Ecco il tredicesimo podcast di Sounds & Grooves per la 18° stagione di RadioRock.TO The Original
In questa nuova avventura in musica troverete un po’ di cantautorato, un pizzico di 4AD, una parentesi elettronica e un gran finale tutto italiano
Eccoci di nuovo puntuali con l’appuntamento quindicinale di Sounds & Grooves che per il 18° anno consecutivo impreziosisce (mi piace pensarlo) lo straordinario palinsesto di www.radiorock.to. 18 anni…siamo diventati maggiorenni!!!! A pensarci è incredibile che sia passato già così tanto tempo da quando abbiamo iniziato questa folle ma fantastica avventura. Come (credo) sappiate, la nostra podradio è nata per dare un segnale di continuità con quella meravigliosa radio del passato che molti custodiscono nel cuore e a cui ho provato a dare un piccolo contributo dal 1991 al 2000.
Sappiamo tutti benissimo che la Radio Rock in FM come la intendevamo noi è sparita da tanto tempo, ma in tutti questi anni di podcast sul web abbiamo cercato di tenere accesa quella fiammella per poi tentare di moltiplicarla, facendola diventare un faro di emozioni e qualità musicale. Perché la passione e la voglia di fare radio, la voglia di ascoltare e di condividere la musica di qualità, nonostante tutto, non ci è mai passata.
Questa creatura dopo quasi 4 lustri continua orgogliosamente a remare controcorrente, cercando quella libertà in musica che nell’etere è ormai diventata una mosca bianca, ed esprimendo con forza la passione per la condivisione, per la ricerca, per l’approfondimento. Non dobbiamo aderire ad una cieca linea editoriale che ormai spinge esclusivamente il pulsante play dei servizi di streaming, ma ci lasciamo guidare semplicemente dal nostro cuore e dalla nostra passione. Fulvio Savagnone, Marco Artico, Giampiero Crisanti, Franz Andreani, Flavia Cardinali, Francesco Cauli, Ivan Di Maro, Massimo Santori aka Moonchild, Maurizio Nagni ed io proviamo ogni giorno a coinvolgervi con i nostri podcast regolari e con le rubriche tematiche di approfondimento, sperando di farvi sentire sempre di più parte di questa fantastica avventura.
In questi 75 minuti di musica troverete l’energia post-punk dei The Membranes e la scura potenza dei Protomartyr prima di una piccola parentesi legata alla 4AD con lo shoegaze melodico dei Lush e i nordirlandesi Scheer. Sono andato poi a ripescare l’hard rock velato di blues e soul dei King’s X prima di omaggiare la straordinaria e consolidata reunion dei The Dream Syndicate e di fare un piccolo viaggio nel sud di Londra con Honeyglaze e Dry Cleaning. Il songwriting ispirato di Bill Callahan e quello folk di Micah P. Hinson ci traghettano verso i nuovi universi tra elettronica, sampling e “cut and paste” creati dal maestro Luke Vibert e dai The Books. Il gran finale ci porta nella nostra penisola per omaggiare il ritorno dei La Crus, tra i pochi a trovare un equilibrio straordinario tra canzone d’autore ed alchimie moderne, e la lucida eclettica follia di Andrea Guerrini aka Arco che è tornato in forma smagliante. Il tutto, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
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Sono felice di iniziare il podcast con i The Membranes, gruppo formato a Blackpool alla fine degli anni ’70, in piena era punk, dal bassista John Robb. Rimasero attivi dal 1977 al 1989, incidendo 6 album ed una manciata di singoli ed EP. Il loro era un art-punk interessante e spigoloso, arguto e scazzato, ma non privo di una spiccata componente pop. La loro produzione fu varia e qualitativamente superiore alla media, ma riuscirono a catturare solo lo status di gruppo di culto e l’ammirazione di una piccola fetta di pubblico tra cui, fortunatamente, c’erano anche alcuni personaggi di un certo rilievo per la storia del rock tra cui John Peel, Mark Stewart e Steve Albini.
Proprio Albini ha prodotto il loro quarto album in studio Kiss Ass… Godhead! del 1988 da cui ho tirato fuori l’incendiaria “Love Your Puppy” che apre questo episodio. Nel 2009 Robb, diventato nel frattempo giornalista e autore di libri informato e sagace, ha riformato il gruppo pubblicando nel 2015 un album doppio intitolato Dark Matter/Dark Energy, un lavoro che ce li ha fatti ritrovare in forma strepitosa. Recentemente la Cherry Red ha raccolto tutto il materiale inciso dalla band nei suoi primi anni di attività in uno splendido cofanetto formato da 5 CD ed intitolato Everyone’s Going Triple Bad Acid, Yeah! (The Complete Membranes 1980 – 1993).

Quando a Detroit il cantante Joe Casey si è unito ad una band chiamata Butt Babies, nessuno poteva prevedere che si sarebbe creata un’alchimia estremamente potente che avrebbe preso successivamente il nome di Protomartyr. Composti dal chitarrista Greg Ahee, dal batterista Alex Leonard e dal bassista Scott Davidson (oltre che dal già citato Casey), la band della Motor City è diventata in breve sinonimo di assemblaggi caustici e impressionistici di politica e poesia, letterale e obliqua. Sin dal loro debutto del 2012, No Passion All Technique, il quartetto di Detroit è riuscita a padroneggiare l’arte di evocare il luogo: l’umiltà del Midwest della loro città natale, così come lo sguardo ai raggi X dell’America che deriva dalla loro posizione di vantaggio.
Con il quinto lavoro in studio (il secondo per la Domino) intitolato Ultimate Success Today e uscito nel 2020, i quattro hanno confermato i propri riferimenti storici (The Fall, Birthday Party), suonando allo stesso tempo estremamente moderni nel raccontare con sempre maggior urgenza il sentimento di disagio, confusione e disperazione che attanaglia il mondo in generale e gli Stati Uniti in particolare. Joe Casey e compagni ci hanno consegnato l’ennesimo album meraviglioso impreziosito da alcune collaborazioni che vanno ad arricchire, talvolta con fiati e archi, un suono ormai consolidato. Un disco tanto impegnato intellettualmente quanto viscerale nel suo schietto espressionismo come nella “Michigan Hammers” che nasce per l’urgenza di esprimere le nevrosi, le insicurezze di un mondo che cambia e l’eterna lotta tra il bene e il male, tra il potere e il popolo. Impossibile non lasciarsi coinvolgere dalla voce baritonale di un leader che è capace di creare scenari straordinari sia nell’incedere recitativo che nei refrain ossessivi. Il recente Formal Growth In The Desert, pur essendo leggermente sotto la media, conferma la statura del gruppo.

Ci trasferiamo a Londra dove nel 1982 al Queen’s College stringono una forte amicizia Miki Berenyi ed Emma Anderson. Le due iniziarono subito a collaborare grazie all’amore comune per la musica gestendo una fanzine e suonando in vari concerti serali in locali come il Fulham Greyhound e l’Hammersmith Clarendon. Più tardi iniziarono a suonare in gruppi diversi: Berenyi nei The Bugs, Anderson nei The Rover Girls, ma sempre con il sogno di creare una nuova band insieme. Il sogno diventò realtà nel 1987, quando le due insieme al batterista punk Chris Acland e al bassista Steve Rippon, crearono i Lush. L’attitudine dei quattro era vibrante, tra pop punk e dream pop, tanto orecchiabile quanto talvolta tendente ad uno scuro shoegaze.
Una recensione del gruppo sul Melody Maker portò 12 grandi etichette a vederli suonare all’ULU di Londra. Il primo a dimostrarsi davvero interessato fu Ivo Watts-Russell della 4AD, che affidò la band al produttore John Fryer (This Mortal Coil). Il gruppo pubblicò una serie di EP con un notevole riscontro prima di esordire sulla lunga distanza qualche anno dopo nel gennaio del 1992 con Spooky, prodotto da Robin Guthrie dei Dead Can Dance, un album più shoegaze e sognante dei brani di esordio, ma estremamente affascinante come dimostra la “Nothing Natural” inserita in scaletta. L’album ebbe un grande successo negli USA, dove ha venduto oltre 120.000 grazie a uno dei capitoli più gloriosi della storia dei Lush, la seconda edizione del festival Lollapalooza. L’inaspettato suicidio del batterista Chris Acland nel 1996 pose fine drammaticamente alla loro parabola artistica, interrotta solo da una breve riunione avvenuta tra il 2015 ed il 2016.

Continua con successo la rubrica “dischi che non mi ricordavo di avere”. Gli Scheer sono stati un gruppo musicale alternative metal proveniente dalla contea di Derry, Irlanda del Nord. Il gruppo, fondato da PJ Doherty (basso) e Paddy Leyden (chitarra ritmica) vedeva la presenza della splendida voce di Audrey Gallagher, la chitarra solista di Neal Calderwood e la batteria di Joe Bates. Paradossalmente proprio uno dei fondatori, PJ Doherty, lasciò il gruppo prima della firma con un’etichetta importante come la 4AD, sostituito al basso da Peter Fleming. Dopo aver trascorso alcuni mesi suonando in piccoli locali in Irlanda, il gruppo venne messo sotto contratto dall’etichetta discografica irlandese SON che, alla fine del 1993, pubblicò il singolo di debutto “Wish You Were Dead”.
Il singolo ed alcuni concerti estremamente potenti fecero drizzare l’antenne alla 4AD, pronta ad aggiungerli nel suo roster pubblicando prima l’EP “Schism” nel 1995, poi, un anno più tardi, l’album Infliction, che trainato dai singoli “Sheà” e una rinnovata “Wish You Were Dead” ebbero un notevole successo di critica. Le registrazioni del loro secondo album iniziarono nel 1997, ma a causa di un mancato accordo contrattuale con l’etichetta, l’uscita fu rimandata a tempo indeterminato. Il disco, giustamente intitolato …And Finally, uscì solo a metà del 2000 sull’etichetta Schism Records quando purtroppo il quartetto si era già sciolto. La “Sad Loved Girl” inserita in scaletta mostra una band ancora acerba, ma dal potenziale purtroppo rimasto inespresso.

Non è la R’N’R Time Machine, ma ho voluto compiere un balzo all’indietro per andare a trovare un gruppo che nei primi anni ’80, nonostante la bontà della loro proposta, risultava in qualche modo disperso nell’oceano delle proposte hard ‘n’ heavy del periodo. Paradossalmente il non appartenere ad alcuna delle categorie che andavano per la maggiore (heavy metal classico, thrash metal ecc) li ha penalizzati oltremodo. I King’s X si sono formati a Springfield, nel Missouri, nel 1979. All’inizio si chiamavano Edge, poi sono diventati Sneak Preview prima di scegliere il nome attuale nel 1985. La formazione attuale del gruppo è rimasta intatta per più di quattro decenni ed è composta dal cantante e bassista Doug Pinnick, dal batterista Jerry Gaskill e dal chitarrista Ty Tabor.
La loro musica ha sempre unito hard rock, funk e soul con arrangiamenti vocali influenzati da gospel e blues, trovando una via trascinante ed originale sin dall’esordio del 1988 Out Of The Silent Planet prodotto dal loro mentore e manager Sam Taylor. Per il loro quinto album in studio, Dogman, uscito nel 1994, il gruppo lo sostituì alla consolle con Brendan O’Brien (Pearl Jam). Nonostante la promozione dell’Atlantic e la produzione più muscolare del nuovo produttore il risultato commerciale del disco fu deludente. Un peccato perché nonostante la bontà di molti brani come la “Cigarettes” inserita in scaletta, l’etichetta non esitò ad interrompere il contratto con il trio dopo il successivo Ear Candy. Il gruppo non ha mai mollato e ha continuato a sfornare dischi. Nel 2022 è uscito Three Sides Of One, il loro tredicesimo album in studio.

Abbiamo parlato in precedenza di come non tutte le reunion di gruppi famosi possano postare in dote come per magia ottimi risultati qualitativi. In questo caso però andiamo a celebrare la doppia vita di una band straordinaria. I The Dream Syndicate sono stati una parte fondamentale di quella scena californiana chiamata Paisley Underground, capace di traghettare il recupero delle radici folk e country nel maelstrom del post-punk e della psichedelia. Nel 2017, cinque anni dopo essersi riuniti esclusivamente per alcuni concerti, il gruppo capitanato da Steve Wynn ha pubblicato How Did I Find Myself Here? , disco che ha interrotto un silenzio che durava da ben 29 anni.
La formazione vedeva, e vede tuttora, oltre a Wynn, il batterista originale Dennis Duck, il bassista Mark Walton (che si unì al gruppo dopo l’uscita di Medicine Show) e il chitarrista Jason Victor, membro da anni dei The Miracle 3, l’altra band di Steve Wynn. Le meraviglie del passato sembravano difficilmente replicabili, ma l’album, ed i successivi tre, hanno mostrato un gruppo capace di reinventarsi classico ed attuale allo stesso tempo in maniera sorprendente. I quattro album pubblicati dalla loro riunione non sono stati un’imitazione pallida del loro passato, ma una rimodulazione avventurosa e attuale di quei suoni. Ascoltate la bellezza di “The Circle” che conferma senza dubbio il fatto che quella dei The Dream Syndicate sia la reunion più qualitativamente riuscita che riesca a ricordare.

Ci trasferiamo adesso nel sud di Londra dove, lo abbiamo detto più volte su queste pagine, c’è una scena musicale davvero estremamente interessante e vitale. Gli Honeyglaze si sono formati poco prima della pandemia e vengono da Brixton. La cantante e chitarrista Anouska Sokolow, il bassista Tim Curtis e il batterista Yuri Shibuichi sono stati notati da un produttore importante come Dan Carey (Franz Ferdinand, Bat For Lashes, Squid, Fontaines D.C.), pronto a metterli sotto contratto per la sua etichetta, la Speedy Wunderground. Visti i nomi legati a Carey si potrebbe ipotizzare un suono che strizza l’occhio alle più recenti produzioni post-punk (termine che inizio a detestare…), ma in realtà il trio si muove in una direzione diversa.
L’eponimo album di esordio è stato registrato quasi in presa diretta, cercando di catturare l’energia live del gruppo, pronto a portarci in un mondo dove luci ed ombre hanno una grande importanza, e dove anche i brani più lenti e melodici sono permeati da una tensione nervosa che ne accompagna la dinamica sonora. “Burglar” è una delle tracce più riuscite dell’album, apparentemente lenta e delicata, ma attraversata da un repentino cambio di passo che la rende accattivante ed energica. Solo il tempo ci dirà se il trio di Brixton saprà confermarsi e crescere artisticamente.

Abbiamo appena parlato della scena post-punk (aaaargh!) inglese, mettendo l’accento soprattutto su alcuni collettivi che fanno dell’abilità strumentale e della complessità strutturale i loro punti di forza. Come molte bands coeve (Goat Girl, Shame, Fat White Family), i Dry Cleaning sono nati nel sud di Londra dall’incontro alla Royal College of Art tra il chitarrista Tom Dowse e la cantante Florence Shaw. Qualche anno più tardi la formazione si è consolidata grazie all’innesto di Lewis Maynard (basso) e Nick Buxton (batteria) e alla pubblicazione di due EP ottimamente recepiti da pubblico e critica. La forza del collettivo si misura nelle scorribande chitarristiche che richiamano nomi importanti del passato come Gang Of Four, e nel cantato recitativo e apparentemente abulico di Florence Shaw.
L’attesissimo album di esordio si intitolava New Long Leg ed era stato prodotto da un personaggio importante come John Parish. Se il modo di cantare quasi recitativo e della Shaw risulta in qualche modo spiazzante, il modo in cui si integra con le taglienti intuizioni del resto del gruppo risulta estremamente interessante e fornisce al quartetto un passaporto di quasi unicità all’interno del movimento britannico. La “Scratchcard Lanyard” inserita nel podcast è una delle tracce in cui questo meccanismo funziona meglio, ma la conclusiva “Every Day Carry”, con i suoi synth e le ambientazioni quasi krautrock, potrebbe fornire nuovi sbocchi estetici alla band. Con il successivo Stumpwork, meno diretto e più avventuroso, i quattro ragazzi sono fortunatamente riusciti a non deludere le aspettative.

Ho sempre amato le canzoni in bassa fedeltà, pervase da un ambientazione decadente, da una malinconia che non raramente viene attraversata da un pungente sarcasmo. Lui si nascondeva sotto il moniker di Smog, ma dal 2007, dopo aver rilasciato diversi album notevoli tra cui il capolavoro Julius Caesar, ha deciso di firmarsi semplicemente con il suo vero nome, Bill Callahan. Esponente di punta di un certo tipo di cantautorato lo-fi insieme a Will Oldham o al compiano Jason Molina, Callahan ha sempre continuato a sfornare album mai meno che eccellenti.
A sei anni di distanza dallo splendido Dream River, Callahan è tornato nel 2019 con un nuovo album. Shepherd in a Sheepskin Vest è stato pubblicato (come i precedenti) dalla benemerita Drag City ed è composto da ben 20 canzoni. L’album mostra una rilassatezza ed una profondità nuova, dovuta al matrimonio e alla recente paternità. Le sue composizioni sono semplici ma mai banali, suonate in punta di dita, sussurrate, attraversate da anni di folk, country, da storie di vita vissuta da raccontare con intelligente sarcasmo. Sornione come sempre, questa condizione familiare non inficia certo la sua capacità di racconto, e Callahan canta e suona (superbamente) con la consapevolezza dello stregone che sa come ammaliare chiunque lo ascolti, come dimostra la splendida e inquieta “Camels”.

Micah P. Hinson, folksinger nato a Memphis ma texano d’adozione, è ormai da anni una delle voci più interessanti del songwriting americano. Le sue liriche autobiografiche, sarcastiche e profonde, si sposano perfettamente con la sua visione cinematica e il suo modo dolcemente violento di interpretare la tradizione americana. Micah si è sempre confermato anche live come grande intrattenitore, raccontando storie della sua vita personale e della grande periferia americana, quella dove il massimo della vita è andarsi a sbronzare al bar o trangugiare un six pack davanti alla tv.
Nel 2017, con Micah P.Hinson presents The Holy Strangers, il songwriter ha voluto creare una “moderna opera folk” dove raccontare la storia di una famiglia in tempo di guerra, andando a scandagliare i vari momenti dei vari componenti, dalla nascita ai primi amori, passando per matrimoni, figli, conflitti, morte e suicidi. «Viviamo con loro e moriamo con loro» ha aggiunto in un comunicato stampa, «seguendone le decisioni, gli errori e le bellezze attraverso tutti gli strani e gloriosi luoghi in cui la vita ci porta». Una storia ambiziosa, raccontata quasi come fosse una colonna sonora con splendidi affreschi sonori in gran parte strumentali, che ce la fanno visualizzare perfettamente tra ballate country e suggestioni folk, come la “The Awakening” che ho inserito in scaletta.

Come voi sapete perfettamente, la musica elettronica non è propriamente il mio principale campo di interesse, ma ogni tanto c’è qualcosa che fa drizzare le mie antenne e riesce decisamente a coinvolgermi. Ho passato spesso DJ Shadow, i Clipping. e altri artisti che sono capaci di creare un universo alternativo. Tra questi artisti sicuramente va inserito il nome di Luke Vibert, produttore e musicista britannico che ha pubblicato i suoi lavori sotto diversi pseudonimi, come Plug e Wagon Christ. Cresciuto in Cornovaglia, Vibert ha iniziato a pubblicare progetti negli anni Novanta attraverso vari generi, tra cui techno, drum ‘n’ bass e trip hop. Ha registrato per etichette come Rephlex, Ninja Tune, Planet Mu e Warp.
Attirato dal punk e da band come Beastie Boys, Vibert si è presto spostato nell’ambiente a basso costo della composizione elettronica. Luke è stato una sorta di pioniere del sottogenere “drill ‘n’ bass”, capace si unire breakbeat jungle e drum ‘n’ bass, soprattutto nei suoi album sotto il nome di Plug. Negli anni successivi ha continuato a produrre altra musica sotto il nome di Wagon Christ. Big Soup è stato pubblicato nel 1997 per la Mo’ Wax. Primo album a presentare il suo vero nome, si colloca a metà strada tra i collage ricchi di campioni di DJ Shadow e le costruzioni strette e precise di DJ Krush. Ascoltate le suggestioni e le ritmiche intense di “Voyage Into The Unknown” per entrare nel mondo di uno dei più interessanti creatori di suoni in attività.

Continuiamo il podcast con suoni che possiamo definire “poco convenzionali”. Nel 1999 il chitarrista Nick “Zammuto” Willscher e il violoncellista Paul De Jong si sono trovati a condividere lo stesso appartamento a NYC trovando terreno musicale fertile nell’amore per la tradizione folk americana e per l’uso di sampling e field recordings. I due decisero di fare musica insieme sotto il nome di The Books, trovando l’appoggio dell’etichetta Tomlab incuriosita dalle sperimentazioni “cut and paste” dei due. De Jong e Zammuto non si trovavano sicuramente nella migliore situazione logistica per comporre i brani dell’esordio (De Jong tra New York e l’Olanda, Zammuto tra Maine e Georgia) ma sono riusciti in una sorta di miracolo a distanza chiamato Thought For Food.
The Way Out è stato (purtroppo) l’ultimo capitolo di una storia entusiasmante in quattro parti, composto, registrato e prodotto nei loro studi casalinghi. La varietà delle suggestioni sonore andava di pari passo con la struttura compositiva, dove i due si sono divertiti con i loro giochi di addizione e sottrazione, tra field recordings, samples di voci che spuntano ovunque, frammenti di folk e altri strumenti ricomposti con maestria. Un collage di suoni e voci che può sembrare dispersivo, ma che invece conquista con la sua intelligente folktronica, confermando i The Books come alfieri di un’eccitante maniera di gestire una vasta biblioteca sonora. “I Didn’t Know That” è solo uno dei 14 eccitanti episodi che compongono l’ultimo capitolo di una compiuta parabola discografica prima dello scioglimento della ragione sociale.

Ci avviciniamo alla fine del podcast facendo un piccolo percorso nel nostro amato/odiato stivale. Alessandro Cremonesi e Mauro Ermanno Giovanardi si incontrarono nel 1991 a Milano. In quegli anni Giovanardi era membro dei Carnival Of Fools, gruppo che ha pubblicato tre (splendidi) dischi venati di blues tra il 1989 e il 1993. Il gruppo nacque come duo, Giovanardi con la sua splendida voce, mentre Cesare Malfatti, ex Weimar Gesang e reduce dall’esperienza di Cocaine Head con gli Afterhours, era il chitarrista e tastierista. Alessandro Cremonesi è sempre stato, per propria scelta, in disparte, “deus ex machina” e paroliere del progetto. Questo è stato l’inizio dei La Crus, gruppo che è riuscito in maniera (in)credibile ad unire la tradizione della canzone d’autore italiana con modalità sonore moderne ed attuali.
Sei album in studio e un album dal vivo, registrato nel 2008, che era stato il canto del ciglio del gruppo prima dello scioglimento. Proprio da Io Non Credevo Che Questa Sera, titolo ispirato da una frase di una canzone di Luigi Tenco, ho voluto proporre “L’Uomo Che Non Hai”, uno dei brani più emozionanti di Dietro La Curva Del Cuore, album che nel 1999 ne sanciva la posizione di rilievo nella produzione musicale italiana. Qualche settimana fa Giovanardi, Malfatti e Cremonesi hanno annunciato la riunione del gruppo, che il 22 marzo pubblicherà il nuovo Proteggimi Da Ciò Che Voglio. “Speriamo che chi ci ha seguiti fin dai primi lavori, e in questi lunghi anni di assenza ci ha continuato ad ascoltare, insieme a un nuovo e ipotetico pubblico, possa condividere questa visione, questa crescita e consapevolezza, che possa apprezzare e continuare ad emozionarsi, perché queste nuove canzoni sono il frutto di lunghe riflessioni e di un sincero amore per la musica. Non sappiamo fare altrimenti.” E anche io spero che sia davvero così perché la loro storia merita un nuovo capitolo all’altezza.

Chiudiamo il podcast restando in Italia. Nel 2020 avevamo raccontato entusiasti l’esordio discografico dell’aretino Andrea Guerrini, autore e polistrumentista autodidatta tanto ambizioso quanto insicuro ed irrequieto. Andrea è stato membro attivo dei Walden Waltz ma la sua forza espressiva si è diretta anche verso altre forme d’arte: dalla creazione ad Arezzo di un collettivo artistico che si occupa di spettacoli teatrali, fino alla produzione a Torino di una serie di audio racconti per una radio locale passando per la pubblicazione di un libro su uno dei suoi idoli musicali, Robert Wyatt. Proprio l’infantile capacità del sommo esponente della scena di Canterbury, unita alla sperimentazione mai fine a se stessa e al contrasto tra un uomo solo e la società opprimente e conflittuale hanno portato Andrea tre anni fa a “nascondersi” dietro al moniker di Arco per tirare fuori uno dei lavori più intelligenti e creativi usciti in Italia negli ultimi tempi.
Come nel convincente esordio, anche per Orama, il suo atteso seguito, Guerrini ha messo insieme musicisti provenienti da background diversi divertendosi ad usare un linguaggio libero sia vocalmente che musicalmente. Il collettivo alla base del disco si compone di Nicholas Remondino (percussioni e synth), Cécile Delzant (violino e voci) e Filippo Manfredi Giusti (batteria), oltre alle collaborazioni di dTHEd e Enrico Gabrielli (flauto). L’album è composto da dodici tracce che si susseguono come fossero un viaggio dentro noi stessi e all’interno di quella collettività dove riusciamo a mostrare tutte le nostre contraddizioni, dodici personalità complesse costruite a partire dalle zone d’ombra della coscienza. Unione e conflitto fra maschile e femminile, volontà creativa e
distruzione, solitudine e collettività, natura e tecnologia. “Exodalgia (il Romantico)” è l’ennesima dimostrazione di una forza creativa straordinaria.
Un grazie speciale va, come sempre, a Franz Andreani per la sua passione, la gestione di questa banda di pazzi e per la splendida riorganizzazione del sito già attiva da qualche anno. A cambiare non è stata solo la versione grafica del sito, ma anche la “filosofia” della podradio, con le rubriche che vanno ad integrarsi nella programmazione regolare sotto l’hashtag #everydaypodcast. Sulla nostra pagina Facebook troverete quotidianamente ogni upload del sito e, ormai da tempo, è attivo anche lo splendido canale YouTube della Radio, una nuova formula senza interruzioni ne spot per ascoltare la vostra-nostra musica preferita. Iscrivetevi numerosi, vi aspettiamo!
Nel prossimo episodio troverete il nuovo attesissimo Kim Gordon, il trentennale di due album importanti come Superunknown dei Soundgarden e The Downward Spiral dei Nine Inch Nails, il ritorno in scaletta di Karate e Low e tante altre piccole e grandi meraviglie. Il tutto sarà, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
Intanto se volete potete sfruttare la parte riservata ai commenti qui sotto per darmi suggerimenti, criticare (perché no), o proporre nuove storie musicali. Mi farebbe estremamente piacere riuscire a coinvolgervi nella programmazione e nello sviluppo del mio sito web.
Per suggerimenti e proposte, scrivetemi senza problemi all’indirizzo e-mail stefano@stefanosantoni14.it.
Potete ascoltare o scaricare il podcast anche dal sito di Radio Rock The Original cliccando sulla barra qui sotto.
Buon Ascolto
TRACKLIST
01. THE MEMBRANES: Love Your Puppy da ‘Kiss Ass… Godhead!’ (1988 – Glass Records)
02. PROTOMARTYR: Michigan Hammers da ‘Ultimate Success Today’ (2020 – Domino)
03. LUSH: Nothing Natural da ‘Spooky’ (1992 – 4AD)
04. SCHEER: Sad Loved Girl da ‘Infliction’ (1996 – 4AD)
05. KING’S X: Cigarettes da ‘Dogman’ (1994 – Atlantic)
06. THE DREAM SYNDICATE: The Circle da ‘How Did I Find Myself Here?’ (2017 – Anti-)
07. HONEYGLAZE: Burglar da ‘Honeyglaze’ (2022 – Speedy Wunderground)
08. DRY CLEANING: Scratchcard Lanyard da ‘New Long Leg’ (2021 – 4AD)
09. BILL CALLAHAN: Camels da ‘Shepherd In A Sheepskin Vest’ (2019 – Drag City)
10. MICAH P. HINSON: The Awakening da ‘Micah P. Hinson Presents The Holy Strangers’ (2017 – Full Time Hobby)
11. LUKE VIBERT: Voyage Into The Unknown da ‘Big Soup’ (1997 – Mo Wax)
12. THE BOOKS: I Didn’t Know That da ‘The Way Out’ (2010 – Temporary Residence Limited)
13. LA CRUS: L’ Uomo Che Non Hai (Live 2005) da ‘Io Non Credevo Che Questa Sera’ (2008 – Warner Bros. Records)
14. ARCO: Exodalgia (il Romantico) da ‘ORAMA’ (2023 – Ammiratore Omonimo Records)
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