Ecco il primo podcast di Sounds & Grooves della 19° stagione di RadioRock.TO The Original
Una buona metà della prima avventura stagionale è dedicata ad alcuni degli album più interessanti usciti negli ultimi mesi
A pensarci è incredibile che siano passati 19 anni da quando questa folle ma fantastica avventura chiamata Radiorock.to The Original è iniziata. Folle perché ormai la parola podcast è entrata di diritto nel lessico comune e sono migliaia i podcast musicali, di attualità o di qualsiasi altro argomento a disposizione di chiunque. Ma diciannove anni fa è stata una vera e propria scommessa di un manipolo di matti inebriati dalla passione per la musica e per una volontà di rendere facilmente fruibile un palinsesto che potesse parlare prevalentemente di rock ma anche di musica di qualità a 360 gradi. La nostra motivazione è stata quella di dare un segnale di continuità con quella meravigliosa radio del passato che molti custodiscono nel cuore e a cui ho provato a dare un piccolo contributo dal 1991 al 2000. Tra il 1996 ed il 2000 molti di noi hanno lasciato progressivamente la radio in FM al suo destino ma l’idea non poteva essere replicata nell’etere visti i costi e la situazione legislativa dell’FM dell’epoca, ma fortunatamente la passione e la voglia di fare radio, la voglia di ascoltare e di condividere la musica di qualità, nonostante tutto, non ci è mai passata.
Questa creatura continua orgogliosamente a remare controcorrente, cercando quella libertà in musica che nell’etere è ormai diventata una mosca bianca, ed esprimendo con forza la passione per la condivisione, per la ricerca, per l’approfondimento. Non dobbiamo aderire ad una cieca linea editoriale che ormai spinge esclusivamente il pulsante play dei servizi di streaming, ma ci lasciamo guidare semplicemente dal nostro cuore e dalla nostra passione. Fulvio Savagnone, Marco Artico, Giampiero Crisanti, Franz Andreani, Flavia Cardinali, Francesco Cauli, Ivan Di Maro, Massimo Santori aka Moonchild ed io proveremo ogni giorno a coinvolgervi con i nostri podcast regolari e con le rubriche tematiche di approfondimento, sperando di farvi sentire sempre di più parte di questa fantastica avventura.
Una buona metà del primo podcast stagionale è dedicata ad alcuni degli album più interessanti usciti negli ultimi mesi: dal nuovo esplosivo Oneida al ritorno dei Seefeel che aggiornano il loro suono in bilico tra elettronica e shoegaze, dal nuovo attesissimo (e splendido) David Lance Callahan al discusso quarto lavoro dei Fontaines D.C., dalla conferma del talento cristallino di Marina Allen al suono multiforme di Chris Corsano, passando per il ritorno dei Dirty Three. Ma troverete anche le scariche elettriche degli Unwound, un ricordo di Martin Phillips dei The Chills, la trascinante sei corde di Johnny Marr, il ripescaggio dall’oblio degli onirici Larmousse, il post-rock britannico dei Laika, i sottovalutati James e il garage psichedelico dei The Mystery Lights. Il tutto, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
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Iniziamo il primo podcast della nuova stagione con il ritorno di una delle band cardine di un certo tipo di avant-rock. Due anni fa Fat Bobby Matador (chitarra, organo e voce, Kid Millions (batteria), Shahin Motia (chitarra), Hanoi Jane (chitarra e basso) e Barry London (synth e organo) erano tornati in maniera prepotente a far risuonare il nome degli Oneida con un album trascinante come Success, capace, come sempre, di entrare facilmente nella mia playlist annuale. E se quel disco era stato inciso quasi per gioco, sfruttando la voglia di suonare di nuovo insieme dopo il lungo blocco dovuto all’emergenza pandemica, stavolta è stato relativamente più calcolato.
Fat Bobby Matador, l’unico dei cinque a vivere a Boston, ha abbozzato alcune canzoni e le ha spedite agli altri quattro nelle loro residenze di NYC. Nemmeno a dirlo, le tracce erano talmente buone che sono state completate, rifinite e confezionate in un nuovo lavoro intitolato Expensive Air. Il “solito” compendio meraviglioso ed irresistibile di punk, garage, kraut, beat e psichedelia, che da qualcuno viene tacciato di “compitino fatto da un gruppo bollito” ma francamente a me fa tutt’altro effetto. 34 minuti di tensione altissima creati da un gruppo che (fortunatamente per noi) non accenna a cali di creatività. Provate a non saltare dalla sedia ascoltando l’apertura di “Reason To Hide” e poi ditemi se gli Oneida non hanno sfornato un altro grande disco.
Gli Unwound sono stati dei veri e propri giganti dell’hardcore americano degli anni ’90. I riff granitici e le soluzioni ricche di spasmi e di lacerante elettricità li hanno resi tra le migliori band del genere e non solo. Justin Trosper, voce e chitarra, Vern Rumsey, basso, e Sarah Lund, batteria già nel 1993 con il primo vero album, Fake Train, avevano gettato le basi per una carriera sfolgorante, trovando forse la piena maturità con il successivo New Plastic Ideas. Il debutto mostra un gruppo già in grado di mostrare un’incredibile capacità di scrittura che rimarrà ad un livello qualitativamente altissimo fino alla fine della loro parabola artistica.
L’album si snoda tra grandi scariche nevrotiche e splendide soluzioni armoniche che non rinunciano alla potenza espressiva come in questa “Nervous Energy”. Qualche anno fa la Numero Group, etichetta specializzata in preziosi recuperi, ha raccolto tutti gli album (di complessa reperibilità e mai ristampati in un’epoca in cui viene ristampato praticamente ogni cosa) della band in quattro imperdibili cofanetti, integrando il tutto con un live inedito che ne racchiude l’incredibile energia. Lo scorso anno Justin Trosper, Sara Lund e Jared Warren sono tornati a sorpresa ad esibirsi on stage. Warren è il nuovo bassista della storica formazione hardcore americana, dopo la prematura scomparsa, quasi tre anni fa, del membro fondatore Vern Rumsey deceduto a soli 47 anni in circostanze mai del tutto chiarite.
Ho parlato più di una volta (perdonatemi…) della via britannica al post-rock e soprattutto dei gruppi dell’etichetta di riferimento dell’epoca, la Too Pure, in molti casi mi sono soffermato sui Moonshake. La band formata da David Callahan e Margaret Fiedler aveva trovato un perfetto equilibrio pur nella diversità dell’approccio alla materia sonora, la Fiedler più propensa a creare brani eterei e di atmosfera, Callahan a preferire un tessuto urbano più duro e spigoloso. Erano due facce della stessa medaglia, l’amore per le stesse bands (Can, My Bloody Valentine, PIL, Kraftwerk) espresso in maniera completamente differente. Un incontro esplosivo, una collisione tanto inevitabile quanto evocativa. Ma dopo l’uscita di Eva Luna questo equilibrio si spezza.
Callahan era rimasto con i Moonshake mentre la Fiedler insieme al bassista John Frenett e al produttore Guy Fixsen, aveva dato vita ai Laika, band che continuerà sul binario intrapreso dai Moonshake accentuando soprattutto la vena melodica e la percussività psichedelica. Dopo l’esordio Silver Apples Of The Moon la Fiedler e Fixsen, orfani di Frenett, fanno salire a bordo Rob Ellis (PJ Harvey) per il secondo Sounds Of The Satellites (1997). Ma mentre la band di Callahan dopo essersi infilati in un suono scuro e torbido si erano praticamente sciolti, i Laika hanno scelto un approccio diverso, portandoci in una sorta di poliritmica foresta tropicale disegnata con colori pastello, condotti da un insistente e fluido basso dub. Un mondo dove convivono anche splendidi echi di Can, come dimostra la “Almost Sleeping” inserita in scaletta.
Proprio poco fa abbiamo parlato su queste pagine dei Moonshake e della scena post-rock britannica. David Lance Callahan è un personaggio ed un musicista straordinario, fondatore a metà anni ’80 dei Wolfhounds che parteciparono a quella compilation iconica chiamata C86 e, successivamente, creatore della sigla Moonshake che, insieme ad altre band della scuderia Too Pure, hanno contribuito con fantasia energica a creare una caleidoscopica scena post-rock in Gran Bretagna. Dopo aver riformato con successo qualche anno fa i Wolfhounds, la pandemia ha portato David a metter mano a molti brani che aveva preparato e a pubblicare, dopo oltre 30 anni di attività, i suoi primi, splendidi album solista: English Primitive I e II che hanno raggiunto la vetta delle mie playlist annuali.
Molto atteso quindi era il terzo capitolo della sua carriera solista, un album intitolato Down To The Marshes che verrà pubblicato solo a fine settembre ma che (grazie allo stesso Callahan) ho avuto la fortuna di ascoltare in anteprima. Il disco, registrato a Valencia con il fido collaboratore Daren Garratt (Pram, The Fall, The Nightingales), mostra i consueti elementi di musica folk, africana occidentale, blues, indiana e post-punk, ma amplia la tavolozza sonora con l’aggiunta di una sezione di fiati e di un quartetto d’archi a sottolinearne le melodie. I testi esplorano come sempre lo stato attuale profondamente preoccupante del Regno Unito (e del mondo) ma in questo caso la sua malinconica visione del mondo sempre leggermente più ottimista del solito. La splendida “Robin Reliant” ci mostra il talento e lo stato di grazia di uno degli artisti più personali e creativi del Regno Unito, capace di creare un suo genere con le sue regole.
Strana la storia dei James, gruppo di Manchester attivissimo tra gli ’80 e i ’90, tra gli artefici della rinascita del pop rock britannico, capaci di vendere 30 milioni di dischi ma di essere ricordati da pochi, anche se dal 2007 sono di nuovo in attività. Capitanati da un frontman atipico come Tim Booth, nel 1993 reduci da un tour acustico negli USA di spalla a Neil Young, tornano in patria e scoprono che finalmente Brian Eno ha accettato la loro proposta di produrli. Durante le registrazioni di Laid, Eno riuscirà ad asciugare il loro suono senza snaturarli, ed il risultato sarà assolutamente notevole.
All’alba del brit-pop che spazzerà via quasi tutto, Booth e compagni si trovano in un vero e proprio stato di grazia: le vette emotive di “Sometimes”, “Say Something”, della sognante “P.S.” e della splendida “Laid” (inserita nella colonna sonora della terza stagione della serie The Bear) che presento in questo podcast purtroppo non verranno più replicate. Nessuno mi toglie dalla mente che se Booth avesse avuto un quarto dell’appeal commerciale di un Bono Vox, non ci sarebbero stati dubbi nell’inserire questo disco tra le gemme del pop inglese.
Adesso vado a camminare su un terreno minato perché spesso mi ostino a cercare di capire perché i meccanismi social portano spesso a ricoprire di insulti un gruppo o un artista teoricamente di nicchia che hanno avuto un consenso al di fuori dell’ordinario. Il che potrebbe essere un sacrosanto “diritto alla critica” se non fosse che a volte si prende come scusa banale il fatto (alquanto soggettivo) che l’artista o il gruppo “non dice niente di nuovo”. Come se il panorama musicale mondiale, mai così terribilmente frammentato ed inutilmente vasto, fosse pieno di artisti che trovano una via mai percorsa da altri. Andiamo quindi a trovare uno dei gruppi più presi di mira sui vari social. A scanso di equivoci, non sopporto ne il fare polemica a priori ne l’eccessivo entusiasmo, nei confronti dei Fontaines D.C. sembra che manchi davvero una giusta via di mezzo. E se sono stati contestati per essere “sciattamente derivativi” dopo l’uscita dell’ottimo Skinty Fia figuriamoci adesso con l’uscita del quarto lavoro in studio intitolato Romance che cambia le carte in tavola.
Non più di un anno fa scrivevo: “Io, nel mio piccolo, continuo a dire che la loro sensibilità e sfrontatezza, il loro saper portare il passato nella modernità gli sta facendo fare un percorso importante e li potrà far andare lontano. O almeno é quello che ci auguriamo, con la speranza che non si perdano per strada come altri irlandesi prima di loro.” Devo ammettere che il primo ascolto di Romance mi ha fatto propendere per un gruppo che, persa in parte la loro preponderante irishness, avesse anche perso la bussola che gli aveva permesso di scrivere canzoni mature e messe a fuoco con personalità. Cambio di look, di etichetta, di produttore, un orizzonte musicale più ampio e variegato e in un certo senso più accessibile. La decadenza romantica e il ritornello di “In The Modern World” però, trova uno spiraglio di speranza.
Un suono direi inconfondibile, quello che esce dalla sei corde di John Martin Maher, conosciuto da tutti come Johnny Marr. Nato ad Ardwick, un distretto di Manchester, ha imparato a suonare la chitarra all’età di 13 anni, sotto la supervisione di Billy Duffy, chitarrista dei The Cult, allora suo vicino di casa, del quale spesso e volentieri assisteva alle prove col suo gruppo e tramite il quale ebbe anche modo di conoscere svariati musicisti della scena emergente mancuniana. Il chitarrista cambiò il suo nome per evitare di essere confuso con John Maher, batterista dei Buzzcocks.
Naturalmente il suo nome è associato ad una delle formazioni più popolari del’indie pop britannico degli anni ’80 come The Smiths insieme a Morrissey (voce), Andy Rourke (basso) e Mike Joyce (batteria). Proprio il suono della sua chitarra (insieme alla timbrica del suo non proprio simpaticissimo sodale) sarà caratteristico di un’intera epoca ed è tuttora facilmente riconoscibile. Dopo la fine degli Smiths nel 1987, Marr ha registrato e suonato dal vivo con i The The, ed ha formato gli Electronic con Bernard Sumner dei New Order. Dopo numerose collaborazioni con altri artisti nel 2013 è uscito il suo primo album solista intitolato The Messenger da cui ho inserito in scaletta la trascinante “New Town Velocity”.il cui ritornello è molto simile a “Bug” dell’ultimo Fontaines D.C.
Loro sono una band che è passata dall’assolata California alla Grande Mela per incidere nei fantastici studi analogici della Daptone Records, l’etichetta che ha rilanciato in grande stile la musica soul. The Mystery Lights sono la prima band messa sotto contratto dalla Wick Records, la sussidiaria rock della Daptone, che promette di fare la stessa cosa e di ottenere i medesimi obiettivi. I Lights’ si sono gettati a cuore aperto sull’attitudine psichedelica e garage del passato rivivendola con intensa passionalità. Il gruppo capitanato da Mike Brandon sa come citare gli espliciti riferimenti senza essere mai derivativo, togliendo la polvere dallo scrigno dei ricordi con grande onestà intellettuale.
Se amate le band garage degli anni ’60 e se certi fuzz chitarristici ed aperture di organo ancora vi fanno palpitare il cuore non perdeteli assolutamente. Il suono immediato e viscerale di una delle prime canzone incise dalla band,“21 & Counting”, ci trascina in un vortice temporale che fa venire inevitabilmente in mente quei gruppi degli anni ’60 e ’70 che hanno saputo unire l’istintività garage alla dilatazione psichedelica. Dopo cinque anni di silenzio il gruppo, che nel frattempo si è spostato di nuovo dalla California a Brooklyn, NY, sta per pubblicare Purgatory, il terzo album in studio.
Durante gli anni ’80 i The Chills non sono stati solamente uno dei gruppi di punta del rock della Nuova Zelanda, ma avevano anche scatenato un movimento estremamente interessante di gruppi ed etichette: il cosiddetto Dunedin Sound. La band ha sempre avuto come leader Martin Phillipps, con la sua chitarra planante e la voce cristallina. Un gruppo che ha avuto una storia travagliata i The Chills, con Phillips come unico punto fermo nonostante i periodi tormentati che lo hanno costretto a fermare il suo progetto per moltissimi anni. Nel 2015, dopo aver risolto i problemi di droghe e depressione, Phillips ha festeggiato i 35 anni di vita della sua sigla decidendo di tornare ad incidere il primo album di materiale nuovo dopo ben 19 anni di silenzio.
Silver Bullets è un album che ce lo aveva restituito in grandissima forma. Nei solchi del disco si mescolavano l’approccio naif dei primi anni 80 con le mature riflessioni dovute al superamento dei suoi problemi personali. Era evidente il suo smisurato talento nella creazioni di un impianto melodico e di creazioni armoniche assolutamente trascinanti e strabilianti. Ascoltando “Warm Waveform” molti dovrebbero prendere appunti sul come è possibile costruire canzoni dalle melodie e dinamiche perfette. Lo scorso anno era uscito The Chills: The Triumph & Tragedy of Martin Phillipps, un documentario sulla band neozelandese realizzato grazie ad un crowdfunding dove veniva narrata in prima persona dalo stesso Phillipps la storia di un musicista che è passato dal grande successo a decenni di debiti e dipendenze. Il ritorno alla musica ed il faccia a faccia con i suoi demoni speravo gli avessero permesso di riprendersi anche fisicamente, per questo la sua morte improvvisa a 61 anni a fine luglio è stato un colpo del destino davvero difficile da accettare. Ma le sue strabilianti melodie rimarranno indelebili.
Cresciuta nel New Jersey, sulla costa orientale, e trasferitasi poi in California all’età di dieci anni, la formazione musicale primaria di Marina Allen è stata cantare nelle chiese della comunità e nei cori scolastici. La sua passione più profonda è sempre stata per le cantanti che, a suo dire, sanno cantare davvero, da Karen Dalton a Meredith Monk. Il suo talento e la sua voce sono davvero paragonabili ai suoi modelli canori e il terzo lavoro intitolato Eight Pointed Star ci mostra una maturità compositiva e vocale straordinaria e la capacità di avvicinarsi alle vette della tradizione americana. “Si può soffrire di vertigini volendo essere in un posto dove non si è. Il mio primo album, Candlepower, aveva un’energia scintillante e lo ricordo con molto affetto. Con Eight-Pointed Star sto cercando di sfruttare di nuovo quella mente da principiante, pur avendo le cicatrici e la saggezza che derivano dal mordere i frutti della conoscenza”.
La sua intensa e vivida capacità di scrivere ed interpretare canzoni è evidente in questo splendido album. Il singolo principale “Red Cloud” parla della storia della famiglia di sua madre nelle praterie del Nebraska, che prende il nome dalla cittadina e dal luogo di nascita della scrittrice Willa Cather (i cui scritti sull’arte del coming-of-age hanno ispirato Allen a farsi tatuare un’allodola, all’età di 17 anni). Le grandi pianure che dipinge sono aride e desolate, ma fertili nella sua mente. È il luogo da cui ha origine il suo senso di identità; qui, seleziona storie da panorami onirici, costruendo le sue false storie, con la verità che si trova da qualche parte nel mezzo.
Se Warren Ellis ed il suo violino adesso sono associati senza dubbio ai Bad Seeds di Nick Cave, non va mai dimenticato che insieme a Mick Turner (chitarra) e Jim White, ha dato vita ad un gruppo che per 15 anni ha mostrato un nuovo approccio sonoro estremamente riconoscibile. I Dirty Three sono nati a Melbourne, Australia, e si sono messi in luce già dall’esordio di Sad & Dangerous targato 1994, come un gruppo capace di unire il folk rock e la psichedelia alla musica da camera. Il tutto con una estrema malinconia di fondo. Il segno distintivo del gruppo è senza ombra di dubbio il violino di Ellis che monta un pick-up chitarristico per poterne sfruttare i riverberi del feedback.
Dopo 12 anni di silenzio, Warren Ellis, Mick Turner e Jim White hanno appena pubblicato un nuovo album intitolato Love Changes Everything. Riemersi ancora una volta dalle onde incessanti che si infrangono sulla nostre fragile nave del tempo (alla deriva nell’oceano eterno e che sta imbarcando acqua), i Dirty Three sono finalmente tornati. Per il loro primo album da Toward The Low Sun del 2012, hanno preso un volo, si sono riuniti e hanno cominciato a suonare. Il disco è stato registrato agli Headgap Studios di Melbourne, Australia, mixato e prodotto da Nick Huggins.“Love Changes Everything II”, approda a riva dopo una tempesta furiosa: il sole splende sui bordi affilati della viola di Warren Ellis e cavalca le evoluzioni della chitarra di Mick Turner e della batteria di Jim White. La potenza del loro power trio batteria-chitarra-violino-o-viola è rimasta intatta negli anni.
Avete presente la famosa rubrica “Dischi che non ricordavo di avere” vero? Beh, stavolta la macchina del tempo è stata messa in moto da un post su Facebook da parte di una vecchia conoscenza di RadioRock.TO come Massimo Di Roma. Il post sollecitava l’ascolto di un album uscito ben 24 anni fa intitolato Larmousse. A quel punto una rotellina arrugginita della mia memoria a ripreso a muoversi lentamente e sono andato a prendere dallo scaffale questo disco, unico pubblicato dalla band omonima, che presenta più di una somiglianza con lo straordinario Hex dei Bark Psychosis. Note di copertina, estremamente scarne, notizie nell’infinito archivio della rete, quasi zero.
Sembrerebbe quasi che gli scozzesi Cliff Henderson e Scott Wallace, dopo aver registrato questo disco a Glasgow nel maggio-giugno del 1999 siano stati inghiottiti da qualche buco nero. Persino Discogs ne ha perse le tracce, si sa solo che l’album è stato mixato da quel Guy Fixsen di cui abbiamo parlato ad inizio podcast in quanto produttore-musicista nei Laika. In realtà l’album è splendido, paesaggi sonori onirici, pause sapienti e funzionali, piccole tessiture elettroniche ad increspare un suono notturno, dilatato e affascinante come dimostra la “Relics & Artefacts” inserita in scaletta.
All’inizio degli anni ’90 il londinese Mark Clifford entusiasta ricercatore musicale, ha creato i Seefeel insieme a Daren Seymour (basso), Justin Fletcher (batteria ed elettronica), e Sarah Peacock (voce e chitarra). Il gruppo, nonostante avesse le sembianze di un tipico quartetto rock, amava giocare con i suoni trasformandosi da shoegaze ad ambient, da noise a dub, tra Aphex Twin e i My Bloody Valentine. Clifford mandò un demo fu inviato a tre case discografiche e allo storico John Peel della BBC Radio 1 che si dimostrò entusiasta e li invitò per una delle sue memorabili sessions. Poco dopo, una delle etichette a cui era stato inviato il demo, la Too Pure, contattò la band mettendoli sotto contratto.
Come detto in precedenza, la Too Pure è stata l’etichetta di riferimento di quel periodo storico, fondata a Londra nel 1990 da Richard Roberts e Paul Cox e salita improvvisamente alla ribalta grazie alla pubblicazione di Dry, l’album di esordio di PJ Harvey. La label londinese era diventata in breve tempo il punto di riferimento per gli ascoltatori e gli addetti ai lavori meno allineati e usuali. L’album di esordio del gruppo si intitolava Quique, ed è stato uno degli “Album dell’anno” del Melody Maker grazie ad una recensione proprio di Simon Reynolds che ne apprezzava il movimento ondivago tra shoegaze ed elettronica. Subito dopo il gruppo è stato messo sotto contratto dalla Warp, la prima band “con le chitarre” a far parte dell’etichetta. Dopo tanti anni la musica dei Seefeel continua a brillare, la loro estetica ambient-motorik noise-pop è stata aggiornata ai giorni nostri con un mini EP intitolato Everything Squared pubblicato da pochissimo dopo ben 14 anni di silenzio. “Sky Hooks” i conferma i due superstiti Mark Clifford e Sarah Peacock come maestri nel costruire atmosfere impareggiabili
Personaggio notissimo per chi frequenta l’ambiente legato all’improvvisazione, il batterista e polistrumentista Chris Corsano si è sempre distinto non solo per il suo talento ma anche per la sua visione musicale ad ampio spettro. Corsano ha suonato con il sassofonista Paul Flaherty per più di vent’anni, ha fatto parte dei Rangda (trio con Sir Richard Bishop e Ben Chasny), ed ha collaborato nel corso della sua carriera con Joe McPhee, Dredd Foole, Thurston Moore, Jim O’Rourke, Bill Orcutt, Bill Nace, Nels Cline, Evan Parker, Björk e dozzine di altri musicisti nei progetti più disparati. Tra i circa 150 album a cui ha contribuito il versatile musicista classe 1975 negli ultimi 25 anni, solo sei sono stati accreditati al solo Chris, il che rende la pubblicazione di questo The Key (Became The Important Thing [& Then Just Faded Away]) un raro caso in cui è riuscito ad elaborare in profondità la propria visione musicale.
Un lavoro che porta a compimento l’unione tra l’improvvisazione libera e il rumorismo con esperimenti acustici e idee di riff hard rock e post-punk. Sei brani per poco più di mezz’ora di musica che non lasciano certamente indifferenti, tre tracce dove Corsano agisce come una vera band grazie a sovraincisioni multitraccia di chitarra-basso-batteria-elettronica e altre tre dove invece troviamo percussioni soliste improvvisate dal vivo in studio. Un processo esplorativo legato quasi esclusivamente a ridefinire i confini del suo complesso drumming, già nella “I Don’t Have Missions” che chiude il podcast, dove il linguaggio del funambolico batterista si apre a nuove avventurose ricerche musicali che spaziano dalla psichedelia al tipico motorik con sfumature garage.
Un grazie speciale va, come sempre, a Franz Andreani per la sua passione, la gestione di questa banda di pazzi e per la splendida riorganizzazione del sito già attiva da qualche anno. A cambiare non è stata solo la versione grafica del sito, ma anche la “filosofia” della podradio, con le rubriche che vanno ad integrarsi nella programmazione regolare sotto l’hashtag #everydaypodcast. Sulla nostra pagina Facebook troverete quotidianamente ogni upload del sito e, ormai da tempo, è attivo anche lo splendido canale YouTube della Radio, una nuova formula senza interruzioni ne spot per ascoltare la vostra-nostra musica preferita. Iscrivetevi numerosi, vi aspettiamo!
Ci risentiamo tra due settimane quando parleremo del ritorno della sigla The The grazie a Matt Johnson e dei We Are Winter’s Blue And Radiant Children, il nuovo supergruppo di casa Constellation, oltre al ripescaggio dei barbuti fratelli Carney, sperando che la loro sigla Pontiak non si sia persa nei boschi della Virginia…
Il tutto sarà, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
Intanto se volete potete sfruttare la parte riservata ai commenti qui sotto per darmi suggerimenti, criticare (perché no), o proporre nuove storie musicali. Mi farebbe estremamente piacere riuscire a coinvolgervi nella programmazione e nello sviluppo del mio sito web.
Per suggerimenti e proposte, scrivetemi senza problemi all’indirizzo e-mail stefano@stefanosantoni14.it.
Potete ascoltare o scaricare il podcast anche dal sito di Radio Rock The Original cliccando sulla barra qui sotto.
Buon Ascolto
TRACKLIST
01. ONEIDA: Reason To Hide da ‘Expensive Air’ (2024 – Joyful Noise Recordings)
02. UNWOUND: Honourosis da ‘Fake Train’ (1993 – Kill Rock Stars)
03. LAIKA: Almost Sleeping da ‘Sounds Of The Satellites’ (1997 – Too Pure)
04. DAVID LANCE CALLAHAN: Robin Reliant da ‘Down To The Marshes’ (2024 – Tiny Global Productions)
05. JAMES: Laid da ‘Laid’ (1993 – Fontana)
06. FONTAINES D.C.: In The Modern World da ‘Romance’ (2024 – XL Recordings)
07. JOHNNY MARR: New Town Velocity da ‘The Messenger’ (2013 – Warner Bros. Records)
08. THE MYSTERY LIGHTS: 21 & Counting da ‘The Mystery Lights’ (2016 – Wick Records)
09. THE CHILLS: Warm Waveform da ‘Silver Bullets’ (2015 – Fire Records)
10. MARINA ALLEN: Red Cloud da ‘Eight Pointed Star’ (2024 – Fire Records)
11. DIRTY THREE: Love Changes Everything II da ‘Love Changes Everything’ (2024 – Bella Union)
12. LARMOUSSE: Relics & Artefacts da ‘Larmousse’ (2000 – City Slang)
13. SEEFEEL: Sky Hooks da ‘Everything Squared’ (2024 – Warp)
14. CHRIS CORSANO: I Don’t Have Missions da ‘The Key (Became The Important Thing [& Then Just Faded Away])’ (2024 – Drag City)
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Oggi mi unisco anche io alla combriccola di @RadiorockTO con il primo episodio della 19 stagione da leggere e ascoltare. Molte novità e meraviglie da riscoprire. Non perdetelo!!! #podcast #rock #vinylcommunity https://t.co/KsOpaQasqS
— SoundsAndGrooves (@SoundsGrooves) September 13, 2024