Ecco il quinto podcast di Sounds & Grooves per il 18° anno di RadioRock.TO The Original
In questa nuova avventura in musica troverete qualche novità, un pizzico di follia e un trittico dedicato alla serie The Bear
Torna dopo la pausa estiva l’appuntamento quindicinale di Sounds & Grooves che per il 18° anno consecutivo impreziosisce (mi piace pensarlo) lo straordinario palinsesto di www.radiorock.to. 18 anni…siamo diventati maggiorenni!!!! A pensarci è incredibile che sia passato già così tanto tempo da quando abbiamo iniziato questa folle ma fantastica avventura. Come (credo) sappiate, la nostra podradio è nata per dare un segnale di continuità con quella meravigliosa radio del passato che molti custodiscono nel cuore e a cui ho provato a dare un piccolo contributo dal 1991 al 2000.
Sappiamo tutti benissimo che la Radio Rock in FM come la intendevamo noi è sparita da tanto tempo, ma in tutti questi anni di podcast sul web abbiamo cercato di tenere accesa quella fiammella per poi tentare di moltiplicarla, facendola diventare un faro di emozioni e qualità musicale. Perché la passione e la voglia di fare radio, la voglia di ascoltare e di condividere la musica di qualità, nonostante tutto, non ci è mai passata.
Questa creatura dopo quasi 4 lustri continua orgogliosamente a remare controcorrente, cercando quella libertà in musica che nell’etere è ormai diventata una mosca bianca, ed esprimendo con forza la passione per la condivisione, per la ricerca, per l’approfondimento. Non dobbiamo aderire ad una cieca linea editoriale che ormai spinge esclusivamente il pulsante play dei servizi di streaming, ma ci lasciamo guidare semplicemente dal nostro cuore e dalla nostra passione. Fulvio Savagnone, Marco Artico, Giampiero Crisanti, Franz Andreani, Flavia Cardinali, Francesco Cauli, Ivan Di Maro, Massimo Santori aka Moonchild, Maurizio Nagni ed io proviamo ogni giorno a coinvolgervi con i nostri podcast regolari e con le rubriche tematiche di approfondimento, sperando di farvi sentire sempre di più parte di questa fantastica avventura.
Questo quinto episodio stagionale ci porta subito nel vortice delle nevrosi e della creatività dei Nine Inch Nails per poi incontrare in rapida successione il potente talento di un’ispirata KY e il folk-pop sghembo di Tim Presley’s White Fence, dei Drinks (in compagnia di Cate Le Bon) e dei colorati Kamikaze Palm Tree. Ascolteremo in religioso silenzio le litanie di Reverend Kristin Michael Hayter (ex Lingua Ignota) e il nuovo corso delle britanniche Goat Girl per poi addentrarci nel songwriting ispirato ed inebriante di Meg Baird. Dopo aver ascoltato uno degli ultimi capolavori di un immenso Bob Dylan, ascolteremo tre brani tratti dalla colonna sonora della serie tv The Bear: l’ennesimo esempio dell’incredibile livello qualitativo dei R.E.M., la riscoperta dei Counting Crows ed un Sufjan Stevens ispirato dalla Windy City. A completare il tutto troverete le invernali e malinconiche ambientazioni scozzesi degli Arab Strap, e un nuovo album con cui i Lankum riescono a rivitalizzare meravigliosamente la tradizione. Il tutto, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
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Iniziamo il podcast con una creatura spietata e potente. Trent Reznor ha creato i Nine Inch Nails innestando in un corpo industriale l’anima di un cantautore tanto introspettivo quanto rabbioso. L’esordio nel 1989 con Pretty Hate Machine è di quelli da ricordare, il secondo concept The Downward Spiral addirittura un capolavoro di follia e rabbia condotto da Reznor ribattezzatosi per l’occasione “Mr.Self Destruct”. Con ogni probabilità lo splendido doppio album The Fragile, uscito nel 1999, è stato l’apice delle nevrosi e della creatività del suo leader che si è lasciato andare a briglie sciolte.
Lo stesso Reznor ha tentato di spiegare così la gestazione e la composizione del disco: “Volevo che questo album suonasse come se ci fosse qualcosa di intrinsecamente sbagliato nella struttura, come se qualcuno stesse lottando per mettere insieme i pezzi. The Fragile parte dalla fine, poi tenta di creare ordine dal caos, ma non raggiunge mai l’obiettivo”. “The Day The World Went Away” è stato il primo singolo estratto dal doppio lavoro, ed anche il primo ad entrare nella Billboard Hot 100 americana posizionandosi al N°17. Il brano, ossessionante e introspettivo, approfondisce i temi della decadenza, della soppressione emotiva e della ricerca della fuga. Il testo dipinge un quadro desolante di un mondo consumato dall’oscurità, dove l’autenticità e le emozioni sono state soffocate e svuotate. Con il successivo With Teeth (2005) è iniziato il lento declino del gruppo, che non è più riuscito a trovare il giusto spunto vincente.
L’etichetta canadese Constellation è sempre stata una fucina di talenti e di musiche non convenzionali di grande rilevanza. Non fa eccezione l’art rock di Ky, progetto “solista” di Ky Brooks, cantante e paroliere del trio noise-punk Lungbutter e di una serie di altri progetti out-music con base a Montréal, come la band queer punk di 8 persone Femmaggots e il trio sperimentale e di improvvisazione Nag. Ky è un punto fermo dell’underground musicale di Montréal, non solo come artista brillante ed estremamente attiva ma anche come ingegnere in studio di registrazione, fonico dal vivo per i Big|Brave e nei principali locali indie della città canadese. L’idea che ha portato al progetto solista nasce purtroppo da un tragico evento. Nel 2021 Joni Sadler, batterista delle Lungbutter è venuta a mancare per un improvviso aneurisma cerebrale, portando le due compagne nello sconforto e naturalmente alla chiusura immediata delle attività della ragione sociale.
Per esorcizzare in qualche modo questo dolore, Ky ha chiamato a raccolta alcuni amici musicisti come il chitarrista Mathieu Ball, il bassista Joshua Frank, il batterista Farley Miller, il sassofonista James Goddard (anche all’elettronica) per creare Power Is The Pharmacy, un album di art-punk cerebrale e viscerale “che parla principalmente di dolore, morte, paura della perdita, perdita dei sogni, perdita della giovinezza, delle persone, dello spazio pubblico e, in ultima analisi, di se stessi”. Una raccolta di canzoni emotivamente elettrizzante che spazia tra i generi e che è alimentata dalla penetrante poesia di Ky, sia cantata che espressa attraverso spoken words. “The Dancer”, con il moog di Nick Schofield, è uno dei vertici emozionali di un disco magistralmente composto ed eseguito.
Su queste pagine abbiamo parlato spesso di un personaggio davvero interessante come il songwriter americano Tim Presley. Dopo aver formato e sciolto i Darker My Love, il cantautore aveva fatto parte di una delle innumerevoli formazioni dei The Fall del compianto Mark E. Smith registrando con lo storico gruppo l’album Reformation Post TLC pubblicato nel 2007. Dopo una serie di album a nome White Fence, di cui uno in coabitazione con Ty Segall, Presley aveva iniziato a collaborare con la cantautrice gallese Cate Le Bon, formando i Drinks, gruppo in cui sfoggia una psichedelia declinata in maniera inusuale e deforme interpretata con una scrittura decisa e una forte personalità.
Nel 2019 Presley aveva rispolverato la vecchia sigla White Fence sfornando un album surreale già dal titolo: I Have To Feed Larry’s Hawk. Un disco che rimanda alle atmosfere deformi appartenenti a personaggi del passato come Alexander Skip Spence. Brani che sembrano sfocati salvo poi apparire all’improvviso in tutta la loro, a volte inquietante, precisione nel focalizzare i paesaggi avvolti nella nebbia del nord dell’Inghilterra dove Presley ha registrato il disco. Elettronica quasi giocattolo, pochi strumenti messi qua e la a creare atmosfere sognanti e spiazzanti, capaci di colpire al cuore come nella stralunata e commovente “Phone” che ho inserito nel podcast.
Visto che li abbiamo appena nominati, adesso siamo pronti per ascoltarli. Come detto in precedenza, Tim Presley aveva iniziato a collaborare con la cantautrice e produttrice gallese Cate Le Bon (suo il lavoro dietro al mixer nel nuovissimo album dei Wilco intitolato Cousin), formando i Drinks. E se con il suo primo lavoro a suo nome, The Wink (disco suonato in collaborazione proprio con Cate Le Bon insieme alla batterista Stella Mozgawa) Presley rimandava ad una psichedelia declinata in maniera inusuale e deforme interpretata con una scrittura decisa e una forte personalità, il secondo album dei Drinks mantiene le ottime premesse dell’esordio Hermits On Holiday.
Hippo Lite è un magnifico gioco di incastri raffinato e sfuggente, scritto e registrato in un vecchio mulino in pietra trasformato in casa nella campagna francese. Ricorda Presley: “Faceva così caldo che abbiamo dovuto nuotare in un fiume locale fiume vicino solo per riuscire a pensare, poi siamo tornati a casa nostra per creare suoni e canzoni. Abbiamo usato suoni notturni, insetti notturni e abbiamo usato le rane come strumenti. Sapevate che le rane hanno un sassofono in gola?”. La psichedelia pop dei due viene scomposta e ricomposta, infilando una dissonanza o un esperimento proprio mentre l’ascoltatore inizia ad adagiarsi sulle melodie. Ascoltate “Greasing Up” per entrare nel loro mondo obliquo.
Lo ammetto, mi sono avvicinato agli equilibrismi sonori dei Kamikaze Palm Tree con colpevole ritardo. Il duo di San Francisco formato da Cole Berliner (chitarra e tastiere) e Dylan Hadley (batteria e voce) ha esordito nel 2016 con The Hand Faces Upwards, un mini album uscito solo in digitale, per poi arrivare solo quattro anni fa al primo disco vero e proprio, l’intrigante Good Boy che ha fatto drizzare le antenne a quelli della Drag City. L’etichetta di Chicago è stata pronta a metterli sotto contratto e a pubblicare nell’agosto dello scorso anno il loro secondo lavoro intitolato Mint Chip. Sicuramente deve aver influito per l’approdo all’etichetta della Windy City, la raccomandazione dell’appena citato Tim Presley, che con uno sguardo compiaciuto da dietro al mixer, ha messo mano alla registrazione dell’album.
Non è un caso che la Hadley abbia suonato la batteria sul disco targato White Fence che abbiamo ascoltato in precedenza, condividendo con il suo mentore l’amore per gli slanci sperimentali e le melodie oblique. La freschezza lo-fi della irresistibile e spericolata “Y So K” ci fa ritrovare una libertà espressiva tra art rock, psichedelia e new wave che sembrava persa. I Kamikaze Palm Tree si allontanano dal suono più scuro dei primi lavori, dimostrandosi maestri nella creazione di canzoni solo apparentemente spigolose e sperimentali. In realtà è la loro abilità nel plasmare a proprio piacimento la materia lo-fi che gli permette di smussare gli angoli più rumorosi e taglienti. Insomma, Mint Chip è un disco capace di affascinare e coinvolgere, una delle novità più sorprendenti uscite lo scorso anno.
In alcuni casi è normale chiedersi quanto possa influire l’esperienza personale nell’arte espressa da alcuni musicisti e quanto sia corretto scindere l’essere umano dall’artista. Kristin Hayter è un’artista poliedrica originaria di San Diego, in California, e ora residente nel New England, capace di portare in musica le proprie esperienze passate di abusi, violenza e disperazione che hanno segnato la sua esistenza nel suo progetto Lingua Ignota. Quattro album all’attivo tra il 2017 ed il 2021 in cui la Hayter ha esposto le sue ferite con un’intensità indicibile, un prolungato grido di dolore tra scorie industrial e noise di grande originalità e coinvolgimento. Già due anni fa, nell’ultimo lavoro a nome Lingua Ignota intitolato Sinner Get Ready, si intravedeva un piccolo spiraglio di luce, un’apertura verso una sorta di afflato spirituale.
Questo amore per la musica sacra, per le radici musicali della sua terra insieme ad una ricerca di una sorta di redenzione spirituale attraverso i principi del cristianesimo carismatico ha portato la Hayter ad abbandonare la ragione sociale che l’ha portata al successo e a costruirsi una nuova vita personale ed artistica, rivendicando il suo nome completo e ribattezzandosi Reverend Kristin Michael Hayter. Il suo “esordio” con il nuovo nome si intitola SAVED!, un accorato tentativo di raggiungere la salvezza allontanandosi dal dolore e avvicinandosi a forme musicali antiche e devozionali come spiritual, gospel, country e prewar folk. Proprio per dare un senso di antichità musicologica, la Hayter ha ridotto all’osso la strumentazione e ha volutamente degradato l’audio. “I Will Be With You Always” è solo uno degli 11 episodi intensi (e talvolta strazianti) di una dolorosa redenzione.
Da qualche anno è attiva una nuova scena molto interessante nata nel sud della capitale britannica, da cui sono uscite fuori realtà estremamente interessanti come Fat White Family, Shame, Idles, Goat Girl e Dead Pretties. Nel corso degli ultimi anni, queste formazioni sono riuscite tutte ad ottenere un contratto discografico, creando qualcosa di nuovo per la scena musicale britannica: un nutrito gruppo di musicisti giovani concentrati sulla creazione di un personale suono guitar-oriented. Come detto, tra loro ci sono le Goat Girl, quartetto nato intorno ad un noto pub di Brixton chiamato The Windmill e che, dopo il contratto con la storica Rough Trade e un interessante e ancora acerbo album di debutto, si è trovato su un palco ad aprire l’ultimo (purtroppo) concerto dei The Fall prima della scomparsa di Mark E. Smith.
La band era formata dalla cantante-chitarrista Clottie Cream (Lottie Pendlebury),dalla chitarrista L.E.D. (Ellie Rose Davies), dalla bassista Naima Jelly e dalla batterista Rosy Bones (Rosy Jones). Dopo l’esordio ben accolto dalla critica dove le quattro svisceravano le paure di una generazione e le difficoltà della vita urbana in periferia, a rallentare il loro percorso c’è stata una malattia non proprio semplice che ha colpito la chitarrista Elle Rose Davies (fortunatamente risolta a lieto fine), e il cambio di bassista che ha visto Holly Hole (Holly Mullineaux) sostituire Naima Jelly. Tutto questo ha portato le quattro ragazze ad incidere On All Fours, un lavoro profondamente diverso dall’esordio, con influenze psichedeliche che hanno reso il loro post-punk mai troppo aggressivo e un impianto complessivo più riflessivo. Anche i testi si sono spostati dall’attacco violento verso i Tories ad una maggiore intimità come nella “Where Do We Go From Here?” inserita nel podcast. Insomma, nel 2021 le Goat Girl ci hanno spiazzato in positivo.
Chiudiamo questo trittico tutto al femminile con una delle voci più belle, eleganti ed incontaminate del panorama musicale odierno. Una voce malinconica, inebriante e ipnotizzante quella di Meg Baird, che molti (spero) possano ricordare come membro di un gruppo di folk psichedelico chiamato Espers. Ma la californiana ha anche collaborato con successo con l’arpista Mary Lattimore ed è batterista (!) e cantante nell’interessante progetto Heron Oblivion. Come solista, la Baird ha interrotto ad inizio anno un silenzio che durava da ben otto anni (il precedente Don’t Weigh Down The Light risale al 2015) facendo uscire un nuovo album intitolato Furling.
Il disco, pubblicato dalla Drag City, mostra l’unica superstite del progetto Espers (Greg Weeks ormai è un professore d’inglese a tempo pieno mentre di Brooke Sietinson si sono perse le tracce) cambiare leggermente registro, mettendo il pianoforte al centro delle sue composizioni. La Baird espande la sua tavolozza e distribuisce le sue molteplici sfaccettature in uno dei suoi lavori più ricchi, co-producendo e registrando l’album con Charlie Saufley, suo partner e compagno di band negli Heron Oblivion. Il folk si tinge ora di psichedelia, ora di jazz, ammaliando e convincendo grazie ad un suono più corposo. “Will You Follow Me Home?” è solo una delle meraviglie di cui è costellato uno degli album più convincenti di questo 2023.
Sembra banale dirlo, ma Bob Dylan non è un songwriter qualunque. Ha inciso in maniera determinante sulla storia della musica moderna, ha ridefinito e ridisegnato da capo il ruolo di cantautore scrivendo un’infinità di brani immortali. Lo spessore letterario di Dylan, lo ha portato a vincere nell’ottobre 2016 il premio Nobel per la letteratura, e nonostante le polemiche che si sono scatenate dopo l’assegnazione del premio, da amante della musica sono stato più che felice di vedere finalmente raggiunta la consapevolezza che anche i testi delle canzoni possono, in alcuni casi, essere grande letteratura. Dylan è stato anche uno dei pochissimi, e probabilmente il solo, ad aver pubblicato almeno un capolavoro per ogni decade a partire dagli anni ’60.
Perfino nel decennio in corso Dylan è riuscito a sorprendere regalandoci l’ennesimo capolavoro di una carriera incredibile. Rough And Rowdy Ways, il suo 39° album in studio, è stato pubblicato il 19 giugno 2020, il suo primo album di canzoni originali da Tempest del 2012. Il disco è stato anticipato dai 17 minuti di “Murder Most Foul”, un brano ispirato dalla morte di JFK che ha il più alto numero di parole di qualsiasi altra sua canzone precedente. Una delle cose più belle del disco è la sinuosa ballata “My Own Version Of You”, probabilmente ispirata dal romanzo Frankenstein di Mary Shelley, il cui testo descrive la possibilità di portare in vita “qualcuno” utilizzando parti del corpo di persone diverse, in quella che è stata interpretata da qualcuno come un’elaborata metafora del processo di scrittura delle canzoni.
Entra nell’inferno ardente
Dove dimorano alcuni dei nemici più noti dell’umanità
Il signor Freud con i suoi sogni, il signor Marx con la sua ascia
Guarda la frusta di cuoio strappare la pelle dalle loro schiene
Hai lo spirito giusto, puoi sentirlo, puoi ascoltarlo
Hai quello che chiamano lo spirito immortale
Puoi sentirlo tutta la notte, puoi sentirlo al mattino
Si insinua nel tuo corpo dal giorno in cui sei nato
Un fulmine è tutto ciò di cui ho bisogno
E un’esplosione di elettricità che scorre alla massima velocità
Mostrami il costato, io infilzerò il coltello
Allaccerò i cavi e la mia creazione prenderà vita
Voglio riportare in vita qualcuno, riavvolgere gli anni
Lo farò con le risate e con le lacrime
Iniziamo adesso un trittico dedicato ad una serie che mi ha colpito molto: The Bear. Oltre ad essere a mio avviso, davvero strepitosa sia nella regia che nel fotografare una serie di nevrosi e di caos interiore in cui molti possono riconoscersi (pur non avendo una famiglia disfunzionale come quella del protagonista), è impreziosita da una grande serie di canzoni, come la “Handshake Drugs” dei Wilco proposta nello scorso episodio di Sounds & Grooves. Cosa si può dire dei R.E.M. che non sia già stato detto? Una carriera trentennale, quindici album in studio, tutti nessuno escluso (anche gli ultimi due nella fase di minore ispirazione) di grande coerenza ed onestà artistica.
Michael Stipe e compagni hanno portato con classe, sensibilità ed enorme capacità di scrittura, l’indie rock nel mainstream, vendendo quasi 90 milioni di dischi. Nel 1993 il quartetto di Athens si trovava ad affrontare il non facile compito di concepire e registrare il seguito di due album che avevano avuto un successo incredibile come Out Of Time e Automatic For The People. Il gruppo doveva anche fare i conti con l’esplosione del grunge e a tal proposito il batterista Bill Berry aveva dichiarato: “Se facessimo un altro disco come i precedenti staremmo seduti su sgabelli tutta la notte a scambiarci strumenti acustici, e sarebbe un po’ noioso”. proprio per queste ragioni il nono album in studio del quartetto di Athens, intitolato Monster, presentava chitarre distorte, sovraincisioni minime e tocchi di glam rock anni Settanta, facendo esclamare a Mike Mills: “Siamo tornati a pensare che suonare musica ad alto volume con la chitarra elettrica è quanto di più divertente ci possa essere nella musica”. Nonostante il disco sia più tirato, la splendida “Strange Currencies” inserita nel podcast (e nella stagione 2 di The Bear) torna parzialmente alle atmosfere più morbide del disco precedente.
Quando Sufjan Stevens nel 2005 pubblicò l’album Sufjan Stevens Invites You To: Come On Feel The Illinoise (o più semplicemente Illinois) sembrava che il songwriter dovesse davvero pubblicare 50 album, uno per ogni stato americano, opera che era iniziata nel 2003 con Michigan. Stevens successivamente dichiarò naturalmente che l’idea dei 50 album era stata uno scherzo, ma il disco è davvero un’opera tanto complessa quanto mirabilmente messa a fuoco. Sono ben 22 i brani che compongono l’album, per oltre 70 minuti di musica definita in ogni dettaglio.
Da molti è stato definito come il lavoro della maturità per l’ambizioso songwriter, che qui è riuscito con disinvoltura a passare dal folk al pop, aggiungendo splendidi arrangiamenti di archi e fiati, mentre i testi sono pieni di riferimenti e personaggi storici. Difficile scegliere un brano tra i 22. Alla fine ho scelto quello che celebra non la capitale ma la città più grande dello stato del Midwest: “Chicago”. Anche questo brano, nella versione Demo (più acustica di quella inserita nell’album) fa parte di The Bear, e non potrebbe essere altrimenti visto che la serie è ambientata proprio nella Windy City. Dopo questo album Stevens si lascerà prendere la mano da ambiziose sovrastrutture, ma sarà capace di tornare su livelli enormi con il capolavoro Carrie & Lowell. Il nuovo album dell’artista di Detroit è stato pubblicato appena mese fa e si intitola Javelin.
Come ho detto più volte sono orgoglioso e felice di aver collaborato con una radio dell’etere romano che dalla metà degli anni ’80, e almeno per un decennio a seguire, ha proposto musica meravigliosa con professionalità e passione ineguagliabile. La Radio Rock in FM a Roma è stata davvero un’esperienza fantastica, soprattutto negli anni 90. Tornando indietro nel tempo a 30 anni fa, più o meno dal settembre 1993, tutti noi che ci alternavamo dietro ai microfoni di quella radio siamo stati subissati di richieste per un brano che in poco tempo era diventato davvero un tormentone. La canzone in questione era “Mr. Jones” e la band era un quintetto californiano al primo album, i Counting Crows. L’album, prodotto da un grande musicista come T Bone Burnett, si intitolava August And Everything After, ed era riuscito subito a coinvolgere pubblico e critica grazie alla vocalità black di Adam Duritz ed una perfetta miscela di malinconia, racconti di strada, capacità di scrittura e ritornelli epici.
Successivamente il gruppo non ha saputo riproporre l’equilibrio e la freschezza dell’esordio ma ha comunque mantenuto uno standard qualitativo quantomeno dignitoso. Ho voluto riproporre la magia di quegli anni inserendo in scaletta uno dei miei brani preferiti del disco successivo, quel Recovering The Satellites che tre anni dopo si era sobbarcato l’ingrato compito di succedere ad un così fortunato predecessore. In realtà le vendite non andarono così male, visto che il disco arrivò di nuovo in testa alla classifica negli Stati Uniti, alternando brani sognanti come “A Long December” ad altri più tirati come la “Have You Seen Me Lately?” inserita nel podcast (e nella tracklist di The Bear).
Lasciamo Chicago per tornare in Gran Bretagna, più precisamente in Scozia. Nel 1998 l’uscita di Philophobia degli Arab Strap gettò nel caos la piccola comunità scozzese di Falkirk. Alcuni piccoli e grandi segreti di alcuni dei 35.000 abitanti della città posizionata nella Forth Valley furono messi clamorosamente in piazza in maniera nuda, scarna, lenta e sofferta dalla voce narrante di Aidan Moffat e dagli arpeggi di Malcolm Middleton. L’esordio del duo scozzese è formato da canzoni malinconiche che narrano di debolezze quotidiane, di sbornie, scopate e tradimenti. Canzoni che riescono ad arrivare dritte allo stomaco anche dopo tutti questi anni, visto che il disco è del 1998.
Il lungimirante John Peel li aveva presi subito sotto le sue ali protettrici, invitandoli negli storici studi della BBC a Maida Vale (più precisamente il MV4) per registrare alcuni brani per le sue storiche Peel Sessions. I due arrivarono accompagnati da Stuart Murdoch e Chris Geddes dei Belle And Sebastian ed eseguirono alcuni brani tra cui questa “Soaps”, un perfetto esempio di come il duo riusciva ad entrare emotivamente sottopelle, narrando in maniera cinica ed emotiva la cruda realtà della vita di provincia. Le sessions, insieme a molti altri inediti e brani dal vivo, sono state pubblicate nel 2010 in un meraviglioso cofanetto intitolato Scenes Of A Sexual Nature. La reunion recente dei due ci ha fatto fortunatamente ritrovare intatta quella miscela di cinismo e sentimento, di depressione ed ironia che nella loro fortunata carriera hanno saputo quasi sempre regalarci.
Chiudiamo il podcast con un gruppo che sta rivitalizzando il folk cambiando le regole del gioco. I dublinesi Lankum sono tornati con il loro quarto album False Lankum, l’atteso seguito di The Livelong Day che nel 2019 gli ha permesso di vincere il RTE Choice Music Prize (equivalente irlandese dei Grammy). Partendo da canzoni folk tradizionali, i Lankum (nome preso dal protagonista della scura folk ballad intitolata proprio “False Lankum” scritta da John Reilly) imprimono il loro marchio personale facendo leva su pesanti droni e distorsioni che conferiscono nuova intensità e bellezza a ogni brano. Con questo album il quartetto consolida il suo distacco dal genere folk classico, creando una musica audace e contemporanea che nasce, come detto, da elementi tradizionali ma che suona decisamente nuova. False Lankum contiene anche due brani originali, “Netta Perseus” e “The Turn“, entrambi scritti da Daragh Lynch (voce, chitarra e piano). il quarto disco dei Lankum e il terzo su Rough Trade, è stato pensato fin dall’inizio come un’opera completa, una progressione e un viaggio per l’ascoltatore. “Volevamo creare un maggiore contrasto nel disco, in modo che le parti leggere risultassero quasi spirituali e le parti scure fossero incredibilmente cupe, addirittura horror“, spiegano i Lankum.
Nelle 12 tracce dell’album, composte da 10 canzoni tradizionali e due originali, il quartetto irlandese utilizza una nuova tavolozza per colorare il proprio suono in modo sempre più sperimentale, insieme al produttore di lunga data John ‘Spud’ Murphy. Solo dopo la registrazione il gruppo si è reso conto che quasi tutte le canzoni dell’album, raccolte o scritte, avevano una sorta di riferimento al mare. Qualche forza sconosciuta li aveva attirati al più grande e prolifico raccoglitore di canzoni che sia mai esistito, capace di trasportare storie da centinaia di anni. Il brano di apertura dell’album (e di chiusura del podcast), “Go Dig My Grave”, viene da alcuni versi originariamente composti come strofe di diverse ballate, come “A Forlorn Lover’s Complaint” di Robert Johnson (che risale al 1611), passando per la registrazione di Jean Ritchie nel 1963 per poi approdare sulle coste irlandesi. Il brano, condotto dalla voce di Radie Peat, è affilato come un rasoio, crudo e sferragliante, suonato con un’energia straordinaria.
Un grazie speciale va, come sempre, a Franz Andreani per la sua passione, la gestione di questa banda di pazzi e per la splendida riorganizzazione del sito già attiva da qualche anno. A cambiare non è stata solo la versione grafica del sito, ma anche la “filosofia” della podradio, con le rubriche che vanno ad integrarsi nella programmazione regolare sotto l’hashtag #everydaypodcast. Sulla nostra pagina Facebook troverete quotidianamente ogni upload del sito e, ormai da tempo, è attivo anche lo splendido canale YouTube della Radio, una nuova formula senza interruzioni ne spot per ascoltare la vostra-nostra musica preferita. Iscrivetevi numerosi, vi aspettiamo!
Nel prossimo episodio troverete ancora riferimenti a The Bear (Refused su tutti) e alcune novità tra cui la nostra Marta Del Grandi, i Radian e Glen Hansard. Il tutto sarà, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
Intanto se volete potete sfruttare la parte riservata ai commenti qui sotto per darmi suggerimenti, criticare (perché no), o proporre nuove storie musicali. Mi farebbe estremamente piacere riuscire a coinvolgervi nella programmazione e nello sviluppo del mio sito web.
Per suggerimenti e proposte, scrivetemi senza problemi all’indirizzo e-mail stefano@stefanosantoni14.it.
Potete ascoltare o scaricare il podcast anche dal sito di Radio Rock The Original cliccando sulla barra qui sotto.
Buon Ascolto
TRACKLIST
01. NINE INCH NAILS: The Day The World Went Away da ‘The Fragile’ (1999 – Nothing Records)
02. KY: The Dancer da ‘Power Is The Pharmacy’ (2023 – Constellation)
03. TIM PRESLEY’S WHITE FENCE: Phone da ‘I Have To Feed Larry’s Hawk’ (2019 – Drag City)
04. DRINKS: Greasing Up da ‘Hippo Lite’ (2018 – Drag City)
05. KAMIKAZE PALM TREE: Y So K da ‘Mint Chip’ (2022 – Drag City)
06. REVEREND KRISTIN MICHAEL HAYTER: I Will Be With You Always da ‘Saved!’ (2023 – Perpetual Flame Ministries)
07. GOAT GIRL: Where Do We Go From Here? da ‘On All Fours’ (2022 – Rough Trade)
08. MEG BAIRD: Will You Follow Me Home? da ‘Furling’ (2023 – Drag City)
09. BOB DYLAN: My Own Version Of You da ‘Rough And Rowdy Ways’ (2020 – Columbia)
10. R.E.M.: Strange Currencies da ‘Monster’ (1994 – Warner Bros. Records)
11. SUFJAN STEVENS: Chicago (Demo) da ‘Illinois (Special 10th Anniversary Blue Marvel Edition)’ (2016 – Asthmatic Kitty Records)
12. COUNTING CROWS: Have You Seen Me Lately? da ‘Recovering The Satellites’ (1996 – Geffen Records)
13. ARAB STRAP: Soaps (John Peel Session) da ‘Scenes Of A Sexual Nature’ (2010 – Chemikal Underground)
14. LANKUM: Go Dig My Grave da ‘False Lankum’ (2023 – Rough Trade)
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SEASON 18 EPISODE 05: “Strange Currencies” [Podcast] https://t.co/GtlNSJGqTv il mio nuovo #podcast per @RadiorockTO è già online. che aspettate? #download & #enjoy #NowPlaying #music
— SoundsAndGrooves (@SoundsGrooves) November 16, 2023