Il quarto podcast di Sounds & Grooves per il 18° anno di RadioRock.TO The Original
In questa nuova avventura in musica andremo avanti e indietro nel tempo con una breve ma intensa parentesi italica
Torna dopo la pausa estiva l’appuntamento quindicinale di Sounds & Grooves che per il 18° anno consecutivo impreziosisce (mi piace pensarlo) lo straordinario palinsesto di www.radiorock.to. 18 anni…siamo diventati maggiorenni!!!! A pensarci è incredibile che sia passato già così tanto tempo da quando abbiamo iniziato questa folle ma fantastica avventura. Come (credo) sappiate, la nostra podradio è nata per dare un segnale di continuità con quella meravigliosa radio del passato che molti custodiscono nel cuore e a cui ho provato a dare un piccolo contributo dal 1991 al 2000.
Sappiamo tutti benissimo che la Radio Rock in FM come la intendevamo noi è sparita da tanto tempo, ma in tutti questi anni di podcast sul web abbiamo cercato di tenere accesa quella fiammella per poi tentare di moltiplicarla, facendola diventare un faro di emozioni e qualità musicale. Perché la passione e la voglia di fare radio, la voglia di ascoltare e di condividere la musica di qualità, nonostante tutto, non ci è mai passata.
Questa creatura dopo quasi 4 lustri continua orgogliosamente a remare controcorrente, cercando quella libertà in musica che nell’etere è ormai diventata una mosca bianca, ed esprimendo con forza la passione per la condivisione, per la ricerca, per l’approfondimento. Non dobbiamo aderire ad una cieca linea editoriale che ormai spinge esclusivamente il pulsante play dei servizi di streaming, ma ci lasciamo guidare semplicemente dal nostro cuore e dalla nostra passione. Fulvio Savagnone, Marco Artico, Giampiero Crisanti, Franz Andreani, Flavia Cardinali, Francesco Cauli, Ivan Di Maro, Massimo Santori aka Moonchild, Maurizio Nagni ed io proviamo ogni giorno a coinvolgervi con i nostri podcast regolari e con le rubriche tematiche di approfondimento, sperando di farvi sentire sempre di più parte di questa fantastica avventura.
Questo quarto episodio stagionale inizia celebrando il 50° anniversario di un capolavoro come Quadrophenia dei The Who per poi incontrare sul palco uno dei migliori gruppi degli ultimi trent’anni come i Wilco. Approfondiremo le differenze nella declinazione del post-rock in USA e Gran Bretagna con i Pell Mell e Long Fin Killie per poi addentrarci nella scena musicale italiana con il noise rock potente dei Fluxus e del nuovissimo Long Hair In Three Stages (grazie Giuseppe!!!) prima di trovarci in quell’incrocio tra la California e la Via Emilia che è stata l’esperienza Sacri Cuori. Una piccola parentesi al femminile ci fa trovare la delicatezza e la forza di Lisa Germano e la maturità compositiva di Joanna Newsom prima di un flusso sognante dove prevarranno l’intimità, la malinconia e la melodia di Galaxie 500 e Mojave 3. A completare il tutto troverete il pop crepuscolare di Eyeless In Gaza, la tradizione senza tempo di Ry Cooder e il folk-blues evocativo di José Medeles. Il tutto, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
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Prima di partire con questo viaggio in musica potete effettuare il download del podcast anche nella versione a 320 kb/s semplicemente cliccando sul banner qui sotto.
Una cosa che faccio fatica a comprendere è la tendenza odierna a celebrare qualsiasi anniversario di (quasi) ogni disco che ha avuto una certa rilevanza. In realtà mi rendo conto che è solo un tentativo per spillare soldi ad alcuni appassionati che non resistono ad una nuova pubblicazione (limitata, in vinile colorato e via discorrendo) del loro disco preferito. Tra i tanti anniversari, uno mi sembra davvero degno di nota. Non solo perché si tratta di uno dei gruppi storici del rock, The Who, ma soprattutto perché una stupefacente rock opera come Quadrophenia festeggia in questi giorni la considerevole cifra delle 50 candeline. Probabilmente, come ha ammesso lo stesso Townshend, il disco è stato l’ultimo grande album degli Who. Il principale compositore del quartetto, a fine 1972, era tornato a bomba con la sua idea di concepire una rock opera che, in questo caso, potesse rappresentare le quattro differenti personalità dei membri della band. Il titolo è una variazione lessicale del termine schizofrenia utilizzato nell’accezione di disturbo dissociativo dell’identità, in modo da riflettere le quattro distinte personalità (o sbalzi d’umore) di Jimmy, il ragazzo protagonista della storia.
Galeotta fu una notte trascorsa a Brighton dopo un loro concerto, quando Townshend, in mezzo a molti giovani che con le loro Lambretta e i loro parka aderivano all’estetica mod, si interrogò sulla società dell’epoca, sui suoi valori e sul senso di libertà. Il disco, come detto, narra la storia di Jimmy, un ragazzo appartenente al proletariato inglese che attraversa un periodo complicato come l’adolescenza, interrogandosi sulle dinamiche del gruppo mod di cui fa parte e provando sulla sua pelle il primo tradimento amoroso e l’incomunicabilità con amici e famiglia. In fondo, nel percorso verso la presa di coscienza attraverso le sofferenze c’è la storia di ogni adolescente. La storia trova la sua conclusione ed il suo culmine proprio con la canzone che apre il podcast “Love Reign O’er Me”, dove Jimmy, su uno scoglio in mezzo al mare, si interroga su che piega dovrà prendere la propria vita. Un progetto ambizioso, curatissimo negli arrangiamenti, che ha dato vita anche al film omonimo diretto da Frank Roddam e uscito nei cinema nel 1979.
I Wilco, appena arrivati al considerevole traguardo del 13° album in studio con l’ottimo Cousin, sono senza ombra di dubbio uno dei gruppi più importanti del panorama musicale contemporaneo. Nel 2003, dopo la svolta clamorosa innescata da un album, Yankee Hotel Foxtrot, dalla gestazione a dir poco complessa, il gruppo era atteso ad un’importante conferma. L’album era stato fondamentale per la loro storia non solo perché era il primo che vedeva Glenn Kotche dietro ai tamburi, ma soprattutto perché, grazie alla produzione di Jim O’Rourke, aveva visto l’inserimento nel corpo della tradizione del folk/rock americano di elementi di “disturbo” come rumori digitali e arrangiamenti sghembi e dissonanti che rimarranno anche successivamente come una delle caratteristiche principali di uno dei gruppi di americana più importanti dell’ultimo trentennio.
A Ghost Is Born aveva visto la luce nel 2004, ma anche questa volta la pubblicazione era stata tutt’altro che semplice. Il gruppo aveva messo online l’album in streaming gratuito, ma Jeff Tweedy era dovuto entrare in una clinica di riabilitazione poco prima dell’uscita dell’album, ritardandone l’uscita di due settimane. Nonostante ciò, la prima settimana di vendite del nuovo album era stata la migliore nella loro storia. Il disco vede per la prima volta Mikael Jorgensen a piano e tastiere e, allo stesso tempo, per l’ultima volta il polistrumentista Leroy Bach. Dopo l’uscita di Bach, Jeff Tweedy prese in squadra due elementi come Pat Sansone (The Autumn Defense, Jonathan Wilson, Andrew Bird) e il chitarrista d’avanguardia Nels Cline (Carla Bozulich, Geraldine Fibbers, Mike Watt, Thurston Moore, Nels Cline Singers). Per rodare la nuova formazione espansa, niente di meglio che quattro spettacoli dal 4 al 7 maggio 2005 al Vic Theater di Chicago, a casa loro. Dai quattro concerti è stato tratto un cd doppio (diventato quadruplo vinile 5 anni dopo) intitolato Kicking Television: Live in Chicago, da cui ho tratto questa versione splendida di “Handshake Drugs”.
Strano destino quello dei Pell Mell. Pur essendo attivi dal 1981, sono rimasti pressoché sempre nell’anonimato nonostante uno dei suoi fondatori, il tastierista Steve Fisk, sia stato uno dei produttori più influenti del grunge anni ’90 (Soundgarden, Nirvana, Boss Hog, Screaming Trees). Ma Fisk non si è limitato a questo visto che è stato, in tempi recenti, dietro alla console per gruppi come Low e Car Set Headrest. Autori di 4 album devoti al sound di Link Wray e Duane Eddy con una spruzzata di Morricone, esclusivamente strumentali, i Pell Mell erano già post rock ben 13 anni prima che il termine venisse coniato visto che (come detto) la loro prima cassetta risale al 1981.
Tutti i loro dischi sono estremamente godibili e sostanzialmente intercambiabili. Per il podcast ho scelto l’unico album uscito per una major: Interstate pubblicato dalla Geffen nel 1995, un lavoro esemplare di rock strumentale per chitarra, organo e batteria. Ascoltate la splendida ed evocativa “Nothing Lies Still Long” per credere. Magari se avessero avuto una voce ad arricchire la loro tavolozza sonora avrebbero avuto maggior appeal, ma non avremo mai la controprova.
Nello scorso podcast siamo tornati indietro nel tempo per ripercorrere la storia del post-rock britannico degli anni ’90, legata a doppio filo ad un’etichetta londinese chiamata Too Pure, che all’epoca era diventata in breve tempo il punto di riferimento per gli ascoltatori e gli addetti ai lavori meno allineati e usuali. I gruppi che incidevano per l’etichetta da una parte non si somigliavano affatto, ma dall’altra erano pervasi dalla stessa comune voglia di sperimentare, rifacendosi a band come Pop Group o Rip Rig + Panic, ripercorrendo le strade del krautrock, usando lo studio di registrazione come nuovo strumento e delegittimando di fatto il simbolo principe del rock: la chitarra.
In questo filone si inseriscono perfettamente gli scozzesi Long Fin Killie. La band (che prendeva il nome a una famiglia di pesci d’acqua dolce ornamentali noti come killifishes, noti per la loro interessante sopravvivenza alla siccità e le curiose abitudini riproduttive) era stata formata dal polistrumentista Luke Sutherland dopo lo scioglimento dei Fenn, gruppo abbastanza noto nella zona di Glasgow per aver aperto concerti di Ride e Catherine Wheel. Insieme al leader c’erano Colin Greig al basso, David Turner alla batteria ed il chitarrista Philip Cameron. Il loro suono trasfigurava il folk classico (il leader suona mandolino e bouzouki) mischiandolo con jazz, dub e rock e dando vita ad un elettrizzante ibrido. “Pele”, tratta dal loro secondo album intitolato Valentino, ci fa tornare di nuovo a quell’eccitante periodo della musica britannica. Dopo lo scioglimento del gruppo, Sutherland formò insieme alla cantante danese Signe Høirup Wille-Jørgensen i Bows. Dopo due album, pubblicati sempre dalla Too Pure, Sutherland decise di chiudere anche questa esperienza. Attualmente vive a Londra, dove si divide tra la sua nuova carriera di scrittore e quella di musicista non più a tempo pieno.
Iniziamo una piccola parentesi dedicata al nostro bistrattato stivale con una band che è, senza ombra di dubbio, tra i segreti meglio nascosti di quella giungla inestricabile che è la scena rock italiana. Il collettivo autodisorganizzato (come amano definirsi) dei Fluxus si è formato nel 1991 a Torino, pubblicando il primo disco tre anni più tardi. Le coordinate sono sempre state ben chiare, un noise rock originale e potente, coraggiosamente cantato in italiano, che dalla nascita al 2002 il gruppo ha saputo spalmare su altre tre uscite più un disco registrato nel 2005 ma mai pubblicato, intitolato Satelliti e Marziani. Il silenzio calato sulla sigla Fluxus da quel momento in poi non hai mai voluto dire scioglimento, ma semplicemente una pausa, seppur lunga, di riflessione. Dopo 10 anni sono tornati on stage nel corso del 2017 per un paio di date di riscaldamento, e le giunture dei componenti del gruppo non devono essersi rivelate così arrugginite se i tre membri storici Franz Goria (voce e chitarra), Luca Pastore (basso) e Roberto Rabellino (batteria) insieme al nuovo Fabio Lombardo (chitarra), hanno deciso di entrare in studio per la registrazione di un nuovo album in studio.
Non Si Sa Dove Mettersi, non è solo una citazione esplicita degli Stormy Six (il brano “Non Si Sa Dove Stare” che apriva l’album del 1982 Al Volo), ma una frase che riassume tutto il disagio delle (molte) persone che non riconoscono più il mondo in cui vivono, affrontando a fatica il caos che le circonda e la scomodità di una posizione in cui non riescono più a sentirsi a proprio agio. L’identità sonora dei Fluxus è sempre estremamente riconoscibile anche a distanza di anni, e l’album non fa prigionieri, sia nei brani dal ritmo più pressante e battente, che in quelli dalla cadenza più pesante come la splendida ”Gli Schiavi Felici”. Oggi più che mai è un dovere seguire i torinesi nella loro battaglia, senza lasciarsi abbindolare dalle promesse mai mantenute della società attuale e da un certo tipo di musica italiana.
Proseguiamo scendendo da Torino a Catania, dove, sulle pendici dell’Etna, si sono formati nel 2006 i Long Hair In Three Stages. Santi Zappalà (basso), Giovanni Piccinini (batteria), Fabio Corsaro (chitarra) e Giuseppe Iacobaci (voce) hanno preso la ragione sociale da un album degli U.S. Maple, rendendo così palesi le influenze post-punk, noise rock e indie americano anni novanta declinate in modo personale e potente. I primi due album Like A Fire In A Cave e Burn/Smother (2014) avevano ricevuto un notevole riscontro di critica, conquistando meritatamente anche l’attenzione di un pubblico particolarmente attento e affezionato. Il quartetto ha registrato negli studi Zen Arcade di Catania il terzo album che verrà pubblicato tra pochissimi giorni. The Oak Within The Acorn (con la splendida cover art di Ambra Garlaschelli) è composto da undici brani incisi in presa diretta e con un suono fedele alle loro infuocate esibizioni live, caratterizzato da testi complessi sulla confusione comunicativa e l’emotività esasperata e rabbiosa del mondo moderno.
“The Blue Frontier” (ad esempio), racconta della tragedia di 10 anni fa al largo di Lampedusa che fece 388 vittime, ricordandoci del fatto che la politica italiana e internazionale continua a osservare impotente nuove tragedie, accusando i migranti, minacciando azioni inutili e attaccando chi salva vite umane, senza fare nulla per impedire queste morti. L’attenzione del gruppo per l’aspetto visivo ha portato il quartetto siciliano a pubblicare il nuovo album in uno splendido libro di 72 pagine che mette in mostra la visione e lo stile della band a complemento della musica e dei testi. Tutte le copie sono numerate. Il brano scelto è la splendida e conclusiva “Acorn”.
Una strada che si pone come una sorta di crocevia tra la Via Emilia e la California, quella percorsa da (Don) Antonio Gramentieri, chitarrista, autore, cantante e produttore dalla grande cultura musicale, passione, competenza e proprietà di scrittura. Oltre ad averci deliziato con il primo album “solista” a nome Don Antonio, è stato il muro portante dei Sacri Cuori, band formata nel 2006 e che ha debuttato su disco nel 2010 con uno splendido album intitolato Douglas & Dawn. Alla realizzazione dell’album oltre al nucleo formato da Gramentieri, Massimo Sbaragli al basso, Diego Sapignoli alle percussioni ed il polistrumentista Christian Ravaglioli, hanno partecipato anche grandi personaggi come John Convertino dei Calexico, Howe Gelb dei Giant Sand, Marc Ribot e James Chance.
Il disco è stato mixato a Bristol da John Parish che ha dato anche il suo contributo in uno dei pochi brani cantati. Le atmosfere sono quelle della musica di frontiera americana, arricchite dall’amore per la musica cinematica italiana ed il blues. Il risultato è un flusso di grande suggestione come dimostra la splendida “House Of Dust” che vede Marc Ribot come ospite alla chitarra e Anders Pedersen del “giro” Giant Sand alla lap steel. Oltre a lavorare sui propri progetti, i componenti del gruppo, in diverse formazioni, hanno fatto da gruppo spalla, in studio o dal vivo, ad artisti internazionali come Hugo Race nei due album usciti a nome Hugo Race Fatalists, Dan Stuart dei Green On Red, Richard Buckner e Robyn Hitchcock. Un percorso che è durato poco (solo 3 album all’attivo) ma dalla grande intensità musicale ed emotiva.
Ammetto la mia perversa debolezza nell’amare gli artisti particolarmente schivi, timidi ed estranei al grande pubblico. Nel 1994 la fragilità e allo stesso tempo la forza di Lisa Germano mi aveva definitivamente conquistato. Geek The Girl è un disco straordinario, dove i brividi esistenziali della donna protagonista del concept non possono non conquistare con la loro malinconia, con i piccoli momenti scintillanti di vita dove speranza e delusione sembrano unirsi in una miscela agrodolce dal sapore unico. La maggior parte dei brani del disco sono stati registrati proprio a casa di Lisa Germano, dando all’album l’atmosfera intima che serviva per descrivere la storia di una persona che vorrebbe andare avanti nella sua vita ma per qualche motivo resta bloccata.
I temi trattati sono oscuri, e capaci di creare una tensione palpabile e reale, tra cui lo stalking (nel discusso brano “A Psychopath”), la censura dei media, la depressione e lo stupro. La decisione sul brano tra i dodici da inserire nel podcast non è stata facile, alla fine la scelta è caduta sulla splendida “Sexy Little Girl Princess”. La cantautrice dell’Indiana, nata musicalmente come violinista al seguito di John Mellencamp, ha suonato, tra gli altri, con Simple Minds, David Bowie, Neil Finn, Sheryl Crow, Iggy Pop, Jewel e gli Eels. Dieci anni fa, con No Elephants, era tornata con nuovo e ritrovato vigore lirico, riportandoci proprio ai suoi capolavori usciti negli anni ’90, salvo poi rinchiudersi di nuovo in un silenzio che ad oggi non è stato ancora interrotto.
Per parlare correttamente della prossima artista in scaletta nel podcast dobbiamo fare un piccolo passo indietro. Nel 2006 l’arpista e songwriter californiana Joanna Newsom aveva pubblicato il suo secondo lavoro intitolato Ys. L’album era estremamente ambizioso: prodotto da Steve Albini, mixato da Jim O’Rourke e arrangiato magistralmente da Van Dyke Parks. Il disco, formato da cinque lunghe tracce spalmate su due vinili, colpiva per la capacità di rivisitare il folk con personalità e forza espressiva a dispetto del suo timbro vocale. Incredibile come un album così legato ad un genere “di nicchia” riuscì a conquistare le copertine delle maggiori riviste musicali portando il nome della Newsom sulla bocca di tutti.
Nata da una famiglia di musicisti, Joanna era riuscita a colpire sin da subito un nume tutelare del songwriting americano come Will Oldham, aka Bonnie “Prince” Billy. Oldham la portò in tour come spalla facendogli firmare un contratto con la Drag City, per la quale nel 2004 pubblicò l’esordio The Milk Eyed Mender. E se qualche critico l’aveva etichettata come “prolissa”, nel 2010, incurante di tutto, Joanna Newsom ha pubblicato addirittura un album triplo. Have One On Me esce in un cofanetto lussuoso, uno scrigno dove l’artista è riuscita a riversare tutta la sua raggiunta maturità compositiva. Non più solo arpa, orchestra e voce, ma uno spettro sonoro ben più ampio dove far confluire tutte le sue influenze, dal folk al country, come nella splendida “Kingfisher” inserita in scaletta. La Newsom tornerà solo cinque anni più tardi con Divers, un album che, pur non raggiungendo le vette del passato, resta nell’alveo di una più che buona cifra stilistica e compositiva.
Nuneaton è una città della contea del Warwickshire, in Inghilterra teatro dell’incontro, all’inizio degli anni ’80 tra il tecnico di laboratorio Peter Becker e l’impiegato dell’ospedale locale Martyn Bates. Entrambi condividevano l’amore per la sperimentazione, per le ambientazioni elettroniche e per un certo tipo di post-punk molto particolare, dalle venature scure e crepuscolari. Nel periodo del loro incontro, Becker stava leggendo la novella Eyeless In Gaza del noto scrittore britannico Aldous Huxley (tradotto in italiano come La Catena Del Passato), che l’aveva portato a scegliere proprio quel titolo come sigla del suo nuovo progetto musicale. Nome che in questi giorni, purtroppo, è tornato di strettissima (e tristissima) attualità.
La loro sensibilità, il loro pop crepuscolare insieme alla capacità di creare arrangiamenti non proprio convenzionali, convinsero quelli della Cherry Red Records a metterli sotto contratto. Il secondo album intitolato Caught In Flux è stato pubblicato nel settembre 1981, confermando le loro qualità di creare bozzetti e microfilm con molti strumenti elettrici ed acustici, tra new wave, pop da camera e minimalismo notturno come dimostra la splendida “Sixth Sense”. Nonostante un successo commerciale che non è mai arrivato, il duo continua tuttora a fare musica, band di culto che riesce ad affascinare incurante delle mode che passano.
Sicuramente influenti per un certo modo intimista e malinconico di interpretare la musica, sono stati il chitarrista Dean Wareham, il batterista Damon Krukowski e la bassista Naomi Yang, che dai banchi dell’università di Harvard si trasferirono sul palco sotto il nome di Galaxie 500. Nei loro quattro anni di attività, dal 1987 al 1991 hanno pubblicato tre album e soprattutto hanno comunicato in modo semplice e dimesso la malinconia ed il disagio di una generazione. Band di culto, diretti in studio da un produttore come Mark Kramer (ex Butthole Surfers e collaboratore di John Zorn) che creerà in parte il loro suono pieno di riverberi, i tre avevano ripreso le atmosfere dei Velvet Underground dissanguandole e anestetizzandole
Il brano che ho scelto è “Flowers” che apre Today, il primo dei loro tre album, un trittico di livello elevatissimo. Dal vivo, il trio suonava spesso cover della Plastic Ono Band, The Modern Lovers e dei Velvet Underground, a voler mostrare le proprie, splendide, radici. Dal loro suono nasceranno molte band definite slowcore come Mazzy Star, Low o Red House Painters, pervase dalla stessa lenta malinconia. Naomi Yang e Damon Krukowski continueranno la loro carriera più tardi in studio come Damon & Naomi, ma quella è un’altra storia.
Alla fine dell’esperienza Slowdive, il cantante-chitarrista Neil Halstead e la bassista-cantante Rachel Goswell, crearono una nuova entità insieme al batterista Ian McCutcheon. I tre scelsero il nome di Mojave 3 per abbandonare in qualche modo i feedback della corrente shoegaze ed abbracciare un suono più morbido ed etereo. Una musica fuori dal tempo, visto che nel 1995 erano ben altre le musiche che andavano di moda: il brit-pop, il grunge o il trip-hop. Il loro debutto, Ask Me Tomorrow, venne pubblicato dalla 4AD, colpendo la critica con le canzoni scritte da Halstead che si muovevano lentamente in maniera estremamente suggestiva, il mood degli Slowdive sviluppato senza elettricità abbracciando una sorta di folk e country alternativo ed introverso.
Tre anni più tardi l’ingresso nel gruppo della chitarra di Simon Rowe e delle tastiere di Alan Forrester, insieme ai mirati innesti di fiati e pedal steel, ha reso Out Of Tune un album più variegato e solare. Il disco contiene alcune delle più riuscite composizioni di Halstead, canzoni eleganti che alternano malinconia e solarità. “Keep It All Hid” è solo una delle perle contenute in questo magico scrigno. Tra album solisti e altri progetti, i Mojave 3 pubblicheranno altri due album senza però raggiungere le vette dei primi tre lavori.
Un’altro musicista leggendario come Ry Cooder, è riuscito incredibilmente, pochi anni fa, a sorprenderci ancora pur essendo in attività da quasi 10 lustri. Partendo da un amore infinito per la tradizione folk, il chitarrista californiano ha deviato la sua traiettoria più volte, riuscendo a scrivere colonne sonore magistrali come Paris, Texas o sbancando i botteghini creando quasi dal nulla il fenomeno Buena Vista Social Club. Ma Cooder è un musicista che non deve dimostrare più niente a nessuno, ed eccolo tornare nel 2018 a sette anni di distanza dallo splendido Pull Up Some Dust And Sit Down con un album capace di attingere a piene mani dal repertorio della musica con cui è nato.
The Prodigal Son è un esemplare ed emozionante compendio di musiche folk, gospel e blues prese in prestito, impreziosito da alcune nuove canzoni scritte per l’occasione che non sfigurano affatto accanto ad autentici capolavori della musica tradizionale americana: una tra tutte “Nobody’s Fault But Mine” di Blind Willie Johnson. Un ritorno al passato guardando al futuro, un disco magistrale. Se volete ascoltare la differenza tra un artista che suona folk blues ed uno che con quella musica nel sangue c’è nato, mettete semplicemente la puntina sui solchi di questo meraviglioso album e lasciatevi travolgere dalle emozioni di canzoni meravigliose come la “Harbor Of Love” inserita in scaletta, originariamente scritta nel 1954 dall’artista bluegrass Carter Stanley e pubblicata a nome The Stanley Brothers And The Clinch Mountain Boys.
Chiudiamo il podcast con il disco di un’artista che lo scorso anno mi ha colpito moltissimo. José Medeles è un musicista ed autore nato a Portland, Oregon, dove la passione per il suo strumento principe lo ha portato ad aprire nel 2009 il Revival Drum Shop, un negozio dedicato alle batterie vintage e personalizzate. Attualmente dirige il 1939 Ensemble, un quartetto formato da batteria, vibrafono, tromba e chitarra. Medeles ha collaborato, dal vivo o in studio con una quantità enorme di artisti tra cui The Breeders, Kim Deal, Ben Harper, Joey Ramone, Modest Mouse, Mike Watt, Scout Nibblet, CJ Ramone e tanti altri. La passione per il folk-blues oscuro di un personaggio iconoclasta come John Fahey lo ha portato a Vancouver per registrare una sorta di tributo al modo di concepire la musica del misantropo chitarrista.
Railroad Cadences & Melancholic Anthems in realtà non è un disco di cover, non presenta al suo interno composizioni di Fahey, ma una serie di brani ispirati dalla sua musica ed interpretati da tre diversi chitarristi che si intrecciano con le soluzioni ritmiche di Medeles. Insieme al batterista suonano M. Ward (che possiamo ascoltare nella splendida “Something Else” inserita in scaletta), che da ai brani un taglio quasi cantautorale, la chitarrista sperimentale Marisa Anderson e Chris Funk (Decemberists, Stephen Malkmus). Il disco è straordinario, intenso e pervaso da quell’aura mistica tipica delle composizioni di Fahey, e Marisa Anderson si conferma come artista capace con pochi e sapienti tocchi delle sue sei corde, di visualizzare evocativi luoghi della mente e panorami minimalisti, con la sua capacità di rinvigorire la tradizione country-blues-folk. Un disco da riscoprire se siete affascinati dalla materia folk-blues.
Un grazie speciale va, come sempre, a Franz Andreani per la sua passione, la gestione di questa banda di pazzi e per la splendida riorganizzazione del sito già attiva da qualche anno. A cambiare non è stata solo la versione grafica del sito, ma anche la “filosofia” della podradio, con le rubriche che vanno ad integrarsi nella programmazione regolare sotto l’hashtag #everydaypodcast. Sulla nostra pagina Facebook troverete quotidianamente ogni upload del sito e, ormai da tempo, è attivo anche lo splendido canale YouTube della Radio, una nuova formula senza interruzioni ne spot per ascoltare la vostra-nostra musica preferita. Iscrivetevi numerosi, vi aspettiamo!
Nel prossimo episodio troverete ancora alcune novità tra cui il grande ritorno di Kristin Hayer che ha abbandonato il moniker di Lingua Ignota per ribattezzarsi Reverend Kristin Michael Hayer. Il tutto sarà, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
Intanto se volete potete sfruttare la parte riservata ai commenti qui sotto per darmi suggerimenti, criticare (perché no), o proporre nuove storie musicali. Mi farebbe estremamente piacere riuscire a coinvolgervi nella programmazione e nello sviluppo del mio sito web. Se volete darmi suggerimenti e proposte, scrivetemi senza problemi all’indirizzo e-mail stefano@stefanosantoni14.it.
Se volete ascoltare o scaricare il podcast, potete farlo anche dal sito della PodRadio cliccando sulla barra qui sotto. Buon Ascolto
TRACKLIST
01. THE WHO: Love Reign O’er Me da ‘Quadrophenia’ (1973 – Track Record)
02. WILCO: Handshake Drugs da ‘Kicking Television (Live In Chicago)’ (2005 – Nonesuch)
03. PELL MELL: Nothing Lies Still Long da ‘Interstate’ (1995 – DGC)
04. LONG FIN KILLIE: Pele da ‘Valentino’ (1996 – Too Pure)
05. FLUXUS: Gli Schiavi Felici da ‘Non Si Sa Dove Mettersi’ (2018 – Autoproduzione)
06. LONG HAIR IN THREE STAGES: Acorn da ‘The Oak Within The Acorn’ (2023 – NoiseWave)
07. SACRI CUORI: House Of Dust da ‘Douglas & Dawn’ (2010 – Interbang Records)
08. LISA GERMANO: Sexy Little Girl Princess da ‘Geek The Girl’ (1994 – 4AD)
09. JOANNA NEWSOM: Kingfisher da ‘Have One On Me’ (2010 – Drag City)
10. EYELESS IN GAZA: Sixth Sense da ‘Caught In Flux’ (1981 – Cherry Red)
11. GALAXIE 500: Flowers da ‘Today’ (1988 – Aurora Records)
12. MOJAVE 3: Keep It All Hid da ‘Out Of Tune’ (1998 – 4AD)
13. RY COODER: Harbor Of Love da ‘The Prodigal Son’ (2018 – Fantasy / Perro Verde)
14. JOSÉ MEDELES: Something Else (Feat. M.Ward) da ‘Railroad Cadences & Melancholic Anthems’ (2022 – Jealous Butcher Records)
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— SoundsAndGrooves (@SoundsGrooves) November 3, 2023