Ecco il dodicesimo podcast di Sounds & Grooves per la 18° stagione di RadioRock.TO The Original
In questa nuova avventura in musica troverete il mio ricordo di Damo Suzuki e Wayne Kramer, il ritorno degli Idles e un finale colmo di speranza
Eccoci di nuovo puntuali con l’appuntamento quindicinale di Sounds & Grooves che per il 18° anno consecutivo impreziosisce (mi piace pensarlo) lo straordinario palinsesto di www.radiorock.to. 18 anni…siamo diventati maggiorenni!!!! A pensarci è incredibile che sia passato già così tanto tempo da quando abbiamo iniziato questa folle ma fantastica avventura. Come (credo) sappiate, la nostra podradio è nata per dare un segnale di continuità con quella meravigliosa radio del passato che molti custodiscono nel cuore e a cui ho provato a dare un piccolo contributo dal 1991 al 2000.
Sappiamo tutti benissimo che la Radio Rock in FM come la intendevamo noi è sparita da tanto tempo, ma in tutti questi anni di podcast sul web abbiamo cercato di tenere accesa quella fiammella per poi tentare di moltiplicarla, facendola diventare un faro di emozioni e qualità musicale. Perché la passione e la voglia di fare radio, la voglia di ascoltare e di condividere la musica di qualità, nonostante tutto, non ci è mai passata.
Questa creatura dopo quasi 4 lustri continua orgogliosamente a remare controcorrente, cercando quella libertà in musica che nell’etere è ormai diventata una mosca bianca, ed esprimendo con forza la passione per la condivisione, per la ricerca, per l’approfondimento. Non dobbiamo aderire ad una cieca linea editoriale che ormai spinge esclusivamente il pulsante play dei servizi di streaming, ma ci lasciamo guidare semplicemente dal nostro cuore e dalla nostra passione. Fulvio Savagnone, Marco Artico, Giampiero Crisanti, Franz Andreani, Flavia Cardinali, Francesco Cauli, Ivan Di Maro, Massimo Santori aka Moonchild, Maurizio Nagni ed io proviamo ogni giorno a coinvolgervi con i nostri podcast regolari e con le rubriche tematiche di approfondimento, sperando di farvi sentire sempre di più parte di questa fantastica avventura.
In questi 74 minuti di musica troverete un omaggio a Damo Suzuki prima con i The Fall poi con i CAN, l’energia dirompente dei MC5 per ricordare Wayne Kramer, gli spigoli tra tra post hardcore e math-rock di 90 Day Men, la visione sinfonico-apocalittica della musica industriale secondo J.G. Thirlwell aka Foetus e la carica dei The Men. Avrete modo anche di ascoltare un estratto dal nuovo discusso lavoro degli IDLES, festeggeremo insieme i 30 anni dalla pubblicazione di Crooked Rain, Crooked Rain dei Pavement e del capolavoro onirico Hex dei Bark Psychosis che fece coniare il termine post-rock a Simon Reynolds. Sono andato anche a ripescare un gruppo sfortunato come gli Scarce e il primo lavoro degli Elbow, prima di tuffarmi nella piovosa e malinconica Scozia con The Blue Nile e Josef K. Il finale è un messaggio di speranza, un brano tratto dall’ album intitolato Jarak Qaribak, che significa “il tuo amico è il tuo vicino”, che sancisce la collaborazione del musicista israeliano Dudu Tassa con il chitarrista dei Radiohead Jonny Greenwood, un disco che racchiude molti artisti provenienti da tutto il Medio Oriente. Il tutto, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
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Prima di partire con questo viaggio in musica potete effettuare il download del podcast anche nella versione a 320 kb/s semplicemente cliccando sul banner qui sotto.
Iniziamo il podcast con i The Fall, senza ombra di dubbio una delle band di culto e più importanti della scena post-punk britannica, di cui faranno parte band come Joy Division e Buzzocks. Carattere difficile, come dimostrano gli innumerevoli cambiamenti all’interno della band, il leader Mark E. Smith è stato un intellettuale scettico nei confronti dell’arte in generale. La sua musica e le sue liriche erano intense, ripetitive, pervase da uno scuro senso dell’umorismo. Ha guidato il suo gruppo per 40 anni, senza mai avere un successo planetario, ma riscuotendo sempre il favore della critica e del suo fedele seguito di fans. New Facts Emerge, è stato il suo ultimo album in studio, uscito nel 2017 con una formazione che incredibilmente lo accompagnava stabilmente da 10 anni.
Smith ci ha lasciato nel gennaio 2018. Ci mancherà il suo crudo sarcasmo, la sua visione musicale sghemba e affascinante che ha influenzato negli ultimi 40 anni molti gruppi dai Pavement agli LCD Soundsystem. Per ritrovare al meglio la sua visione musicale e la sua lingua tagliente sono tornato indietro al 1985, anno in cui è uscito l’ottavo album del gruppo intitolato This Nation’s Saving Grace. Nel disco, considerato uno dei suoi capolavori, c’è un brano intitolato proprio “I Am Damo Suzuki” che mostra la passione di Smith per i tedeschi Can non solo nel titolo ma anche nella stesura musicale visto che il riff del brano viene mutuato dalla parte finale di “Bel Air”, brano che fa parte di Future Days, ultimo registrato dall’istrionico cantante giapponese con i suoi teutonici compagni di avventura. Il testo è stato scritto da Smith proprio cercando di descrivere la personalità di Suzuki, la sua presenza sul palco e il suo stile di canto. Smith non aveva mai fatto mistero che i testi surreali del giapponese e la sua tendenza ad abbandonare il linguaggio avevano influenzato molto il suo stile di scrittura e di esecuzione. Il testo iniziale di Smith: “Generous of lyric / Jehovah’s Witness / Stands in Cologne Marktplatz / drums come in / When the drums come in fast / Drums to shock, into brass evil”, evocano sia la sua ammirazione per il cantante che lo stile aggressivo del batterista dei Can: Jaki Liebezeit.
Kenji “Damo” Suzuki è nato a Kobe, in Giappone, il 16 gennaio 1950. Appena diciottenne si era trasferito in Europa, dapprima in una comune svedese e poi in Irlanda, Francia, Regno Unito e Germania, guadagnando soldi con il busking. Proprio mentre suonava in strada a Monaco è stato notato da Holger Czukay e Jaki Liebezeit. I Can erano in cerca di un cantante dopo l’abbandono di Malcolm Mooney subito dopo l’uscita del primo album Monster Movie (1969). Leggenda vuole che la sezione ritmica del gruppo tedesco, colpita dal canto surreale e poco convenzionale di Suzuki, lo invitasse a unirsi al gruppo già dalla sera stessa. Due anni prima, Jaki Liebezeit (batteria), Michael Karoli (chitarra), Holger Czukay (basso) e Irmin Schmidt (tastiere) avevano dato vita ad una delle band più influenti e seminali della storia del rock, i Can.
La band divenne in breve uno dei gruppi più importanti della scena tedesca grazie ad un suono innovativo e visionario, che coraggiosamente andava a pescare dal minimalismo contemporaneo (Czukay e Schmidt erano entrambi allievi di Stockhausen) alla psichedelia, incastrandosi meravigliosamente con i Velvet Underground e una certa musica etnica. La loro avanguardia si celebrò con l’uscita del seminale Tago Mago nel 1971. Ascoltiamo insieme la meravigliosa “Paperhouse”, che dimostra come la loro libera sfrontatezza e anarchica purezza sia stata fonte di ispirazione per tantissimi artisti degli anni settanta e ottanta, tra cui David Bowie, Joy Division, Stone Roses e Talking Heads. L’unico membro fondatore rimasto in vita, Irmin Schmidt, sta pubblicando a cadenza regolare una serie di album live rimasterizzati che mostra l’incredibile bravura anche improvvisativa del gruppo. Pochi giorni fa è uscito Live In Paris 1973 che ci fa riascoltare proprio una delle ultime performances di Suzuki insieme a loro.
A volte sembra quasi che i podcast possano diventare una sorta di celebrazione funebre. Certo è che dobbiamo mettere in conto l’età dei protagonisti di alcune stagioni quasi irripetibili nella storia della musica. Poche settimane fa ci ha lasciato anche Wayne Kramer, chitarrista di un gruppo che ha lasciato un solco indelebile nella storia della musica e autore di una carriera solista davvero notevole. Gli MC5, (Motor City Five), uno dei gruppi che hanno anticipato il punk e l’heavy metal, e fra i capostipiti del proto-punk, si formarono a Detroit nel 1965, pubblicando il loro primo storico album, Kick Out the Jams nel 1969. L’album fu registrato dal vivo in una memorabile notte di Halloween alla Russ Gibb’s Grande Ballroom di Detroit.
L’idea di esordire con un live fu del leader dei White Panthers, John Sinclair, ideologo del gruppo che decise che era impossibile portare in studio la loro leggendaria energia. La voce indemoniata di Rob Tyner (come scordare il leggendario urlo “Kick out the jams, motherfuckers!!!” prima della title track proposta nel podcast), e le chitarre incandescenti di Fred “Sonic” Smith (futuro marito di Patti Smith) e Wayne Kramer illuminarono a giorno una notte storica che vide esibirsi sullo stesso palco anche gli Stooges di Iggy Pop. Il disco non ebbe grandi riscontri commerciali, ma tracciò un segno indelebile nella storia del rock, aprendo una strada di aggressività feroce ed incendiaria che sarà sviluppata solo 7 anni più tardi con l’avvento del punk. Ascoltateli per venire catapultati in prima fila ad assistere ad un evento imperdibile nella storia del rock.
Siamo agli albori del nuovo millennio quando una band chiamata 90 Day Men (nome preso dal modo in cui gli agenti di polizia indicano i detenuti che devono sottoporsi a un esame psichiatrico) si trasferisce armi e bagagli nella città culla del post-rock americano nel decennio precedente: Chicago. Dopo uno split con i GoGoGoAirheart, il gruppo aveva registrato nel marzo del 2000 il suo primo album intitolato (it (is) it) Critical Band, un disco meravigliosamente in bilico tra post hardcore e math-rock, “Exploration Vs. Solution, Baby” è un brano perfetto per mostrare l’equilibrio compositivo e le capacità strumentali del quartetto.
Per l’esordio, oltre ai membri fondatori Robert Lowe (basso e voce), Brian Case (chitarra) e Cayce Key (batteria), c’era stato anche l’innesto di Andy Lansangan alle tastiere. Due anni dopo To Everybody, uscito sempre per la Southern Records, cambierà il corso stilistico del gruppo, che dalle spigolose fattezze math-rock diventerà sempre più una sorta di art-rock tendente alla psichedelia e al progressive, perdendo molta della dinamica che aveva reso il loro esordio un album di riferimento del genere. Il gruppo si scioglierà definitivamente nel 2004.
James George Thirlwell non è mai stato un personaggio “normale”. Australiano trapiantato a Londra alla fine degli anni ’70, ha avuto modo di entrare in contatto con gruppi come Throbbing Gristle, Birthday Party, Cabaret Voltaire, Nurse With Wound che hanno contribuito a plasmare la sua personale visione sinfonico-apocalittica della musica industriale. Agendo dietro al moniker di Foetus declinato in diverse varianti (You’ve Got Foetus On Your Breath, Foetus Interruptus, Scraping Foetus Off The Wheel), manipola suoni rappresentando il caposaldo dell’industrial music dell’epoca.
Nail uscito nel 1985 è l’apice della sua fantasia visionaria, prendendo in prestito la magniloquenza di Richard Wagner, e piegandola ai suoi scopi di potente e dinamitarda discesa degli inferi accompagnata dalla fanfara. Ecco che “The Throne Of Agony” diventa una sorta di mostro mutante mezzo punk e mezzo synth-pop, preso per mano dal reiterato tema di Mission Impossible che accompagna il sarcastico ed efferato Thirlwell verso una solenne e tenebrosa esaltazione. L’album è il capolavoro di un artista tanto misconosciuto quanto di enorme talento.
Ormai è prassi consolidata festeggiare gli anniversari di uscita di molti album, spesso e volentieri per invogliare i pochi acquirenti rimasti del supporto fisico a comprare edizioni speciali (e spesso limitate) a prezzi non proprio di favore. In alcuni casi, però, ci fa riflettere sul tempo che passa inesorabilmente. Sono rimasto stupito quando ho visto che sono passati ben 30 anni da quello che, probabilmente, è stato l’album della maturità per quella che è stata una delle band più importanti del lo-fi californiano. Stephen Malkmus e Scott Kannberg a Stockton, California hanno studiato la perfetta alchimia tra tensione e melodie, il tutto sorretto da un’ironia (così distante del movimento grunge) squisitamente pop ed un’attitudine lo-fi.
Malkmus e Kannberg, amici dall’età di dieci anni, avevano avuto da sempre una passione per la musica, dal rock classico al punk, e questa è sempre stata la loro forza, dalle scuole medie al college, fino alla formazione dei Pavement insieme agli amici del college David Berman e Bob Nastanovich dopo molte altre avventure più o meno brevi. Il secondo album dei Pavement si intitolava Crooked Rain, Crooked Rain e venne pubblicato 30 anni fa, nel 1994, riscuotendo un grande successo tra pubblico e addetti ai lavori e rappresentando forse il disco della maturità della band. “Cut Your Hair” rappresenta l’equilibrio tra melodie perfette ed un pop sghembo e intellettuale profondamente intriso di ironia.
Diverse volte ho parlato su questa pagine degli Idles. Probabilmente nemmeno i componenti del quintetto avrebbero potuto prevedere la loro esplosione in terra britannica e non solo, sin dalla pubblicazione dell’album di esordio Brutalism nel 2017. La band di Bristol ha subito occupato un posto speciale nei cuori di un pubblico assetato di post punk vero e senza fronzoli. Le liriche di Joe Talbot non hanno fatto prigionieri, spiattellando in maniera a volte cruda ma reale i disagi di una generazione spiazzata dalla Brexit e desiderosa di giustizia ed equità. Anche il secondo Joy As An Act Of Resistance aveva fatto centro pieno, grazie ad inni come “Danny Nedelko” e grazie ad una formula sonora ormai collaudata e alle indubbie capacità empatiche ed energiche on stage del quintetto. Il loro terzo, Ultra Mono, aveva dovuto necessariamente presentare uno spettro sonoro più articolato, con suoni curati da Kenny Beats, spesso dietro il mixer in produzioni hip-hop, pur mantenendo inalterate le aggressive coordinate sonore che li hanno resi una della band più importanti degli ultimi anni.
E se Crawler, tre anni fa, era stato un disco di transizione, Il nuovo TANGK, appena uscito, vede la band mettersi ancora di più in discussione, uscendo dalla propria comfort zone e rischiando qualcosa al di fuori dell’immaginario post-punk che hanno costruito in questi anni, grazie anche alla produzione di Nigel Godrich che si è affiancato a Kenny Beats e al chitarrista Mark Bowen. Il nuovo album ha portato alla band, come prevedibile nei nuovi perversi meccanismi social, anche molti attacchi frontali: “Uno dei più grandi misteri della musica mondiale” “Tutto sto hype per loro sinceramente non lo capisco. Paraculi, senza dubbio.” “Uguali a tutti gli altri, peggio di Sanremo”, tanto per citarne alcuni che, probabilmente non hanno nemmeno sentito l’album. Personalmente ho apprezzato moltissimo il loro cambio di rotta, il loro mettersi in discussione, affrancandosi dalla scena e raffinando il loro suono senza rinunciare alle loro proverbiali galoppate impetuose. “Jungle” è solo uno degli esempi della loro nuova modalità compositiva.
Stavolta la rubrica, ormai classica, “Dischi che non ricordavo di avere” fa tappa a Providence, Rhode Island, dove il cantante Chick Graning si era trasferito da Boston nel 1992 dopo la fine della sua avventura alla guida degli Anastasia Screamed dopo due lavori di trascinante indie rock tour di successo a supporto delle Throwing Muses. Reclutati la bassista Joyce Raskin e il batterista Jud Ehrbar (sostituito nel 1995 da Joseph Propatier) ecco nati gli Scarce, Per il gruppo sembra andare tutto a gonfie vele. L’ispirazione di Graining è sempre potente, la band va in tour come supporto delle Hole e la pubblicazione di Deadsexy sembra solamente l’inizio di una carriera destinata al successo.
Ma, come successo per tante altri gruppi, la sfortuna decise di metterci lo zampino sotto forma di un brutto aneurisma cerebrale che colpì il cantante-chitarrista proprio durante le prove del tour. I medici diedero a Graning il dieci per cento di possibilità di sopravvivenza, ma la forza di volontà del musicista ha avuto la meglio dopo numerosi mesi passati a reimparare a camminare e a parlare prima di riprendere in mano la sua amata chitarra. la band si è riformata svariati anni dopo, ma ormai il treno buono era purtroppo già passato. Non ci resta che ascoltare la trascinante e folgorante “Days Like This”, e riascoltare uno dei gruppi più sfortunati degli anni ’90.
Restando in tema di chitarre sfavillanti e di rock senza troppi fronzoli, ci spostiamo a Brooklyn, NY. dove nel 2008 Nick Chiericozzi (voce, chitarra e sax) e Mark Perro (voce, chitarra e tastiere), insieme al bassista Chris Hansell formano un gruppo chiamato The Men pubblicando a stretto giro di posta due album, Immaculada e Leave Home che mostrano una notevole ispirazione ed energia abrasiva noise-rock portandoli alla firma con un’etichetta importante come la Sacred Bones. Nel 2012 Hansell lascia il gruppo e il terzo lavoro in studio, Open Your Heart, mostra un gruppo che inizia a cambiare le carte in tavola, incorporando nel proprio suono strutture più accessibili, surf rock e country.
Un anno più tardi con New Moon, il gruppo ha portato a compimento la sua curiosa mutazione genetica, ripulendo quasi completamente il suono dalle scorie noise-rock degli esordi. I nuovi riferimenti del gruppo sono Neil Young, The Replacements, The Band, mentre il nucleo portante accoglie la nuova sezione ritmica formata da Rich Samis alla batteria e Kevin Faulkner al basso e lap steel. Il risultato è un album che racchiude decenni di rock ‘n’ roll in maniera interessante, trascinante e intelligente, come dimostra la “Bird Song” inserita in scaletta. Il nuovo New York City, uscito lo scorso anno, ha mostrato un gruppo ancora in grandissima forma.
Loro sono un gruppo che difficilmente è stato sotto i riflettori ma che ha saputo consolidare negli anni una meritata reputazione presso gli addetti ai lavori e ad attirare un discreto seguito di pubblico. Gli Elbow nascono a Bury, distretto di Manchester, dall’incontro del cantante Guy Garvey con il chitarrista Mark Potter. Potter chiese a Garvey di unirsi alla band che già vedeva il batterista Richard Jupp ed il bassista Pete Turner. Ai quattro si aggiunse presto Craig Potter, il fratello di Mark, alle tastiere. Asleep In The Back, il loro album di debutto, esce nel maggio del 2001 ed è un piccolo miracolo di equilibrio.
Ci sono suggestioni pop e composizioni più complesse, con la profonda voce baritonale di Garvey a fare da splendido collante con i suoi testi sempre evocativi. “Red” è solo una delle piccole grandi meraviglie di un album (e una band) da riscoprire assolutamente. Il gruppo è pronto a far uscire tra un mese il suo decimo album in studio intitolato Audio Vertigo che, secondo quanto annunciato dalla stessa band, sarà più diretto e vario dal punto di vista sonoro rispetto ai precedenti. Chissà se il gruppo britannico a distanza di 23 anni dall’esordio, riuscirà ancora a stupire.
Passionale e malinconica, ricca di ricordi legati all’epoca vittoriana e avvolta da chiaroscuri notturni, l’atmosfera di Glasgow definisce perfettamente la musica di uno di quelli che possiamo chiamare senza timore di smentita, gruppo di culto. I The Blue Nile, nonostante abbiano vissuto musicalmente sempre nell’ombra, pubblicando pochissimo ed evitando qualsiasi sovraesposizione, meritano di essere al centro dell’attenzione. Proprio nell’università della capitale industriale scozzese si incontrarono alla fine degli anni 70 Paul Buchanan e Robert Bell. Ai due si unì Paul Joseph “PJ” Moore, che era cresciuto nello stesso quartiere di Buchanan. Dopo varie peripezie, gruppi stravaganti e anni di pausa, i tre si ribattezzano The Blue Nile e raccolgono abbastanza denaro per pubblicare il loro primo singolo “I Love This Life”.
A fine 1983, il trio aveva registrato alcuni demo con un eccellente produttore come Calum Malcolm (Aztec Camera, Orange Juice, Go-Betweens), che era amico del fondatore della neonata Linn Records, Ivor Tiefenbrun, e il suo studio era attrezzato con apparecchiature Linn. La leggenda vuole che un giorno i rappresentanti della Linn vennero in visita e chiesero di ascoltare un po’ di musica per testare i loro nuovi diffusori. Malcolm fece ascoltare loro il demo di “Tinseltown In The Rain”. Impressionata, la Linn offrì al gruppo un contratto con l’etichetta discografica che stava per fondare. A Walk Across The Rooftops, fu pubblicato come primo album della Linn Records nel maggio 1984 mostrando un pop alternativo di enorme classe e suggestione. Band non certo prolifica, pubblicherà il secondo album Hats solo cinque anni più tardi, nel 1989, confermando le meraviglie dell’esordio. Un suono levigato e alla continua ricerca dalla perfezione, ma certamente non asettico. Le sette tracce di cui è composto il disco di esordio sono un viaggio notturno e cinematico di grande emozione e sentimento.
Restiamo in Scozia spostandoci da Glasgow alla capitale Edimburgo per andare a trovare un gruppo la cui stagione è durata troppo poco. I Josef K, si formano nel 1979 a Edinburgo da Paul Haig (chitarra e voce), Ronnie Torrance (batteria), Malcolm Ross (chitarra, voce, violino e tastiere) e dall’ex-roadie David Weddell (basso) che aveva rimpiazzato il primo bassista Gary McCormack. I componenti del gruppo si erano conosciuti nella Firrhill High School e avevano preso il nome dal protagonista del romanzo di Franz Kafka intitolato Il Processo.
Poche le testimonianze pubblicate: qualche singolo, un disco mai uscito per un eccesso di perfezionismo, ed un altro, The Only Fun In Town, pubblicato quando la band era ormai già sciolta. Questo atteggiamento snob ha contribuito a creare uno status di culto. In realtà la band ha avuto effettivamente un grande merito di traghettare il post punk in una forma nuova di pop che andava a sfiorare la new wave in una profumata e fresca alternanza di chiari e scuri come dimostra “It’s Kinda Funny”.
Ci avviciniamo alla fine del podcast con un altro album che, incredibilmente, è arrivato a tagliare il traguardo dei 30 anni dalla pubblicazione oltre ad essere, lo ammetto spudoratamente, uno dei miei album della vita. Gli incubi e sogni dei Bark Psychosis hanno ispirato il critico Simon Reynolds a coniare uno dei termini più abusati in musica negli anni ’90: post-rock. Quando si parla della band di Graham Sutton (chitarra e voce), Daniel Gish (tastiere e piano), John Ling (basso e campionatore), e Mark Simnett (batteria e percussioni) la mente va sempre a vagare di notte nei sobborghi londinesi descritta in capitoli cinematici di rara suggestione onirica all’interno di quel tesoro nascosto chiamato Hex (1994). In copertina c’è la chiesa di St. John at Hackney vista di notte dai binari vicino alla stazione di Stratford, mentre sul terreno si stagliano le ombre dei componenti del gruppo, una zona che recentemente ha visto la costruzione del Parco Olimpico di Londra.
I paesaggi industriali urbani, desolanti e crepuscolari che hanno ispirato l’artwork li ritroviamo tra i solchi del disco, in un’alternanza di silenzi e di miniature sonore, cortometraggi immaginifici. Quando si ascolta “Big Shot” tra arpeggi di chitarra, tastiere avvolgenti e voce sussurrata, una lacrimuccia si fa strada tremante, tratteggiando un paesaggio sonoro che provoca la catarsi dell’anima. Graham Sutton tornerà a sorpresa solo 10 anni più tardi a rispolverare il nome Bark Psychosis con un album, Codename: Dustsucker, che provoca qualche sussulto per le atmosfere simili al predecessore pur non eguagliandone l’impatto sonoro ed onirico. Album che vede dietro i tamburi Lee Harris dei Talk Talk.
Chiudiamo il podcast con quello che, in questi tempi oscuri, speriamo possa essere di buon auspicio almeno per un cessate il fuoco in una regione martoriata, anche se ogni giorno che passa la speranza sembra affievolirsi. Jonny Greenwood, chitarrista dei Radiohead, si è trasferito a Monsampietro Morico, nelle Marche, assieme alla moglie israeliana Sharona Katan, ed ha sempre amato l’esplorazione delle diverse culture musicali del Medio Oriente. Proprio insieme al musicista israeliano Dudu Tassa, e sotto la supervisione del sodale Nigel Godrich, ha registrato e pubblicato un album dal titolo programmatico, Jarak Qaribak, che tradotto in italiano significa “il tuo vicino è tuo amico”. Greenwood ha ascoltato per la prima volta la musica di Tassa durante un viaggio in Israele con i Radiohead all’inizio degli anni 2000, per poi collaborare qualche anno più tardi all’album di Tassa del Basof Mitraglim Le’Hakol. Tassa ha anche fatto da supporto per i Radiohead nel tour della band inglese del 2017.
Il disco teoricamente non ha un risvolto politico ed è stato pubblicato il 9 giugno 2023, prima dell’escalation drammatica della situazione tra Israele e Palestina. Per inquadrare il disco, Greenwood ha detto che il suo intento era “cercare di immaginare cosa avrebbero fatto i Kraftwerk se fossero stati al Cairo negli anni ’70”. All’interno ci sono tracce originarie di diverse regioni del Medio Oriente (Emirati Arabi, Yemen, Giordania, Algeria, Palestina, Egitto e Marocco) che, per sottolineare il processo di fratellanza artistica, sono state cantate da un artista proveniente da un paese differente da quello di provenienza del brano. La mia scelta è caduta su Ya Mughir Al-Ghazala, canzone Yemenita cantata dall’iracheno Karrar Alsaadi, sperando che possa davvero esserci presto uno spiraglio di luce e di speranza in quelle terre martoriate.
Un grazie speciale va, come sempre, a Franz Andreani per la sua passione, la gestione di questa banda di pazzi e per la splendida riorganizzazione del sito già attiva da qualche anno. A cambiare non è stata solo la versione grafica del sito, ma anche la “filosofia” della podradio, con le rubriche che vanno ad integrarsi nella programmazione regolare sotto l’hashtag #everydaypodcast. Sulla nostra pagina Facebook troverete quotidianamente ogni upload del sito e, ormai da tempo, è attivo anche lo splendido canale YouTube della Radio, una nuova formula senza interruzioni ne spot per ascoltare la vostra-nostra musica preferita. Iscrivetevi numerosi, vi aspettiamo!
Nel prossimo episodio troverete il ripescaggio degli Scheer, un piccolo viaggio nella musica elettronica e un atterraggio sulla nostra penisola. Il tutto sarà, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
Intanto se volete potete sfruttare la parte riservata ai commenti qui sotto per darmi suggerimenti, criticare (perché no), o proporre nuove storie musicali. Mi farebbe estremamente piacere riuscire a coinvolgervi nella programmazione e nello sviluppo del mio sito web.
Per suggerimenti e proposte, scrivetemi senza problemi all’indirizzo e-mail stefano@stefanosantoni14.it.
Potete ascoltare o scaricare il podcast anche dal sito di Radio Rock The Original cliccando sulla barra qui sotto.
Buon Ascolto
TRACKLIST
01. THE FALL: I Am Damo Suzuki da ‘This Nation’s Saving Grace’ (1985 – Beggars Banquet)
02. CAN: Paperhouse da ‘Tago Mago’ (1971 – United Artists Records)
03. MC5: Kick Out The Jams da ‘Kick Out The Jams’ (1969 – Elektra)
04. 90 DAY MEN: Exploration Vs. Solution, Baby da ‘(It (Is) It) Critical Band’ (2000 – Southern Records)
05. SCRAPING FOETUS OFF THE WHEEL: The Throne Of Agony da ‘Nail’ (1985 – Self Immolation)
06. PAVEMENT: Cut Your Hair da ‘Crooked Rain, Crooked Rain’ (1994 – Matador)
07. IDLES: Jungle da ‘TANGK’ (2024 – Partisan Records)
08. SCARCE: Days Like This da ‘Deadsexy’ (1995 – A&M Records)
09. THE MEN: Bird Song da ‘New Moon’ (2013 – Sacred Bones Records)
10. ELBOW: Red da ‘Asleep In The Back’ (2001 – V2)
11. THE BLUE NILE: Tinseltown In The Rain da ‘A Walk Across The Rooftops’ (1983 – Linn Records)
12. JOSEF K: It’s Kinda Funny da ‘The Only Fun In Town’ (1981 – Postcard Records)
13. BARK PSYCHOSIS: Big Shot da ‘Hex’ (1994 – Circa)
14. DUDU TASSA, JONNY GREENWOOD: Ya Mughir Al-Ghazala (feat.Karrar Alsaadi) da ‘Jarak Qaribak – جرك قريباك’ (2023 – World Circuit – BMG)
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SEASON 18 EPISODE 12: “I Am Damo Suzuki” https://t.co/xCy5x7uHMv In questa nuova avventura in musica troverete il mio ricordo di Damo Suzuki e Wayne Kramer, il ritorno degli Idles e un finale colmo di speranza. #podcast
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