferma il tempo, lo congela in una dimensione dove esiste solo il pianoforte e la voce forte e calda del ritrovato protagonista, accompagnato da splendidi musicisti tra cui proprio Jeff Tweedy. E Fay lo ringrazia da par suo con una commovente interpretazione del classico dei Wilco “Jesus, Etc.”. Arrangiamenti raffinati, voce emozionante, poesia autentica, “The Healing Day” racconta tutta la dolcezza e la bellezza di un ritrovamento prodigioso chiudendo, come meglio non si potrebbe, il podcast e la mia stagione su RadioRock.to The Original.
Un grazie speciale va, come sempre, a Franz Andreani per la sua passione, la gestione di questa banda di pazzi e per la splendida riorganizzazione del sito già attiva da qualche anno. A cambiare non è stata solo la versione grafica del sito, ma anche la “filosofia” della podradio, con le rubriche che vanno ad integrarsi nella programmazione regolare sotto l’hashtag #everydaypodcast. Sulla nostra pagina Facebook troverete quotidianamente ogni upload del sito e, ormai da tempo, è attivo anche lo splendido canale YouTube della Radio, una nuova formula senza interruzioni ne spot per ascoltare la vostra-nostra musica preferita. Iscrivetevi numerosi, vi aspettiamo!
A tutti voi l’augurio di buone vacanze. Ci riascoltiamo il 13 settembre.
Il tutto sarà, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
Intanto se volete potete sfruttare la parte riservata ai commenti qui sotto per darmi suggerimenti, criticare (perché no), o proporre nuove storie musicali. Mi farebbe estremamente piacere riuscire a coinvolgervi nella programmazione e nello sviluppo del mio sito web.
Per suggerimenti e proposte, scrivetemi senza problemi all’indirizzo e-mail stefano@stefanosantoni14.it.
Potete ascoltare o scaricare il podcast anche dal sito di Radio Rock The Original cliccando sulla barra qui sotto.
Buon Ascolto
TRACKLIST
01. THE DIRTBOMBS: Chains Of Love da ‘Ultraglide In Black’ (2001 – In The Red Recordings)
02. STEVE WYNN: Make It Right da ‘Make It Right’ (2024 – Fire Records)
03. R.E.M.: World Leader Pretend da ‘Green’ (1988 – Warner Bros. Records)
04. GOAT GIRL: Play It Down da ‘Below The Waste’ (2024 – Rough Trade)
05. THIN LIZZY: The Sun Goes Down da ‘Life Live’ (1983 – Vertigo)
06. LANKUM: On A Monday Morning da ‘Live In Dublin’ (2024 – Rough Trade)
07. MOVING HEARTS: Remember The Brave Ones da ‘Dark End Of The Street’ (1982 – WEA)
08. THIS IS THE KIT: Slider da ‘Live At The Minack Theatre’ (2024 – Rough Trade)
09. JOHN MARTYN: Solid Air da ‘Solid Air’ (1973 – Island Records)
10. FIONA APPLE: Werewolf da ‘The Idler Wheel Is Wiser Than The Driver Of The Screw And Whipping Cords Will Serve You More Than Ropes Will Ever Do’ (2012 – Clean State / Epic)
11. LAURA VEIRS: Dorothy Of The Island da ‘Warp And Weft’ (2013 – Bella Union)
12. THE FIELD MICE: Of The Perfect Kind da ‘For Keeps’ (1979 – Sarah Records)
13. ‘RICKIE LEE JONES: The Last Chance Texaco da ‘Rickie Lee Jones’ (1979 – Warner Bros. Records)
14. BILL FAY: The Healing Day da ‘Life Is People’ (2012 – Dead Oceans)
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