Dopo aver parlato di uno dei gruppi più amati ed unici come i Morphine è arrivato il momento di far tornare indietro la nostra macchina del tempo del Rock ‘N’ Roll fino ad una delle epoche d’oro della musica per andare a rendere i dovuti onori ad un gruppo che, pur avendo marchiato a fuoco quel periodo, spesso e volentieri non è ricordato come meriterebbe.
Forse non tutti sanno che la versione originaria della RNR Time Machine aveva esordito su queste onde sonore sei anni fa promettendo (in maniera clamorosamente ottimistica) l’approfondimento di un anno in musica alla volta. Quella serie di podcast era partita dal 1967 per una duplice ragione. La prima (squisitamente personale) era ovvia, visto che si tratta del mio anno di nascita, la seconda invece mi sembrava storicamente attendibile, visto che in qualche modo il 1967 è considerato il punto di svolta nella storia della musica popolare per come la conosciamo noi. L’aspetto musicale dell’epoca era profondamente intrecciato al tessuto sociale e politico dell’epoca riuscendo in qualche modo a far cadere le barriere stilistiche, geografiche, razziali, e portando alla luce un modo nuovo di muoversi nel mondo dei suoni. Una modalità curiosa, mutevole, vibrante. Così, oltre alla famosa Summer of Love che lanciò nomi come Jefferson Airplane e Jimi Hendrix, nel 1967 ci fu l’esplosione della psichedelia britannica con i Pink Floyd e i Kaleidoscope, l’album forse più maturo e consapevole dei Beatles, che, grazie alla loro superiore qualità di scrittura e ai mezzi tecnici degli Abbey Road Studios (che nessuno all’epoca poteva permettersi), pubblicarono l’importantissimo e ambizioso Sgt.Pepper’s Lonely Hearts Club Band. Vogliamo parlare dell’importanza del debutto dei Velvet Underground? Con la sua copertina iconica e per tutto quello che ha significato per la musica e l’arte nei decenni a seguire? E ancora, dell’esordio di Captain Beefheart, dei Doors e dei Traffic, della scrittura di Leonard Cohen, della follia free-form dei Red Crayola, della definitiva consacrazione di Rolling Stones, The Byrds, Tim Buckley, Buffalo Springfield, della radio pirata dei The Who e, last but not least della satira sociale di Frank Zappa.
Tutto questo e molto altro aveva creato dei tasselli capaci di incastrarsi perfettamente andando a formare un puzzle dalle notevoli varianti stilistiche e dalla qualità di produzione musicale senza precedenti. Non dimentichiamo che gli artisti britannici di quegli anni sono figli di un dopoguerra estremamente duro segnato dalla povertà e dalla paura, da un paese dilaniato dalle bombe che riesce a superare una prova estremamente dura. Negli States naturalmente era molto diverso, la rivoluzione del rock era già arrivata, ma il 1967 fa iniziare un periodo di grande scambio culturale che segnerà un’epoca.
Anche se devo cercare di rimanere più obiettivo possibile in questa avventura alla guida della Macchina del Tempo del Rock, non ho mai nascosto nei podcast registrati per Radio Rock The Original, il fatto che i Love sono sempre stati tra le mie band preferite in assoluto uscite dagli anni ’60. Il gruppo fu importante non solo perché è stato uno dei primi gruppi multirazziali negli Stati Uniti, ma per il visionario e riuscito mix di psichedelia e suggestioni beat dove si va ad innestare una fantastica componente orchestrale che al posto di appesantire il suono lo va a dirigere magistralmente verso il cielo.
Visto che abbiamo a disposizione questa RNRTM saliamoci di nuovo e torniamo indietro nel tempo a ripercorrere la storia di questa band fondamentale partendo dalle origini dei due punti fermi del gruppo che, nonostante siano stati quasi coetanei, non avrebbero potuto essere più diversi fisicamente e caratterialmente.
Arthur Porter Taylor nasce a Memphis, nel Tennessee, il 7 marzo 1945, un bambino afroamericano dato alla luce da Agnes Porter, un’insegnante di scuola elementare. Il padre, Chester Taylor, suonava la cornetta in una band jazz locale, e nonostante non fosse un padre propriamente “presente” (per usare un eufemismo) ebbe comunque il grande merito di far interessare il figlio alla musica. Figlio unico, Arthur da piccolo veniva chiamato “Po”, abbreviazione di Porter, e, vista l’assenza quasi totale del padre, veniva accudito da altri membri della famiglia per permettere alla madre di proseguire la sua carriera di insegnante. Appassionato sin da piccolo di alcuni musicisti blues che ascoltava alla radio come Howlin’ Wolf e Muddy Waters, a quattro anni, Lee fece il suo debutto sul palco di una chiesa battista, recitando una piccola poesia su un telefono rosso (che ritroveremo come titolo di uno dei brani del disco più noto dei Love). Quando aveva sette anni, Arthur e la madre, approfittando del fatto che il padre era al lavoro, fecero le valigie e presero un treno per la California stabilendosi a Los Angeles. Tre anni dopo, nel 1955, la mamma di Arthur ottenne il divorzio e sposò un operaio edile chiamato Clinton Lee, che adottò legalmente Arthur nel 1960. A quel punto la madre fu in grado di riprendere la sua carriera di insegnante, e la famiglia Lee acquistò una nuova casa nella zona di West Adams, nel centro-sud di Los Angeles, dove viveva anche Johnny Echols, che frequentava la stessa scuola di Lee e che in seguito diventerà il chitarrista principale dei Love.
Lee frequentava la Sixth Avenue Elementary School, ma nonostante avesse diverse pressioni dal punto di vista scolastico, era molto più attratto dallo sport, visti i suoi successi nell’atletica leggera. Una volta passato alla Mount Vernon Junior High, il suo interesse per la musica superò una volta per tutte la sua passione per lo sport. In realtà il primo approccio con uno strumento fu con la fisarmonica, ma nonostante prendesse lezioni, non era un granché interessato alla teoria musicale. Fortunatamente il giovane Lee aveva uno straordinario orecchio naturale e una volta diplomatosi le sue ambizioni musicali trovarono diverse opportunità nella comunità locale e tra i compagni di classe, portandolo ad iniziare una carriera musicale al posto di sfruttare una borsa di studio per lo sport. Fu proprio per l’insistenza dell’amico Johnny Echols, estasiato da un’esecuzione di “Johnny B. Goode” durante un’assemblea scolastica che Lee si convinse ad intraprendere il suo percorso.
La sua prima registrazione conosciuta risale al 1963. “The Ninth Wave” fu pubblicato dalla sua prima band, il gruppo strumentale The LAGs, band creata sulla falsariga di Booker T & The MG’s che comprendeva l’amico di sempre Johnny Echols (chitarra), lo stesso Lee (organo), Allan Talbert (sassofono) e Roland Davis (batteria). Nel 1964 produsse per la cantante R&B Rosa Lee Brooks il singolo “My Diary”, (brano scritto quando Arthur era un adolescente per la sua fidanzata Anita Billings) che vedeva la partecipazione di Jimi Hendrix alla chitarra. Il brano fu pubblicato dalla Revis Records. In un’intervista del 2005, Lee dichiarò che all’epoca era alla ricerca di un chitarrista con un feeling simile a quello di Curtis Mayfield, e Hendrix gli fu raccomandato per la sessione dal proprietario dell’etichetta Billy Revis.
“Luci Baines”, una canzone sulla figlia del presidente Lyndon Johnson, venne eseguita e registrata dal nuovo gruppo di Lee, The American Four. Dopo aver assistito a un’esibizione dei Byrds, Lee decise di formare una nuova band capace di unire il suono folk-rock dei Byrds, che all’epoca andava per la maggiore, al suo stile prevalentemente rhythm and blues.
Come detto Bryan Andrew MacLean non avrebbe potuto essere più diverso. Nato a Los Angeles il 25 settembre 1946, era biondo e bianco, la madre era un’artista e una ballerina, mentre il padre era architetto per celebrità hollywoodiane come Elizabeth Taylor e Dean Martin. Il vicino di casa Frederick Loewe, del team di autori di canzoni Lerner & Loewe, lo riconobbe come un “genio melodico” all’età di tre anni mentre scarabocchiava al pianoforte. Le sue prime influenze furono Billie Holiday e George Gershwin, anche se confessò di avere un’ossessione per Elvis Presley. Imparò a nuotare nella piscina di Elizabeth Taylor e l’attore Robert Stack era un buon amico di suo padre. MacLean apparve nel film di Cary Grant del 1957 “Un Amore Splendido”, cantando nella classe di musica del personaggio di Deborah Kerr. Appassionato di musica folk, fratellastro di Maria McKee, venne folgorato dai Beatles all’età di 17 anni iniziando a suonare la chitarra a livello professionale nel 1963. Trovò lavoro al Balladeer di West Hollywood (che l’anno dopo cambierà nome in Trobadour), come one man band. La sua routine regolare era un misto di canzoni folk degli Appalachi e blues del Delta. Qui conobbe Gene Clark e Roger McGuinn, i fondatori dei Byrds, mentre provavano in duo. Dopo aver conosciuto anche David Crosby, MacLean diventò roadie e manager dell’equipaggiamento nel tour che i Byrds intraprendono per promuovere il loro primo singolo, “Mr. Tambourine Man”, ma quando i Byrds partirono per il loro primo tour nel Regno Unito, MacLean fu lasciato a casa. La delusione fu parecchia, acuita da un’audizione non andata a buon fine con i Monkees.
Nel frattempo Arthur Lee, folgorato da un concerto proprio dei Byrds, come detto in precedenza, aveva deciso di formare una band che potesse unire il folk-rock dei Byrds, al suo amato rhythm and blues. Il risultato fu un gruppo chiamato The Grass Roots, formato insieme (ancora una volta) all’inseparabile amico d’infanzia Johnny Echols (chitarra solista e voce). Ai due si unirono Johnny Fleckenstein (basso), e Don Conka (batteria). La leggenda differisce sull’incontro tra Lee e MacLean nella primavera del 1965. C’è chi afferma sia stato un incontro proprio al concerto dei Byrds dove MacLean era roadie, c’è invece chi parla di un passaggio che Lee diede al futuro sodale nei Love sulla sua auto percorrendo la Sunset Strip. In ogni caso il risultato fu il medesimo: il biondo chitarrista si unì alla combriccola che suonava regolarmente in un club chiamato Brave New World. Certo, per i due trovare un equilibrio fu tutt’altro che facile, visto che c’era questo strisciante (e a volte manifesto) dualismo che portava ognuno a cercare di imporre le proprie idee. Lee era il frontman e il maggior compositore, ma MacLean era più popolare nel giro che contava, quindi in fondo questa “forzata” sinergia faceva comodo ad entrambi. Poco tempo dopo, Conka fu sostituito da Alban “Snoopy” Pfisterer, mentre il bassista Johnny Fleckenstein, preferì unirsi agli Standells, sostituito da Ken Forssi. La band iniziò a farsi un nome tra gli addetti ai lavori, ma dovettero prima risolvere un problema di “ragione sociale”. Un produttore che aveva offerto i propri servigi al gruppo si era visto declinare l’offerta da Lee, cosa che non era stata presa proprio benissimo… Per vendicarsi, questo produttore aveva messo sotto contratto un’altra band e gli aveva prodotto un brano pubblicato proprio sotto il nome Grass Roots. A quel punto Lee aveva due strade da seguire: andare in tribunale o cambiare ragione sociale. Dopo attenta riflessione la band scelse la seconda opzione facendo scegliere il nuovo nome, in maniera estremamente democratica, all’audience di un loro concerto. Il nome scelto fu quello universale che conosciamo tutti. Certo sarebbe difficile associare Lee e compagni ad un altro nome come Asylum’s Choir non siete d’accordo?
Lee, MacLean, Echols, Pfisterer e Forssi iniziarono a suonare nei club di Los Angeles nell’aprile del 1965 e divennero in breve una popolare attrazione locale, guadagnandosi l’attenzione di gruppi ormai sulla cresta dell’onda come Rolling Stones e Yardbirds. La band viveva in comune in una casa chiamata “The Castle”, un palazzo fatiscente in cui la band poteva vivere se si occupava della manutenzione e pagava le tasse. Secondo John Einerson autore del libro sui Love intitolato “Forever Changes”, la foto di copertina dei loro primi due album fu scattata proprio nel giardino della villa, situata nella zona di Laurel Canyon, quartiere importante in direzione nord-sud tra la città di West Hollywood e la San Fernando Valley, sede di innumerevoli feste a base di peace, love, drugs & rock ‘n’ roll.
Tra le etichette interessate a mettere il gruppo sotto contratto la spuntò la Elektra Records, fino a quel momento impegnata solo nella produzione di musica folk, ma interessata ad allargare le proprie vedute. Per farsi subito amico MacLean, Lee utilizzò l’anticipo della casa discografica per comprarsi una macchina. Potete immaginare facilmente le conseguenze… In ogni caso ad inizio 1966 il quintetto entrò in studio, ci restò per quattro giorni e il risultato, l’album di esordio intitolato semplicemente Love, venne pubblicato a marzo. L’album, introdotto da “My Little Red Book”, brano a firma Burt Bacharach & Hal David, vendette moderatamente bene raggiungendo il N. 57 della classifica Billboard 200. Il singolo divenne il più venduto dei Love arrivando al N.33 della Billboard Hot 100. Il gruppo passò alla storia anche come uno dei primi ad avere in ogni album un proprio riconoscibile marchio: il direttore artistico della Elektra, William S. Harvey, disegnò un logo distintivo per la band, “quattro lettere cartoonesche con serif esagerati e curvilinei”, incorporando simboli maschili e femminili. Il disco mostra la personale rivisitazione del trend del momento, il folk rock, declinato in maniera psichedelica ed espressiva, con alcune spigolosità non smussate ed una sorta di lento blues dedicato all’ex batterista Dan Conka come “Signed D.C.”. Lee fa la parte del leone come compositore: 7 delle 14 tracce portano la sua firma esclusiva, solo una, la splendida “Softly To Me”, è a firma MacLean. Pochi mesi dopo, nel luglio del 1966, ecco uscire il singolo “7 And 7 Is”, anticipazione del secondo album. Il brano venne composto da Lee ai Colonial Apartments di Hollywood. Il testo parla della sua quotidianità da ragazzo, mentre il titolo fu ispirato ancora una volta dalla sua ragazza del liceo, Anita Billings, dato che entrambi erano nati il 7 marzo. Mentre la band sperimentava in studio effetti come il feedback e il basso fuzz, cercando di catturare un suono di “caos controllato”, la canzone si evolveva in quella che è considerata una delle canzoni più esplosivamente aggressive degli anni ’60, ed ascrivibile a quel sottogenere chiamato proto-punk.
Le cose si muovevano in fretta al “The Castle”. Nel novembre 1966 ecco arrivare Da Capo, secondo album in studio che vedeva la band ampliata a 7 elementi con l’arrivo di Tjay Cantrelli (vero nome John Barbieri) ai fiati e Michael Stuart-Ware alla batteria, con Pfisterer (che aveva condotto la ritmica di “7 And 7 Is” dirottato a organo e harpsichord. A rinnovarsi non era solo la formazione, ma anche il suono che iniziò a prendere la forma desiderata dal suo leader. La genesi del titolo è curiosa. Lee chiese a Pfisterer, l’unico membro della band in grado di leggere la musica, il termine musicale per tornare all’inizio, e lui rispose “Da Capo” termine musicale italiano che significa (come sappiamo bene) “dall’inizio” e spesso abbreviato sul pentagramma in D.C. La copertina dell’album, disegnata come quella dell’esordio da William S. Harvey, mostra una foto incorniciata della band nella stessa casa di Laurel Canyon presente sulla copertina del loro primo album, mentre il retro copertina è una foto scattata da Guy Webster nell’ufficio al piano superiore del noto locale Whisky a Go Go. Echols ha dichiarato che è stato l’unico servizio fotografico realizzato dalla band in cui hanno posato in uno studio, perché “per tutte le altre cose eravamo fuori”. Il disco mostra una grande diversità di stili, con ogni canzone che sembra essere il ritratto di un sottogenere del rock. Sul primo lato del disco ci sono sei tracce che esplorando tutte le influenze stilistiche della band, dal garage della già vivisezionata “7 And 7 Is” all’onirico pop barocco della splendida “Orange Skies” scritta da MacLean, dalla psichedelia di “Stephanie Knows Who” alle influenze latine di “¡Que Vida!”. “Revelation”, che occupa tutto il secondo lato, combina rock, blues, rhythm and blues, psichedelia, jazz e classica. Il brano in realtà era nato come una jam session suonata nei primi live set della band e chiamata “John Lee Hooker”, capace di prolungarsi fino a sfiorare l’ora di durata. La controversa decisione di dedicarle l’intero secondo lato di Da Capo è stata oggetto di molte speculazioni, ma in realtà in quell’epoca era semplicemente molto popolare fare canzoni lunghe. La band registrò 45 minuti della jam che il produttore Paul A. Rothchild poi editò. La parte al clavicembalo di Pfisterer, che citava apertamente Johann Sebastian Bach, fu inserita all’inizio e alla fine del brano. In realtà fu l’unica canzone dell’album che, a posteriori, non piacque alla band. Se il singolo “7 And 7 Is” aveva raggiunto il N.33 nella classifica dei singoli negli States, l’album andò bene ma non benissimo, raggiungendo solo il numero 57 della Billboard Top LPs.
Il gruppo tornò negli studi Sunset Sound Recorders di Hollywood il 9 giugno del 1967, agli albori di quella che noi conosciamo come Summer Of Love. I Love, anziché sfruttare la popolarità ottenuta dal successo dei primi due album si era come ripiegata su sé stessa. Arthur Lee, caratterino non certo equilibrato, era riluttante ad andare in tour, rifiutando addirittura di andare ad un festival storico come il Monterey Pop Festival, mentre il dualismo interno con MacLean ed esterno con i compagni di etichetta The Doors raggiungeva vertici storici. In aggiunta Alban “Snoopy” Pfisterer e Tjay Cantrelli avevano già abbandonato la partita e i cinque membri superstiti erano preda di eccessi con alcool e droghe. In quel giorno di giugno il produttore Bruce Botnick aveva trovato una band a pezzi, squassata da conflitti interni, droghe e alcool, tanto da dover “affittare” alcuni turnisti (Billy Strange alla chitarra, Don Randi al pianoforte, Hal Blaine alla batteria e Carol Kaye al basso) per le sessioni in studio in attesa della ripresa fisica e psichica dei “titolari”.
Le registrazioni finirono contestualmente alla fine della Summer Of Love, il 25 settembre 1967 e Forever Changes venne pubblicato il 1 novembre. Le canzoni riflettevano sullo scetticismo di Lee nei confronti del movimento flower power. In quanto membro della controcultura degli anni ’60, Lee capiva intuitivamente che lasciare entrare la luce del sole non avrebbe vaporizzato all’istante le cose oscure del mondo (o le proprie). Il titolo dell’album deriva da una storia che Lee aveva sentito su un amico che aveva rotto con la sua ragazza. Lei esclamò: “Hai detto che mi avresti amata per sempre!” e lui rispose: “Beh, il per sempre cambia”. Nonostante questo l’album, registrato in quattro lunghi mesi, è un miracolo di equilibrio e di melodie affascinanti, senza punti deboli. Fin troppo articolato, con una sezione di archi a creare arrangiamenti sinfonici, turnisti, registrazioni frammentate e lunghe, situazione psicofisica instabile, non mancava nulla per rendere Forever Changes un fallimento epocale. E invece Botnick fece il miracolo, assemblando un album che, a posteriori, rimane come uno dei capolavori più importanti di un anno (e un’epoca) che di capolavori ne ha sfornati in quantità industriale. A posteriori perché in realtà Forever Changes non andò oltre la posizione N.154 negli Stati Uniti, la più bassa dei loro primi tre album, mentre paradossalmente (ma nemmeno tanto) il disco ebbe un successo molto maggiore oltreoceano, dove raggiunse la posizione N.24 della classifica britannica degli album nel 1968. Nonostante le sperimentazioni e l’uso degli archi il suono delle 11 tracce non risulta mai pesante, al contrario, si rivela in equilibrio perfetto tra folk, rock, pop e psichedelia come nelle perfette trame di “The Red Telephone” (ricordate la poesia letta da Lee quando aveva solo 4 anni?) o nell’incanto di “Alone Again Or” (scritta da MacLean) che apre l’intero lavoro. E che dire della psichedelica “The Daily Planet” o dell’andirivieni umorale di “Live And Let Live” o del finale lussureggiante di “You Set The Scene”? Ma più che i brani singoli è l’atmosfera totale che a distanza di 56 anni ancora affascina e coinvolge, assumendo lo status non solo di album di culto ma di vera e propria pietra miliare. Una menzione a parte, sicuramente, la merita lo splendido artwork, stavolta appannaggio dell’’acclamato illustratore Bob Pepper, noto per il suo lavoro sulla copertina di molti romanzi di Phillip K. Dick. La copertina si abbina perfettamente alla musica, un’illustrazione dai colori vivaci e brillanti a forma di cuore creata con i volti dei membri della band. Pepper, intervistato sulla creazione di questa iconica copertina disse: “Un giorno mi chiamò Bill Harvey [direttore artistico della Nonesuch, una sussidiaria della Elektra], e voleva che facessi la copertina di questo album per i Love. Era il periodo in cui c’erano molti gruppi rock davvero validi, ma i Love non mi piacevano affatto. Ma accettai e, dato che mi piacevano molto l’Art Deco, l’Art Nouveau, e anche l’arte psichedelica, combinai elementi di tutto questo. Ho messo insieme le loro teste (utilizzando le foto di ciascuno dei cinque membri scattate da un fotografo sconosciuto nella primavera del 1967 – fonte: My Little Red Book: Love Day-By-Day, 1945-1971 di Bruno Ceriotti) e ho reso i loro capelli come un elemento di design, e il colore della pelle era, tipo, solarizzato, in modo che le ombre fossero verdi e la parte bianca fosse rossa o qualcosa del genere. L’ho messo su uno sfondo bianco ed era centrato. Tuttavia, Bill Harvey ha cambiato il mio design. Voglio dire, credo che l’abbia cambiato. Perché avevo le labbra del personaggio principale chiuse e poi, quando fu stampato, ci aveva disegnato un sorriso! E non si adattava ai lati delle labbra. E questo è il modo in cui è venuto fuori, e non mi è piaciuto per niente. L’ha fatto senza chiedermi o dire nulla al riguardo. Mi è successo un paio di volte: un direttore artistico ha cambiato la mia illustrazione”.
Come accade purtroppo spesso, lo scarso successo di pubblico aumentò le spaccature all’interno del quintetto e acuì la crisi esistenziale di Arthur Lee. Il tour di supporto al disco fu un vero disastro. MacLean, che si sentiva sempre più in competizione con Lee, decise di lasciare la band probabilmente anche per l’offerta da parte dell’Elektra di un contratto da solista che fu stracciato in quanto i suoi demo furono rifiutati dall’etichetta. Johnny Echols e Ken Forssi cedettero alla tossicodipendenza e alla criminalità e scomparvero dalla scena musicale. Il primo si riprese, trasferendosi a NYC e diventando un ricercato sessionman, mentre anche il batterista Michael Stuart si ritirò dalle scene. In questo scenario apocalittico nemmeno Lee se la passava benissimo, vittima delle sue ossessioni, ma nonostante tutto, in maniera non propriamente lucida, cercò di rimettere in piedi una band credibile.
I nuovi Love presentarono una formazione composta da Lee alla voce e alla chitarra, Jay Donnellan alla chitarra, Frank Fayad al basso e George Suranovich alla batteria, nonostante alcuni brani in cui compare il batterista di The Crazy World of Arthur Brown, Drachen Theaker. Il gruppo tentò una sorta di colpo di coda pubblicando nel 1968 un nuovo singolo intitolato “Your Mind and We Belong Together” che non riuscì di nuovo ad entrare in classifica. Il fondatore della Elektra, Jac Holzman, non voleva lasciare Lee fuori dal suo contratto perché ne ammirava il talento, ma non voleva nemmeno tenere al guinzaglio un artista che non voleva restare, così fu trovato un accordo che permise a Lee di registrare per la Blue Thumb (etichetta californiana indipendente diretta da Bob Krasnow) e Holzman poté scegliere dieci delle canzoni risultanti per adempiere al contratto Elektra di un quarto album. Quell’album sarebbe diventato Four Sail, gioco di parole di Lee sul suo titolo originale “For Sale”. Appena tre mesi dopo, la Blue Thumb Records pubblicò l’album Out Here, utilizzando i brani rimanenti delle sessioni.
Four Sail, uscito nel settembre 1969, vedeva il sognante folk rock psichedelico del disco precedente spogliato da tutta la parte orchestrale e una virata verso il rock blues che, in teoria, doveva aumentarne le velleità commerciali. In teoria appunto, perché il disco non entrò nemmeno nella Top 100 della classifica americana fermandosi al N.102, nonostante la presenza di brani come l’onirica “Always See Your Face” che chiude l’intero lavoro (ed è stata inclusa nella colonna sonora dell’adattamento cinematografico del libro Alta Fedeltà di Nick Hornby) o dell’ottima “Robert Montgomery” capace di rispolverare in qualche modo la vocazione psichedelica del gruppo.
Out Here era invece addirittura un doppio album dove a suonare sono gli stessi musicisti di Four Sail con l’aggiunta di Gary Rowles che qui sostituisce Donnellan in un brano prima di sostituirlo definitivamente. Il disco risulta disomogeneo ma saltuariamente interessante come nel folk-rock della conclusiva “Gather ‘Round” o nell’ottima “I Still Wonder”. Neanche a dirlo, l’album fu un altro fiasco commerciale negli States piazzandosi al N.176 mentre il tour britannico seguente alla pubblicazione del disco ebbe un’ottima influenza sul pubblico portando oltremanica il disco tra i primi 30 (N.29) nel maggio del 1970. Durante le sessioni iniziali di Four Sail e Out Here, Krasnow si rivolse a Lee per valutare la possibilità di riunire i membri originali dei Love, perché sentiva (e non era certamente l’unico) che nella nuova formazione mancasse un po’ di magia. Lee lo accontentò e iniziò a provare e persino a registrare con i membri originali, Echols, Forssi e Stuart (MacLean aveva rifiutato). Ma l’eroina era ancora troppo dominante nella vita di Echols e Forssi visto che entrambi impegnavano costantemente l’attrezzatura noleggiata per ottenere denaro per la droga e alla fine vennero lasciati andare ancora una volta.
L’album successivo dei Love fu False Start, pubblicato a fine 1970, che proseguiva con la direzione sonora più pesante dell’acid rock, oltre a presentare elementi di R&B classico. A questa incarnazione dei Love si aggiunse un nuovo membro, un cantante/chitarrista di nome Nooney Rickett. Il brano di apertura dell’album, “The Everlasting First”, vede la partecipazione di Jimi Hendrix alla chitarra, che Lee conosceva da qualche anno. I due provavano una stima reciproca e le affinità caratteriali e di origine avevano in qualche modo cementato un’amicizia che sarebbe potuta sfociare in una più fattiva collaborazione se Hendrix non ci avesse lasciato in quel maledetto 18 settembre del 1970. Dopo la morte dell’amico, Lee in qualche modo iniziò a sentirsi l’erede di Hendrix, ed il rock-blues diventò il suo territorio di caccia. Un altro album di questa incarnazione del gruppo fu registrato nel 1971, ma il materiale, che doveva far parte di un album intitolato in origine Dear You, vedrà la luce solo nel 2009 sotto il titolo di Love Lost, album che comprende anche alcuni demo acustici.
Arthur Lee pubblicò l’album solista Vindicator nel 1972 con quasi gli stessi musicisti di Love Lost. Un altro album “perduto” dei Love, intitolato Black Beauty, fu registrato nel 1973 da una nuova formazione composta esclusivamente da afroamericani, con il chitarrista Melvan Whittington, il bassista Robert Rozelle e il batterista Joe Blocker, ma la nuova etichetta discografica di Arthur Lee, la Buffalo, fallì prima della pubblicazione. L’album è stato infine pubblicato dalla High Moon Records nel 2012 con i brani restaurati dai nastri originali conservati da un amico di Lee. Il disco in realtà non è male, con le influenze soul e funk ad allargare lo spettro sonoro rock-blues che era ormai il nuovo pane quotidiano di Lee. Proprio le influenze più tipicamente black riempirono i solchi del settimo e ultimo album ufficiale dei Love, Reel to Real, pubblicato nel dicembre del 1974, e registrato da Lee insieme ai musicisti di Black Beauty e altri session men. Il disco fu originariamente pensato come parte di un contratto per due album con la RSO Records di Robert Stigwood. “Everybody’s Gotta Live” Un ammiratore di lunga data di Arthur Lee, Skip Taylor, si rivolse all’etichetta e convinse Stigwood a dare a Lee, che in precedenza non aveva avuto successo commerciale, il più grande anticipo che avesse mai ricevuto, seguito dalla più grande opportunità di tournée che qualsiasi incarnazione dei Love avesse mai intrapreso, aprendo per artisti come Lou Reed ed Eric Clapton. Nemmeno a dirlo, il tour fu un disastro a causa del comportamento sempre più irregolare di Lee.
Nel corso degli anni Settanta e Ottanta, ci furono vari tentativi di riunire la formazione originale dei Love. Su suggerimento del chitarrista John Sterling, che per la prima volta si era unito ad Arthur lee per Reel-To-Real, uno di questi spettacoli, tenutosi al Whisky A Go Go nell’ottobre del 1978, fu registrato da Sterling su cassetta. Il concerto, che vedeva la partecipazione di Lee e Bryan MacLean con Sterling (chitarra), George Suranovich (batteria) e Kim Kesterson (basso), fu pubblicato come album dal vivo intitolato Love Live (1980) su Rhino Records. Gli anni Ottanta sono stati un periodo di silenzio per Lee, capace solo di sporadiche esibizioni sul palco. In un’intervista Lee ha detto: “Sono stato via per un decennio. Sono tornato nel mio vecchio quartiere per prendermi cura di mio padre, che stava morendo di cancro. Ero stanco di firmare autografi. Ero stanco di farmi fregare i soldi… mi ero semplicemente stancato di tutto”.
Lee riemerse musicalmente nel 1992 con un nuovo album intitolato Arthur Lee & Love (poi ristampato nel 2003 come Five String Serenade) per l’etichetta francese New Rose. Il brano che apre l’album, “Five String Serenade”, è stato successivamente registrato nel 1993 dai Mazzy Star nello splendido So Tonight That I Might See e da Jack White dei White Stripes. Alla fine del 1996, Lee venne condannato a 12 anni per aver usato un’arma da fuoco per sbaglio. In virtù della legge californiana sui tre reati, Lee fu costretto a scontare una pena detentiva, avendo già scontato due anni di carcere per incendio doloso ed essendo stato accusato di vari reati di droga, guida e aggressione. Lee negò sempre di aver sparato ma nonostante questo, venne pronunciato colpevole, riuscendo ad uscire dal carcere il 12 dicembre 2001, dopo aver scontato 5 anni e mezzo della sua condanna originaria, solo in quanto il procuratore del suo processo era stato giudicato colpevole di cattiva condotta.
Gli ex compagni di band Bryan MacLean e Ken Forssi sono morti entrambi nel 1998 mentre Lee era in detenzione, mettendo fine a qualsiasi speculazione su una vera e propria reunion dei Love.
Una volta uscito dal carcere, nel 2002, Lee ha iniziato una vera e propria tournée con il nome di “Love with Arthur Lee”. Questa incarnazione dei Love era composta dai membri della band Baby Lemonade. Il gruppo iniziò a eseguire l’album Forever Changes nella sua interezza, spesso con una sezione di archi e fiati. Un CD e un DVD dal vivo di questo materiale sono stati pubblicati nel 2003. Johnny Echols si unì al nuovo gruppo per una performance speciale del Forever Changes 35th Anniversary Tour alla Royce Hall, UCLA, nella primavera del 2003 e occasionalmente durante il tour finale del 2004 e del 2005.
In quel periodo, a Lee venne diagnosticata una leucemia mieloide acuta. Scegliendo di non rivelare la sua malattia alla band, annunciò che non avrebbe potuto partecipare al tour finale nel luglio 2005. Poiché nessuno dei musicisti conosceva le ragioni della sua assenza, questa decisione di rinunciare al tour finale fu accolta con reazioni contrastanti. I restanti membri della band, insieme a Echols, hanno continuato a esibirsi nei luoghi dell’ultimo tour (nel luglio 2005) senza Lee, con il nome di The Love Band. Lee si sottopose a diversi mesi di cure per la leucemia, tra cui la chemioterapia e un trapianto sperimentale di cellule staminali. Nonostante le cure, le sue condizioni continuarono a peggiorare e morì per complicazioni della leucemia a Memphis, nel Tennessee, il 3 agosto 2006, all’età di 61 anni.
È quasi una costante di questi episodi della RNRTM: musicisti straordinari, album entrati di diritto nella storia, ma un tiepido riscontro da parte del pubblico. Arthur Lee è stato un musicista meraviglioso. Lui pensava di essere stato il primo degli artisti afroamericani ad avere successo negli anni della psichedelia, e probabilmente gli pesò più la mancata considerazione dei media che il semplice fatto che Jimi Hendrix abbia avuto più successo, anche perché, come detto, i due erano davvero buoni amici. In ogni caso i Love sono stati uno dei gruppi più importanti in quegli anni memorabili: il primo gruppo multirazziale, una posizione centrale nel folk rock psichedelico, un suono personale e imitato da numerosi musicisti che hanno additato Lee e i Love come fonti primarie di ispirazione. Ammetto di avere una predilezione per Forever Changes, ma ripercorrere la carriera di Arthur Lee e dei Love mi sembrava un atto di amore, appunto, dovuto per rivivere parte di quella stagione straordinaria per la musica come la intendiamo noi.
Il nono episodio della RNRTM finisce qui, l’invito è quello di ricoprire Arthur Lee e i Love, di restare sintonizzati su queste onde sonore perché la nostra macchina del tempo riesce davvero a portarci in ambientazioni musicali e umane davvero meravigliose.
Discography
Singles:
- 7 And 7 Is (7″ – 1966, Elektra)
- My Little Red Book (7″ – 1966, London Records)
- Stephanie Knows Who (7″ – 1966, Elektra)
- She Comes In Colors (7″ – 1966, Elektra)
- Softly To Me (7″ – 1967, Elektra)
- The Daily Planet (7″ – 1967, Elektra)
- Your Mind And We Belong Together (7″ – 1968, Elektra)
- The Everlasting First (7″ – 1970, Blue Thumb Records)
- I’m With You (7″ – 1970, Elektra)
- I’ll Pray For You (7″ – 1970, Blue Thumb Records)
- Time Is Like A River (7″ – 1974, RSO)
Albums:
- Love (1966, Elektra)
- Da Capo (1967, Elektra)
- Forever Changes (1967, Elektra)
- Out Here (1969, Blue Thumb Records)
- Four Sail (1969, Elektra)
- False Start (1970, Blue Thumb Records)
- Reel-To-Real (1974, RSO)
- Arthur Lee And Love (1992, New Rose Records)