Le avventure in musica di Sounds & Grooves proseguono nella 17° Stagione di RadioRock.TO The Original
Nel settimo episodio stagionale di Sounds & Grooves troverete un’ambientazione romantica ed onirica.
Torna l’appuntamento quindicinale di Sounds & Grooves che per il 17° anno consecutivo impreziosisce (mi piace pensarlo) lo straordinario palinsesto di www.radiorock.to. A pensarci è incredibile che sia passato già così tanto tempo da quando abbiamo iniziato questa folle ma fantastica avventura. Come (credo) già sapete, la nostra podradio è nata per dare un segnale di continuità con il passato, con quella meraviglia che Franz Andreani, Marco Artico, Flavia Cardinali, Massimo Di Roma, Michele Luches, Aldo Semenuk, Giampiero Crisanti, Gianpaolo Castaldo avevano creato e a cui, nel mio piccolo, ho provato a dare un contributo dal 1991 al 2000. Sappiamo tutti benissimo che la Radio Rock in FM come la intendevamo noi è sparita da almeno due decenni, ma in tutti questi anni di podcast sul web abbiamo cercato di tenere accesa quella fiammella per poi tentare di moltiplicarla, facendola diventare un faro di emozioni e qualità musicale. Perché la passione e la voglia di fare radio, la voglia di ascoltare e di condividere la musica di qualità, nonostante tutto, non ci è mai passata. Questa creatura dopo 3 lustri continua orgogliosamente a remare controcorrente, cercando quella libertà in musica che nell’etere è ormai diventata una mosca bianca, ed esprimendo la passione per la condivisione, per la ricerca, per l’approfondimento. Non dobbiamo aderire ad una cieca linea editoriale che ormai spinge esclusivamente il pulsante play dei servizi di streaming, ma ci lasciamo guidare semplicemente dal nostro cuore e dalla nostra passione. Fulvio Savagnone, Marco Artico, Giampiero Crisanti, Franz Andreani, Flavia Cardinali, Francesco Cauli, Ivan Di Maro, Massimo Santori aka Moonchild, Maurizio Nagni, Angie Rollino ed io proveremo a coinvolgervi con i nostri podcast regolari e con le rubriche tematiche di approfondimento, sperando di farvi sentire sempre di più parte di questa fantastica avventura.
La musica ha spesso il potere terapeutico di guarire le anime, lenire in qualche modo il dolore e le storture dei nostri tempi come una pozione magica, un incantesimo primordiale, facendoci fare viaggi immaginari di enorme suggestione emotiva, ed è questo il percorso che Sounds & Grooves vuole seguire, soprattutto in questo periodo confuso ed oscuro.
Nel settimo viaggio della nuova stagione troverete una sorta di podcast del cuore, malinconico, romantico ed onirico. Una piccola panoramica di quel mondo sognante ed incantevole che era la Sarah Records, rappresentata da Field Mice e The Orchids, il ricordo di Martin Duffy con le melodie senza tempo dei Felt, il pop da camera degli Audiac ed il cantautorato di Gabriel Kahane. Ci sarà spazio anche per i ricordi virato seppia dei Red House Painters, per le traiettorie oniriche e notturne di Aidan Moffatt aka Nyx Nòtt, e per due perle al femminile firmate da due delle migliori cantautrici di questa generazione: Julia Holter e Gemma Ray. Il gran finale sarà appannaggio del suono cristallino di Talk Talk e The Blue Nile, degli album solisti dei due leader Mark Hollis e Paul Buchanan, e per una straordinaria appendice del gruppo scozzese chiamata Quiet City. Il tutto, come da ben 16 anni a questa parte, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
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Prima di partire con questo viaggio in musica potete effettuare il download del podcast anche nella versione a 320 kb/s semplicemente cliccando sul banner qui sotto.
Iniziamo il podcast parlando di un’etichetta britannica che si chiamava Sarah Records. Creata a Bristol nel 1987, le sue pubblicazioni hanno accompagnato i nostri sogni più romantici, popolato la parte più pop e malinconica del nostro cuore, abbracciato le nostre lacrime e le nostre gioie. Un mondo sognante ed incantevole popolato da band di culto come The Orchids, Blueboy, Brighter, The Field Mice e molte altre. Poco importa che il sogno creato dai visionari Clare Wadd e Matt Haynes sia in qualche modo finito nel 1995, il mondo della Sarah Records sarà sempre presente nel nostro immaginario.Bob Wratten era il leader proprio dei The Field Mice, gruppo nato come duo insieme al bassista Michael Hiscock, suo compagno di scuola nel sud di Londra.
Dopo poco ai due si aggiunsero Harvey Williams (aka Another Sunny Day) alla chitarra, Mark Dobson alla batteria e Anne Mari Davies alla voce, alle tastiere e alle chitarre. In For Keeps, ultimo album (e unico sulla lunga distanza) dei Field Mice, troviamo tutte le coordinate che hanno reso celebre la Sarah Records, un indie-pop malinconico e romantico così lontano dalle logiche di mercato, dai ritornelli appiccicosi al punto giusto come la “Of The Perfect Kind” inserita nel podcast. La band chiuse i battenti in contemporanea al fallimento della Sarah Records e alla fine della sua storia d’amore con ua partner nella vita e sul palco Anne Mari Davies. Wratten nel 1996 con il cuore spezzato formerà una nuova entità, i Trembling Blue Stars, affidandola all’etichetta che ha preso il testimone e l’eredità della Sarah, quella Shinkansen Recordings voluta da uno dei fondatori dell’etichetta di culto, Matt Haynes.
Ogni tanto mi tocca fare un onestissimo mea culpa quando includo nei podcast artisti che raramente sono passati da queste parti per ignoranza o distrazione. Ma stavolta non potevo ignorare la storia di un personaggio misterioso e carismatico come Lawrence Hayward, che con i suoi Felt ha scritto pagine di musica assolutamente memorabili durante gli anni ’80. L’amore per Tom Verlaine ed i Television porta il ragazzo di Birmingham a creare musica. Non sarà facile il percorso che porterà Hayward a registrare finalmente nel 1984 il primo mini The Splendour Of Fear: il pessimismo dopo un rifiuto di contratto da parte della label Postcard ma subito dopo un invito di Mark E. Smith in persona per aprire un concerto dei The Fall, tanto da fargli capire che la strada intrapresa era quella giusta.
Da li in poi ci saranno un tour con i Cocteau Twins, l’ingresso del giovane tastierista Martin Duffy (recentemente scomparso che poi suonerà con The Charlatans e Primal Scream) e l’abbandono del chitarrista e co-fondatore Maurice Deebank a sancire il regno di Hayward pronto ad allontanare le venature più scure e a portare i Felt verso una sorta di synth pop ambizioso e raffinato con Forever Breathes The Lonely Word, ispirazione per tanto shoegaze e dream pop degli anni a venire. A rappresentare l’album del 1986 ci sono le straordinarie melodie senza tempo di “Rain Of Crystal Spires”. Fortunatamente da poco la benemerita Cherry Red ha provveduto a ristampare i dieci dischi pubblicati dalla band, anche se con un artwork, come dire, talvolta discutibile.
Torniamo a parlare di quella etichetta del cuore attiva dal 1987 al 1995 chiamata Sarah Records. I The Orchids sono un quintetto formato nel 1985 a Glasgow che comprendeva le voci di James Hackett e Pauline Hynds Bari, le chitarre di Matthew Drummond John Scally, la batteria di Chris Quinn e il basso di James Moody. Il loro sesto membro è sempre stato il produttore (e tastierista in studio) Ian Carmichael, membro degli One Dove e presente dietro al mixer di Lamb e The Pastels, altra istituzione dell’indie-pop scozzese. I loro primi sei singoli e tre album sono stati pubblicati dalla Sarah, raccogliendo un ampio consenso di critica, tanto da essere stati definiti dal Melody Maker come “The Best Scottish Pop Band since Orange Juice”.
La loro musica è un pop brillante, affascinante e cristallino, pieno di melodie senza tempo. Una scatola magica di delizie che prende le prima forma da quella straordinaria band che sono stati i The Byrds, trasferendoli nel clima uggioso delle highlands e cucendogli addosso un vestito nuovo. Unholy Soul esce nel 1991, anno importante nel Regno Unito visto le quasi contemporanee uscite di Screamadelica dei Primal Scream, Loveless dei My Bloody Valentine e Blue Lines dei Massive Attack, ma a questi tre monoliti che innescheranno nuove mutazioni si contrappone l’inscalfibile senso della melodia che rende senza tempo non solo la splendida “Dirty Clothing” inserita nel podcast ma tutto il disco. I The Orchids sono ancora attivi ed il loro Dreaming Kind uscito cinque mesi fa li conferma in ottima forma.
Nel 2003 un album intitolato Thank You For Not Discussing The Outside World faceva capolino nei negozi di dischi intrigando per il suo modo di intendere la melodia in uno scuro ed affascinante panorama in bilico tra post rock, pop cameristico e suggestioni elettroniche. Autore dell’album era un quartetto tedesco che si chiamava Audiac. Credevo onestamente che dopo tanti anni il progetto si fosse disperso nel nulla, ma con mia somma sorpresa, due superstiti della sigla sono tornati nel 2017 a 14 anni dall’esordio con un nuovo album intitolato So Waltz, condotti in sala d’incisione da Hans-Joachim Irmler dei Faust.
I due attuali componenti della band, Alex Wiemer Van Veem e Niklas David, dopo tanti anni non hanno perso un grammo della loro forza espressiva, e il loro album di ritorno è stato uno dei più interessanti usciti nel 2017. Un disco che riesce ad intrigare per la sua capacità di miscelare teatralità mitteleuropea, suoni analogici, scrittura raffinata, pop da camera e grande raffinatezza. Un disco meraviglioso e fuori dal tempo, come dimostra la splendida “So Waltz”, in perfetto equilibrio tra sogno ed incubo.
Non propriamente un compositore giovane Gabriel Kahane. Il californiano classe 1981 è un personaggio particolare che ha sempre usato un linguaggio di neoclassica moderna abbastanza colto, senza disdegnare percorsi personali non proprio usuali. Sei anni fa aveva attraversato l’America in treno in due settimane senza usare il suo smartphone, esperienza finita nello splendido Book Of Travelers. Quattro anni fa invece aveva invitato i suoi followers a spedirgli una cartolina di quelle cartacee old style alla sua casella postale prima di sparire per un anno dal web e dai suoi derivati, senza prevedere quello che sarebbe successo con il Covid dal marzo 2020.
Nell’ottobre 2020, l’ultimo mese del suo anno sabbatico tecnologico, Kahane si era proposto di scrivere una canzone al giorno. “Volevo creare una scansione cerebrale sonora alla fine di questo esperimento e concedermi il permesso di scrivere di piccole cose, piuttosto che cercare di distillare l’enormità del momento in dichiarazioni enfatiche”. Questo viaggio interiore è finito in un album intitolato Magnificent Bird, formato da dieci tracce sospese tra canzone d’autore e musica da camera pervase da una malinconia senza tempo. L’album è stato registrato con una band niente male che comprende Andrew Bird, Caroline Shaw, Chris Thile, il bassista dei Punch Brothers Paul Kowert e il percussionista Ted Poor. Nella “Linda and Stuart” inserita nel podcast, cantata insieme ad Amelia Meath (dei Sylvan Esso e dei compagni di etichetta Mountain Man), Kahane dipinge il malinconico ritratto di una coppia di anziani in isolamento domestico, una canzone che si rivela essere l’angoscioso e retroattivo addio a New York del compositore. Un gran bel disco.
Mark Kozelek ha sempre usato la sua abilità di scrittura per esprimere in maniera compiuta la sua emotività sofferta e problematica. Lo ha fatto per anni con i Red House Painters e continua a farlo con la sua nuova creatura Sun Kil Moon, che dai RHP ha ricevuto il testimone per proseguire il percorso senza soluzione di continuità. Nato a Massillon, Ohio, Kozelek ha sempre mostrato un enorme amore per la musica fin da bambino. Trasferitosi ad Atlanta, Georgia, il futuro songwriter incontra il batterista Anthony Koutsos, ponendo le basi per la creazione di un gruppo. I due si trasferiscono in California alla fine degli anni ’80 fondando i Red House Painters, insieme al chitarrista Gorden Mack e al bassista Jerry Vessel. L’elogio della tristezza, la vena intimistica in cui riaffiorano i suoi ricordi, acuita anche dalle copertine virato seppia, hanno contribuito nel rendere la band un fenomeno di culto e una della band più importanti di un movimento chiamato slowcore.
I primi quattro album della band, pubblicati dalla 4AD, sono stati senza dubbio l’apice della loro produzione. Per questo podcast ho deciso di tornare indietro al 1995, nel periodo successivo alla pubblicazione di ben due dischi a distanza di pochi mesi, autointitolati e chiamati amichevolmente con il nome di ciò che appare sulla copertina. L’album scelto è stato quindi il quarto Ocean Beach, che contiene anche una clamorosa cover al rallentatore del classico degli Yes “Long Distance Runaround”. Il disco, uscito nella inusuale versione fisica di doppio vinile 10″, è stato anche l’ultimo a vedere la presenza del chitarrista fondatore Gorden Mack, oltre ad essere l’ultimo album in studio della band pubblicato dalla 4AD. Per capire quanto fosse unico ed emozionale il loro suono scandito lentamente dalla voce di Kozelek, basta mettere la puntina sul disco ed ascoltare l’andamento pastorale della meravigliosa “San Geronimo”.
Un bel personaggio Aidan Moffat. Scozzese di Falkirk, è stato il cantante degli Arab Strap (e lo è tuttora vista la recente reunion del duo) prima di intraprendere una sfaccettata carriera solista. Dopo alcuni album firmati con il nome di Lucky Pierre, Moffat ha pubblicato nel febbraio 2020 un lavoro interamente strumentale a nome Nyx Nótt. L’album si intitola Aux Pieds De La Nuit, ed è stato pubblicato dalla Melodic Records. Come facilmente intuibile dal titolo, l’ispirazione principale del musicista scozzese è stata la notte: “Ci ho lavorato quando tutti erano a casa a letto. Non dormo molto bene e sono un nottambulo, così la musica che ho fatto è naturalmente notturna.”
L’essenza stessa della notte e il gironzolare di Moffatt sotto la luce della luna hanno avuto un ruolo fondamentale nel processo creativo dell’album e nella scelta del suo nuovo moniker. “All’inizio avevo deciso di pubblicare il disco in maniera completamente anonima e stato pensando ad un nome che risultasse convincente e si adattasse completamente ai temi notturni dell’album. Nyx e Nótt erano due dee della notte della mitologia, Nyx da quella Greca e Nótt da quella antica scandinava.”
Si tratta, come avrete capito, di un album crepuscolare, i cui ritmi pulsano all’unisono con il tranquillo brusio della notte. Ci si muove tra elettronica, ambient e jazz accompagnati da un’orchestrazione che va dagli archi ai fiati, come se fossero un’ideale colonna sonora dei sogni di Moffat. Un muoversi nell’oscurità, guidati da un suono “realizzato con campioni, effetti sonori, tastiere e giocattoli occasionali. Tutte le tracce tranne una iniziano con la batteria: da un po’ collezionavo vari samples di batteria jazz e stratificavo alcuni kit uno sopra l’altro per creare ritmi, per poi aggiungerci sopra musica e altri samples.” Ascoltate la splendida “The Prairie“, uno degli ascolti più intriganti del 2020.
Meno osannata di altre cantautrici la torch-singer britannica Gemma Ray sin dall’esordio discografico The Leader nel 2008 ha sempre dato sfoggio di un certo eclettismo pop-noir venato di folk psichedelico. Dopo un altro album come Lights Out Zoltar! che ne mette a fuoco la scrittura e consolida il successo di critica e pubblico, Gemma Ray registra un album di cover selezionate di alcuni dei suoi artisti del cuore tra cui Sonic Youth, Buddy Holly e The Gun Club intitolato scherzosamente It’s A Shame About Gemma Ray. Dopo un tour di spalla ai Grinderman di Nick Cave succede l’inaspettato. Nella primavera del 2010 Gemma rimane bloccata in Australia dopo che la famosa eruzione vulcanica di quell’innominabile vulcano in Islanda ha bloccato tutti i voli.
Questo inaspettato periodo di inattività l’ha spinta a dare forma all’embrione di Island Fire presso l’Alberts Studio di Sydney (di proprietà degli AC/DC) con Michael Szumowski e Andy Zammit. I risultati sono stati così soddisfacenti che un anno dopo decide di tornare a Sydney per finire l’album (dopo aver registrato sull’isola di Giske, nel nord della Norvegia, e nell’Isle of Dogs, a Londra). Queste circostanze e questi ambienti spiegano in parte l’ispirazione del titolo dell’album. Il disco mette in mostra Gemma ai nuovi livelli delle sue capacità di scrittura e produzione, creando un album ricco di sontuoso alt-pop orchestrale, psichedelia cupa, ed emozioni intime come la bellissima “Flood And A Fire” inserita in scaletta. Gemma Ray ha appena fatto uscire un nuovo album intitolato Gemma Ray & The Death Bell Gang dando una sterzata inaspettata al suo psych-soul e tentando una sorta di esperimento di elettronica cinematografica.
Julia Holter è senza dubbio una delle songwriter più talentuose della sua generazione. Californiana, studente in pianoforte e appassionata di letteratura greca, ha già dagli inizi, preferito un approccio onirico e minimalista, cambiando lentamente pelle, album dopo album, aggiungendo beat elettronici, elaborazioni sonore fino ad approdare ad un maturo eclettismo pop. Se già Loud City Song nel 2013 aveva colpito per la piccola rivoluzione sonora dell’artista californiana, tra Laurie Anderson e Kate Bush, Have You In My Wilderness due anni dopo ne ribadisce il cambiamento. Dal riconoscimento come autrice e musicista colta, il passo fatto nel 2015 ha consolidato l’ingresso della Holter in una sorta di paradiso indie-mainstream in cui ha avuto i suoi riconoscimenti anche dal punto di vista commerciale.
L’album riesce ad incorporare in qualche modo pop, jazz, folk e musica classica, riaffermando Julia Holter come una delle compositrici più visionarie della sua generazione. la californiana non tralascia le sue ambizioni letterarie e la sua poetica colta, mette per la prima volta la sua voce in primo piano e tira fuori un album di bellezza accecante, elegante e magico, come dimostra la scintillante apertura di “Feel You”. Non contenta, dimostrando una enorme qualità artistica, Julia Holter non ha proseguito in quella direzione ma nel 2018 con Aviary ha dato vita ad un lavoro complesso e sperimentale, assemblato alla perfezione con cui ha dimostrato per l’ennesima volta il suo straordinario talento.
I The Blue Nile sono senza dubbio un gruppo di culto e tra i miei ascolti preferiti in assoluto. Nati a Glasgow, sono riusciti a trasferire in musica la malinconia della città industriale scozzese. La voce e la chitarra di Paul Buchanan. il basso di Robert Bell, e le tastiere di Paul Joseph Moore hanno saputo creare una sorta di pop alternativo di enorme classe e suggestione sin dall’esordio di A Walk Across The Rooftops. Band non certo prolifica e perfezionista, pubblicherà il secondo album, Hats, solo cinque anni più tardi, nel 1989. Il disco non solo conferma le meraviglie dell’esordio, ma le accentua con un’urgenza emotiva che si stempera in una tipica e crepuscolare malinconia del nord della Gran Bretagna. La notte e le atmosfere dilatate riempite da suoni corposi e dalla voce piena e straordinaria di Paul Buchanan la fanno da padrona.
Altri sette anni di silenzio prima di ascoltare di nuovo il suono romantico dei Blue Nile. Peace At Last esce nel 1996 e mostra ancora una volta un songwriting levigato e alla continua ricerca dalla perfezione, ma certamente non asettico. Le dieci tracce di cui è composto l’album sono, al solito, un viaggio notturno e cinematico di grande emozione e sentimento, con la voce di Buchanan che con dolcezza ma senza pietà mette a nudo cuori ed anime come nella meravigliosa “God Bless You Kid”. Magari l’album non tocca i vertici straordinari dei due precedenti, ma è comunque ben sopra alla sufficienza riuscendo spesso a volentieri a coinvolgere ed emozionare. Stavolta insieme ai tre titolari della sigla trova posto tra i credits anche il batterista Nigel Thomas che da anni sale con loro sul palco e di cui parleremo tra poco.
Parlando di scrittura raffinata, suggestioni notturne e crepuscolari, Scozia e The Blue Nile… Nigel Thomas è un batterista che ha collaborato più volte dal vivo con la band di Paul Buchanan finendo addirittura nei credits di Peace At Last, il terzo lavoro del gruppo scozzese che abbiamo appena finito di ascoltare. Nel 2001, nascondendosi dietro alla sigla Quiet City, Thomas ha raccolto intorno a se alcuni amici musicisti tra cui proprio Paul Buchanan e Paul Joseph Moore dei Blue Nile, il bassista Pino Palladino ed altri splendidi strumentisti, registrando un disco intitolato Public Face, Private Face. Uno di quei CD che ho riscoperto recentemente quasi per caso, e che, tra l’altro, ha una valutazione niente male visto che sul noto sito Discogs ci sono pochissime copie in vendita con un prezzo che si aggira tra gli 80 e i 200 €.
Il disco è davvero una pietra preziosa nascosta di enorme valore musicale ed emotivo. Tra alcuni strumentali di classe con una bella sezione di archi e di fiati, ci sono alcune perle che spiccano per la solita, incantevole voce di Paul Buchanan. “Due North” è uno di quei brani immaginifici e onirici che valgono da soli il prezzo del biglietto (anche se lo ammetto, 200€ è un tantinello eccessivo). Un brano che non sfigurerebbe affatto in un disco dei Blue Nile e che sono felice di riscoprire e condividere con voi. Thomas è attualmente membro della London Symphony Orchestra e ha, dopo anni, tolto dalla naftalina la sigla Quiet City questa volta insieme al cantante Pete Simpson. Tra l’altro la “Due North” inserita nel podcast è stata recentemente remixata da Thomas con l’ausilio proprio della London Symphony Orchestra.
“Heading Due North
There Are No Maps To Chart This Course
Across The Blue, Yeah
Satellite Moon Rolls”
lo ammetto spudoratamente, è uno dei miei gruppi della vita. I Talk Talk sono stati protagonisti di un’incredibile parabola artistica, una vera e propria mutazione genetica che ha permesso al gruppo la trasformazione da crisalide a meravigliosa farfalla. Partito da spartiti che lo vedevano accomunato alla corrente synth-pop, il gruppo progressivamente andò a dilatare le proprie composizioni contaminando il suono con innesti sperimentali e quasi jazz, finendo con l’essere precursore del nascente post-rock. Una parabola “diversa” iniziata con l’ausilio del produttore (e talvolta tastierista) Tim Friese-Greene, capace già da It’s My Life nel 1983 di iniziare un percorso nuovo alla band, già perfettamente visibile nel terzo album The Colour Of Spring pubblicato tre anni dopo.
Come dicevo i Talk Talk hanno saputo davvero compiere una parabola artistica senza precedenti, iniziando nel 1983 una straordinaria mutazione portata a compimento con le atmosfere sognanti e appese al cielo dei successivi Spirit Of Eden e Laughing Stock, dove i brani si allungano in un afflato crepuscolare, intimo. Le tastiere avvolgenti dell’ospite Tim Friese-Greene, la delicatezza del ride di Lee Harris, il basso delicato di Paul Webb (che fortunatamente accarezza ancora i nostri padiglioni auricolari sotto il nome di Rustin Man), il paesaggio sonoro tratteggiato dalla voce di Harris in “I Believe In You” hanno un enorme impatto sonoro ed onirico: un perfetto brano per un podcast del cuore.
Come detto in precedenza Mark Hollis alla guida dei Talk Talk è stato protagonista di un’incredibile parabola artistica, una vera e propria mutazione genetica che ha trasformato la sua creatura da crisalide a meravigliosa farfalla. Partito da spartiti che lo vedevano accomunato alla corrente synth-pop, il gruppo progressivamente andò a dilatare le proprie composizioni contaminando il suono con innesti sperimentali e quasi jazz, finendo con l’essere precursore del nascente post-rock. Sono passati quasi quattro anni da quel triste giorno in cui Mark Hollis ci ha lasciato, interrompendo il sogno di chi sperava che il silenzio che durava dal 1998 potesse interrompersi e che Hollis potesse di nuovo sconvolgerci con i suoi cortometraggi immaginifici, in un’alternanza di silenzi e di miniature sonore.
Dopo lo scioglimento del gruppo nel 1992, Hollis ha inciso il suo personale canto del cigno sei anni più tardi, un album solista che riprendeva le atmosfere sognanti e appese al cielo di Laughing Stock, in un afflato crepuscolare, intimo. Un ultimo battito in levare, l’impeto accennato di “Watershed” che poi si ritrae, disinnescando l’energia timidamente quasi a disagio per l’aver mostrato una tale tavolozza di colori, per poi tornare al bianco e nero, e al silenzio. Il silenzio di Mark Hollis dura da quel lontano 1998, e purtroppo rimarrà tale, ma è meraviglioso poterlo interrompere ogni tanto e riassaporare tanta bellezza.
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La chiusura del podcast è affidata ad una delle mie voci maschili preferite in assoluto. Ho parlato prima degli scozzesi di Glasgow The Blue Nile, gruppo di culto capace di trasferire in musica la malinconia della città industriale scozzese. Band non certo prolifica e perfezionista, pubblicherà solo altri tre album prima di sciogliersi definitivamente, o almeno crediamo cisto che il loro ultimo album, High, risale ormai al 2004. La notte e le atmosfere dilatate sono riempite da suoni corposi e dalla voce piena e straordinaria del cantante Paul Buchanan. Il loro è un pop mai banale, scevro da una qualsiasi ambizione commerciale, sofisticato e semplice allo stesso tempo. Ambientazioni emotive e oniriche capaci di stemperarsi nella tipica e crepuscolare malinconia del nord della Gran Bretagna.
Il silenzio da parte dei componenti della band è stato interrotto nel lontano 2012 dal primo e finora (purtroppo) unico album a nome del solo Buchanan, intitolato Mid Air. Un disco meraviglioso ed intenso, paragonabile in qualche modo all’unico lavoro solista di un altro gigante come Mark Hollis che abbiamo ascoltato poco fa. Un uomo sospeso in aria, pochi sapienti tocchi di pianoforte, quegli archi appena sfiorati, e la voce dello scozzese a riempire tutto lo spazio emozionando e portandoci in una dimensione “altra” come solo lui sa fare. Un viaggio notturno e cinematico di grande emozione e sentimento composto da 14 piccoli cortometraggi che scaldano il cuore, come la “Mid Air” che da il titolo all’album e chiude la programmazione odierna.
Un grazie speciale va, come sempre, a Franz Andreani per la sua passione, la gestione di questa banda di pazzi e per la splendida riorganizzazione del sito già attiva da qualche anno. A cambiare non è stata solo la versione grafica del sito, ma anche la “filosofia” della podradio, con le rubriche che vanno ad integrarsi nella programmazione regolare sotto l’hashtag #everydaypodcast. Sulla nostra pagina Facebook troverete quotidianamente ogni upload del sito e, ormai da tempo, è attivo anche lo splendido canale YouTube della Radio, una nuova formula senza interruzioni ne spot per ascoltare la vostra-nostra musica preferita. Iscrivetevi numerosi, vi aspettiamo!
Nel prossimo episodio di Sounds & Grooves troverete l’attesissima (forse…) prima parte del meglio del 2022 secondo l’insindacabile giudizio della nostra redazione (di cui faccio parte solo io). Nel podcast potrete ascoltare gli artisti che occupano le posizioni dal #30 al #16, ma se siete troppo curiosi e non potete aspettare, allora cliccate su questo link. Il tutto sarà, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
Intanto se volete potete sfruttare la parte riservata ai commenti qui sotto per darmi suggerimenti, criticare (perché no), o proporre nuove storie musicali. Mi farebbe estremamente piacere riuscire a coinvolgervi nella programmazione e nello sviluppo del mio sito web.
Se volete ascoltare o scaricare il podcast, potete farlo anche dal sito della PodRadio cliccando sulla barra qui sotto. Buon Ascolto
TRACKLIST
01. FIELD MICE: Of The Perfect Kind da ‘For Keeps’ (1991 – Sarah Records)
02. FELT: Rain Of Crystal Spires da ‘Forever Breathes The Lonely Word’ (1986 – Creation Records)
03. THE ORCHIDS: Dirty Clothing da ‘Unholy Soul’ (1991 – Sarah Records)
04. AUDIAC: So Waltz da ‘So Waltz’ (2017 – Klangbad)
05. GABRIEL KAHANE: Linda & Stuart da ‘Magnificent Bird’ (2022 – Nonesuch)
06. RED HOUSE PAINTERS: San Geronimo da ‘Ocean Beach’ (1995 – 4AD)
07. NYX NÓTT: The Prairie da ‘Aux Pieds De La Nuit’ (2020 – Melodic)
08. GEMMA RAY: Flood And A Fire da ‘Island Fire’ (2012 – Bronzerat)
09. JULIA HOLTER: Feel You da ‘Have You In My Wilderness’ (2015 – Domino)
10. THE BLUE NILE: God Bless You Kid da ‘Peace At Last’ (1996 – Warner Bros. Records)
11. QUIET CITY: Due North da ‘Public Face, Private Face’ (2001 – Koch Records)
12. TALK TALK: I Believe In You da ‘Spirit Of Eden’ (1988 – Parlophone)
13. MARK HOLLIS: Watershed da ‘Mark Hollis’ (1998 – Polydor)
14. PAUL BUCHANAN: Mid Air da ‘Mid Air’ (2012 – Newsroom Records)