Le avventure in musica di Sounds & Grooves si uniscono al resto della banda per la 17° Stagione di RadioRock.TO The Original
Nel terzo episodio stagionale di Sounds & Grooves troveremo molte interessanti novità
Torna l’appuntamento quindicinale di Sounds & Grooves che per il 17° anno consecutivo impreziosisce (mi piace pensarlo) lo straordinario palinsesto di www.radiorock.to. A pensarci è incredibile che sia passato già così tanto tempo da quando abbiamo iniziato questa folle ma fantastica avventura. Come (credo) già sapete, la nostra podradio è nata per dare un segnale di continuità con il passato, con quella meraviglia che Franz Andreani, Marco Artico, Flavia Cardinali, Massimo Di Roma, Michele Luches, Aldo Semenuk, Giampiero Crisanti, Gianpaolo Castaldo avevano creato e a cui, nel mio piccolo, ho provato a dare un contributo dal 1991 al 2000. Sappiamo tutti benissimo che la Radio Rock in FM come la intendevamo noi è sparita da almeno due decenni, ma in tutti questi anni di podcast sul web abbiamo cercato di tenere accesa quella fiammella per poi tentare di moltiplicarla, facendola diventare un faro di emozioni e qualità musicale. Perché la passione e la voglia di fare radio, la voglia di ascoltare e di condividere la musica di qualità, nonostante tutto, non ci è mai passata. Questa creatura dopo 3 lustri continua orgogliosamente a remare controcorrente, cercando quella libertà in musica che nell’etere è ormai diventata una mosca bianca, ed esprimendo la passione per la condivisione, per la ricerca, per l’approfondimento. Non dobbiamo aderire ad una cieca linea editoriale che ormai spinge esclusivamente il pulsante play dei servizi di streaming, ma ci lasciamo guidare semplicemente dal nostro cuore e dalla nostra passione. Fulvio Savagnone, Marco Artico, Giampiero Crisanti, Franz Andreani, Flavia Cardinali, Francesco Cauli, Ivan Di Maro, Fabio De Seta, Massimo Santori, Maurizio Nagni, Angie Rollino ed io proveremo a coinvolgervi con i nostri podcast regolari e con le rubriche tematiche di approfondimento, sperando di farvi sentire sempre di più parte di questa fantastica avventura.
La musica ha spesso il potere terapeutico di guarire le anime, lenire in qualche modo il dolore e le storture dei nostri tempi come una pozione magica, un incantesimo primordiale, facendoci fare viaggi immaginari di enorme suggestione emotiva, ed è questo il percorso che Sounds & Grooves vuole seguire, soprattutto in questo periodo confuso ed oscuro.
Nel secondo viaggio della nuova stagione troveremo il feroce sarcasmo di Mark E. Smith e dei suoi The Fall, l’orgoglio irlandese dei Fontaines D.C., le destrutturazioni geniali dei Dead Rider, la riscoperta dei T. Rex di Marc Bolan, la resurrezione della “This machine kills fascists” da parte degli ispiratissimi Dropkick Murphys. E ancora, il folk irlandese contaminato dei Moving Hearts, il cantautorato classico di John Martyn e quello sempre ispirato di Bill Callahan, l’epitaffio sonoro di un amico perduto dei For Those I Love, il groove elettro-psichedelico dei The Soft Pink Truth e l’ispirata autoproduzione di una sempre talentuosa Sara Ardizzoni nascosta dietro al moniker di Dagger Moth. Il finale sarà appannaggio delle traiettorie sghembe dei Denseland e dell’orgoglio afroamericano di Damon Locks e Moor Mother. Il tutto, come da ben 16 anni a questa parte, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
Seguite il nostro hashtag: #everydaypodcast
Download, listen, enjoy!!!
Prima di partire con questo viaggio in musica potete effettuare il download del podcast anche nella versione a 320 kb/s semplicemente cliccando sul banner qui sotto.
I The Fall sono stati una delle band di culto e più importanti della scena post-punk britannica, di cui faranno parte band come Joy Division e Buzzocks. Carattere difficile, come dimostrano gli innumerevoli cambiamenti all’interno della band, il leader Mark E. Smith è stato un intellettuale scettico nei confronti dell’arte in generale. La sua musica e le sue liriche erano intense, ripetitive, pervase da uno scuro senso dell’umorismo. Ha guidato il suo gruppo per 40 anni, senza mai avere un successo planetario, ma riscuotendo sempre il favore della critica e del suo fedele seguito di fans.
Smith ci ha lasciato nel gennaio 2018. Ci manca il suo crudo sarcasmo, la sua visione musicale sghemba e affascinante che ha influenzato negli ultimi 40 anni molti gruppi dai Pavement agli LCD Soundsystem. Per ritrovare al meglio la sua visione musicale e la sua lingua tagliente sono tornato indietro al 1980, anno in cui esce Grotesque (After The Gramme). Il terzo album in studio della band, considerato uno dei migliori, è il primo che vede la presenza del batterista Paul Hanley (fratello minore del bassista Steve Hanley), che si era unito ai Fall all’età di 15 anni. Kay Carroll, allora fidanzata del cantante Mark E. Smith e manager della band, suona il kazoo in “New Face In Hell”, uno dei vertici di un album memorabile.
A volte mi ostino a cercare di capire perché i meccanismi social portano sempre a ricoprire di insulti un gruppo o un artista che hanno avuto un consenso al di fuori dell’ordinario. Il che potrebbe essere un sacrosanto “diritto alla critica” se non fosse che a volte si prende come scusa banale il fatto (alquanto soggettivo) che l’artista o il gruppo “non dice niente di nuovo”. Come se il panorama musicale mondiale, mai così terribilmente frammentato ed inutilmente vasto, fosse pieno di artisti che trovano una via mai percorsa da altri. A maggio 2019 scrivevo entusiasta: “I Fontaines D.C., con la forza dirompente di Dogrel, si aggiungono a Idles, Fat White Family, Shame e Sleaford Mods come esponenti di punta del nuovo “rock” britannico. L’atmosfera sporca, l’istintività sfacciata, la capacità di comporre versi intensi e storie in cui molti possono identificarsi, sono la chiave fondamentale per comprendere il successo di questi cinque irlandesi, oltre all’amore/odio per la propria terra espresso in un accento locale volutamente marcato.”
Eh si, l’esordio della band irlandese mi aveva colpito per moltissimi motivi: per la voce recitativa ed incalzante di Grian Chatten con il suo accento distintivo, per l’empatia che suscitano facilmente nell’ascoltatore con quel loro amore per la poesia, le ritmiche incalzanti, l’amore/odio per una Dublino esplorata passo dopo passo nelle 11 tracce di cui era composto Dogrel, e per una strabordante energia post-punk che, nella mia personalissima sensibilità, ho percepito come viscerale ed autentica. Adesso che con Skinty Fia i dublinesi hanno raggiunto la maturità compositiva e un discreto successo (che qualcuno osteggia perché considera il gruppo sopravvalutato) sono voluto tornare indietro al loro esordio, proponendo una delle tracce più trascinanti come “Too Real”. Io, nel mio piccolo, continuo a dire che la loro sensibilità e sfrontatezza, il loro saper portare il passato nella modernità gli sta facendo fare un percorso importante e li potrà far andare lontano. O almeno é quello che ci auguriamo, con la speranza che non si perdano per strada come altri irlandesi prima di loro.
Uno dei due chitarristi degli U.S. Maple (autori di 5 pregevoli album dal 1995 al 2003 e perfetta incarnazione di quel fenomeno che andava sotto il nome di “Now Wave”), Todd Rittmann, nel 2009 ha creato i Dead Rider, un nuovo progetto con cui portare a compimento la sua missione di scomporre e ricomporre vari generi musicali. Rittmann con i suoi nuovi compagni di avventura: Matthew Espy, batteria, Andrea Faugh, tromba e tastiere, e Thymme Jones, elettronica, tastiere, fiati e batteria (questi ultimi due anche nei Cheer-Accident) ci avevano già convinto nel 2014 con un album intitolato Chills On Glass, che aveva incantato per il gioco degli incastri, e per l’abilità di Rittmann e compagni di creare un’equilibrata alchimia tra ingredienti apparentemente molto diversi, per poi confermarsi 3 anni dopo cambiando riferimenti stilistici ma facendo di nuovo centro.
Su Crew Licks l’obiettivo del restauro diventava la black music, e il dipanarsi delle nove tracce era come il gioco della pentolaccia, con i quattro che dopo aver messo nella pignatta di terracotta soul, funk, psichedelia anni’70, si divertivano a colpirla a turno con violente mazzate. Stavolta la creatura feroce e mutante di Rittmann cambia leggermente nome, riducendosi a trio (non è più della partita Thymme Jones) ma ospitando la voce del britannico Paul Williams, di cui poco si sa se non che è stato il manager dell’attore Crispin Glover. Una sorta di Tom Waits quasi più roco, perfetto per sottolineare i pestoni storti e dilatati di questa band che riesce sempre a stupire per l’ennesima rivisitazione e reinvenzione della materia rock-blues come dimostra la splendida “Not A Point On A Scale”. I Dead Rider, o Dead Rider Trio, ormai sono tra i miei preferiti in assoluto, e per qualità e varietà stilistica (merce rara al giorno d’oggi) non mi stancherei mai di ascoltarli.
Torniamo indietro nel tempo fino al 1970. Marc Bolan, che ha creato i Tyrannosaurus Rex nel 1967, decide di abbandonare il folk psichedelico così poco remunerativo fino a quel momento e di dare una svolta alla sua carriera. La semplificazione del suono parte dal nome, accorciato in T. Rex, e prosegue in sala di registrazione. “Ride A White Swan” arriva a sfiorare la vetta della classifica britannica dei singoli, ma è solo una piccola scintilla rispetto a quello che accadrà l’anno successivo. Un secondo singolo, “Hot Love”, raggiunse il primo posto nelle classifiche del Regno Unito e vi rimase per sei settimane e tra queste due uscite, Bolan reclutò prima il bassista Steve Currie e poi il batterista Bill Legend, per formare una band completa con cui registrare e andare in tournée per un pubblico sempre più numeroso. Durante una storica puntata di Top of the Pops, Bolan indossò pantaloni di raso lucidi e una giacca scintillante, il glam rock era nato.
Tra marzo e giugno 1971 sotto la supervisione di Tony Visconti, che solo qualche mese prima aveva firmato la produzione del terzo disco di David Bowie, “The Man Who Sold the World”, Bolan e compagni registrano quello che sarà il loro maggiore successo e un disco destinato ad entrare nella storia del rock: Electric Warrior. La psichedelia degli esordi è solo un velo, ormai è l’elettricità, il rock, la sensualità e l’autoironia di Bolan a prendere il sopravvento con brani tirati a lucido come “Get It On” (che fu la causa del litigio di Bolan con John Peel cui il brano non piacque affatto) e altri con acustica e archi ma ugualmente trascinanti come la “Cosmic Dancer” inserita in scaletta. L’album fu l’inizio di un periodo di clamorosa popolarità di Bolan e del gruppo, che però iniziò a scemare nel 1975 dopo l’insuccesso di Zinc Alloy and the Hidden Riders of Tomorrow che sancisce la fine della sinergia con Tony Visconti. Quando sembrava che la popolarità dei T.Rex fosse in risalita, l’alba del 16 settembre 1977, due settimane prima del suo trentesimo compleanno, la Mini guidata dalla fidanzata Gloria Jones si schianta su un albero ponendo fine alla vita e alla carriera di Bolan.
I Bostoniani Dropkick Murphys sono un gruppo attuale con un grande seguito per il loro suono viscerale e per la loro passione. I membri della band sono così attaccati ad un ideale politico e musicale da decidere di contattare Nora Guthrie, figlia del leggendario Woody, per riportare in vita lo slogan “this machine kills fascists. I Dropkick Murphys si sono trasferiti al The Church Studio di Tulsa (a pochi minuti dalla casa natale di Woody Guthrie e dal moderno Woody Guthrie Center). Lo storico studio fu fondato da Leon Russell e fu la sede originaria della leggendaria Shelter Records.
Durante le sessioni dell’album, i Dropkick Murphys si sono imposti di visitare la città natale di Woody, Okemah, e di percorrere le stesse strade percorse da Woody. Ritirarsi nello stato natale di Woody, l’Oklahoma, per registrare l’album ha avuto un forte effetto sulla band e sul processo creativo di queste canzoni. Alla fine, i Dropkick Murphys avevano così tanto materiale basato sui testi toccanti di Woody ritrovati da Nora che hanno registrato due album, con il Vol. 2 previsto per l’uscita nel 2023. This Machine Still Kills Fascists è un disco completamente acustico ma allo stesso tempo estremamente potente per suono e messaggio. “Two 6’s Upside Down” è il lamento di un giocatore d’azzardo, immerso nell’amore e nella perdita, nell’omicidio e nella punizione. Ken Casey, fondatore del gruppo la presenta così: “Two 6’s Upside Down è acustica, ma è comunque dura. È tagliente e i testi sono minacciosi. Volevamo dimostrare fin da subito che anche se questo album è acustico, sarà comunque pieno di fuoco e passione”.
Ho sempre avuto una grande ammirazione per Christy Moore. La sua passione, il suo impegno politico, il suo timbro vocale caldo, passionale, l’amore profondo per la sua terra. E’ un omaggio alla musica irlandese e alla produzione di questo straordinario artista quello che faccio in questo podcast. Una volta terminata l’esperienza Planxty, band fondamentale per il folk revival degli anni ’70. Christy Moore (voce e bodhrán) insieme al sodale Dónal Lunny (bouzouki) crea i Moving Hearts con l’intento di unire il folk irlandese ad altre forme di musica come rock e soul. La formazione che incide nel 1981 l’album di debutto autointitolato vede, insieme ai due fondatori, Declan Sinnot (chitarra), Keith Donald (alto sax), Eoghan O’Neill (basso), Brian Calnan (batteria), e Davy Spillane, un vero e proprio enfant prodige delle uillean pipes, le tipiche cornamuse irlandesi che si suonano con le dita senza emettere aria dalla bocca.
L’album è una perfetta sintesi di stili, con il folk sempre presente nelle fondamenta, con una alternanza tra nuove canzoni e traditionals riarrangiati, non di rado legati ad un impegno politico e sociale. Un impegno che va spesso e volentieri a trattare i temi relativi alle rivolte irlandesi per la conquista dell’indipendenza oppure ad ammonire i potenti come nella splendida (e purtroppo terribilmente attuale) “Hiroshima Nagasaki Russian Roulette” inserita in scaletta. Christy Moore dopo un secondo album sulla falsariga del primo (Dark End Of The Street), lascia la band. I Moving Hearts provano prima a sostituire l’insostituibile Moore con Mick Hanly (con cui registreranno l’album dal vivo Hearts Live) e poi diventeranno una band interamente strumentale registrando il terzo ed ultimo album in studio The Storm con Lunny e O’Neill come membri trainanti. Nel 2007 si sono riformati con una parte della line-up originale (Lunny, Spillane, O’Neal, Donald, il secondo batterista Matt Kelleghan) insieme a Anthony Drennan (chitarra), Graham Henderson (tastiere) e Kevin Glackin (fiddle). Questa formazione ha registrato un CD-DVD intitolato Live In Dublin che mostra il ritorno trionfale del gruppo nello storico Vicar Street.
Iain David McGeachy, meglio conosciuto come John Martyn, è stato un meraviglioso songwriter dall’incredibile talento vocale, capace di spaziare dal folk al blues, dal jazz al soul. Il suo talento, purtroppo, era pari all’amore che provava per la bottiglia, situazione aggravata dal fatto che i suoi primi album, sebbene siano stati rivalutati eccome dalla critica, sono stati davvero un fiasco commerciale. Il successo, come spesso purtroppo avviene, lo trovò parecchi anni dopo, convertendosi al pop di classe. Ma torniamo indietro nel tempo, nel 1972, Martyn ha dato da poco alle stampe Bless The Weather, album dove inizia a distaccarsi dal folk tradizionale, sperimentando nuove tecniche di canto e arrangiamenti più ricchi. Di li a poco pubblicherà i suoi due capolavori (Solid Air e Inside Out) nel giro di pochi mesi nel 1973.
Il 13 febbraio 1975 Martyn sale sul palco dell’Università di Leeds, nello stesso luogo in cui gli Who registrarono il loro Live at Leeds nel 1970 insieme a Danny Thompson (contrabbasso) e John Stevens alla batteria. Ai tre si aggiungerà il chitarrista Paul Kossoff dei Free per l’esecuzione di tre brani. Il concerto venne pubblicato su un album intitolato Live At Leeds, inizialmente in maniera indipendente in una prima tiratura di 10.000 copie numerate e firmate dopo un disaccordo con la Island Records sulla sua validità commerciale. Il brano scelto per il podcast è stato “Make No Mistake” da Inside Out. Sono passati quasi 50 anni da quel concerto, ma è ancora tanta l’energia e l’emozione che ancora adesso si sprigiona da quei solchi. Un’edizione deluxe in 2 CD è stata pubblicata nel 2010 dalla Universal Music. Contiene il concerto del 1975 nella sua interezza, completo di trattenute, chiacchiere e insulti volgari da ubriachi tra Martyn e Thompson, mentre il secondo disco include 35 minuti di prove pomeridiane come materiale bonus.
Ho sempre amato le canzoni in bassa fedeltà, pervase da un ambientazione decadente, da una malinconia che non raramente viene attraversata da un pungente sarcasmo. Lui si nascondeva sotto lo pseudonimo di Smog, ma dal 2007, dopo aver rilasciato diversi album notevoli tra cui il capolavoro Julius Caesar, ha deciso di firmarsi semplicemente con il suo vero nome: Bill Callahan. Esponente di punta di un certo tipo di cantautorato lo-fi insieme a Will Oldham o al compianto Jason Molina, Callahan ha sempre continuato a sfornare album mai meno che eccellenti centellinando le uscite negli anni. L’ultimo album di Callahan risaliva al 2019 (sei anni dopo lo splendido Dream River), Shepherd in a Sheepskin Vest era composto da ben 20 canzoni che mostravano una rilassatezza ed una profondità nuova, dovuta al matrimonio e alla recente paternità.
Stavolta di anni ne sono passati solo tre, e Bill Callahan è tornato con un’ora di musica che prende il nome di YTI⅃AƎЯ. Le sue composizioni sono semplici ma mai banali, suonate in punta di dita, sussurrate, attraversate da anni di folk, country, da storie di vita vissuta da raccontare con intelligente sarcasmo. Sornione come sempre, accompagnato da splendidi musicisti (Matt Kinsey alla chitarra, Emmett Kelly al basso, Sarah Ann Phillips a organo e piano e Jim White alla batteria più una piccola sezione fiati) Callahan ci mostra una volta in più la sua straordinaria capacità di racconto, dal folk al soul sussurrato, tutto estremamente intimo e caldo anche se con il titolo visto allo specchio. Un artista che canta e suona (superbamente) con la consapevolezza dello stregone che sa come ammaliare chiunque lo ascolti, come dimostra la splendida “Drainface”.
Due ragazzi cresciuti insieme nelle comunità operaie del nord di Dublino, un’adolescenza condivisa, un’amore per la musica esploso e corrisposto, una band, i Burnt Out che nel 2016 ha lisciato di poco quell’esplosione che qualcuno chiama post-punk e che ha investito Inghilterra e Irlanda poco più tardi. Uno di questi ragazzi, David Balfe, coinvolto da questo amore per la comunità di amici fraterni cui apparteneva e soprattutto dal legame che lo univa al leader della band, Paul Curran, aveva avuto l’idea di registrare un album che ruotasse proprio su questi sentimenti fortissimi consolidati negli anni. Nel 2018 il suicidio di Curran cambia completamente le carte in tavole e ribalta un intero piano di esistenza. Balfe elabora il lutto continuando a lavorare sul progetto, naturalmente cambiandolo in corsa, intitolandolo For Those I Love e rendendolo disponibile su Bandcamp solamente ad amici e familiari.
Un disco dove vengono svelati i sentimenti più intimi, le dinamiche della violenza delle gang del loro quartiere cui avevano dovuto assistere da piccoli, e alla forza dell’unione per uscire da morte, dolore e dal rifiuto delle droghe più economiche come momentanea scorciatoia per uscire da tutto quello. “I have a love, and it never fades”, queste le prime parole recitate da Balfe nell’apertura di “I Have A Love”, parole che campeggiano sul supporto fisico. Eh sì, alla fine l’autore ha acconsentito alla pubblicazione del disco in formato fisico, richiesta da Ash Houghton, un A&R della September Records rimasto folgorato dalle tracce. Questa richiesta ha trovato l’appoggio della famiglia di Curran e dei loro amici comuni, pronti ad esortare Balfe a condividere il progetto con il mondo. Un disco dove Balfe, che deve convivere con l’assenza della sua metà, travolge tutto come un fiume in piena nel ricordo di una persona con cui aveva condiviso tutto il suo mondo e sperato in un futuro migliore. Ad accompagnare il flusso di parole, c’è un’elettronica ora cupa, ora melodica, ora quasi trance ma talvolta vicina al dubstep. Un’ode ai loro amici e alla loro famiglia, a tutte le persone che amava: l’adolescenza difficile, il senso di appartenenza, l’amicizia così forte da poter schiacciare tutto, e poi il senso di colpa per quella morte così improvvisa e lancinante. For Those I Love è un disco potente, evocativo, sentimentale, catartico, sorprendente, dove è impossibile scindere la musica dalle emozioni.
Torniamo a parlare di novità discografiche e ne approfittiamo anche per cambiare completamente clima sonoro. Drew Daniel, metà insieme a M. C. (Martin) Schmidt del duo elettronico sperimentale Matmos, torna ad incidere dietro al nome di The Soft Pink Truth. Daniel ha dato vita al progetto come sbocco per esplorare suoni viscerali e surreali che esulano dall’ambito dei Matmos, attingendo alla sua vasta conoscenza delle oscurità del mondo rave, del black metal e del crust punk e cercando di sovvertire e criticare le aspettative di genere ormi consolidate. Tutto è iniziato quando il produttore house britannico Matthew Herbert ha sfidato Drew a realizzare un EP di 12″ di musica house per la sua etichetta, la Accidental Records. Daniel ha centrato l’obiettivo, visto che Soft Pink Missy ha fatto girare la testa anche agli ascoltatori più esigenti. Un anno dopo, nel 2003, quel risultato è stato approfondito nel suo album di debutto intitolato Do You Party?. Il successo di critica e dancefloor del disco ha portato Drew a fare remix per star del pop (Bjork, Grizzlybear, Fischerspooner) e per produttori dell’era glitch (Drop the Lime, Fischerspooner). (Drop the Lime, Otto von Schirach).
Quando qualcuno ha chiesto a Drew Daniel di spiegare il titolo del suo nuovo album, Is It Going To Get Any Deeper Than This?, l’artista ha risposto: “Anni fa un amico stava facendo il DJ in un club e una donna è entrata nella cabina del DJ e ha chiesto: ‘is it going to get any deeper than this?’ La frase è diventata una specie di mantra per noi. Cosa voleva davvero? Questo album è stato creato come un tentativo di immaginare possibili risposte musicali alla sua domanda”. Nel corso delle dieci canzoni dell’album, la provocazione ad andare “più a fondo” spinge Daniel a muoversi promiscuamente tra i generi della disco, del minimalismo, dell’ambient e del jazz, entrando e uscendo dalla pista da ballo, spazzando più in alto e più in basso nella scala delle frequenze, coinvolgendo sia testi filosofici reimpostati come testi pop che glossolalie senza parole. Ci sono moltissimi musicisti che rendono questo album uno straordinario caleidoscopio sonoro: il partner sentimentale e musicale di Daniel, M.C. Schmidt e Koye Berry suonano il pianoforte, Mark Lightcap (Acetone, Dick Slessig Combo) la chitarra acustica ed elettrica, Jason Willett (Half Japanese) il basso, Nate Wooley la tromba, Brooks Kossover (Drugdealer) il flauto, John Berndt e Andrew Bernstein (Horse Lords) il sassofono mentre le parti di shaker, shekere, tumba, triangolo e cajon sono suonate dal percussionista cubano Ayoze de Alejandro Lopez. Ci sono anche lussureggianti arrangiamenti di fiati ed archi mentre la “Trocadero” inserita in scaletta rende omaggio alla discoteca di San Francisco i cui DJ sono stati i pionieri del lento e sensuale sottogenere Disco noto come “sleaze”.
Altra novità discografica, stavolta pubblicata da una talentuosa cantautrice e chitarrista italiana. Sara Ardizzoni, collaboratrice di Cesare Basile e chitarrista dei Massimo Volume dopo l’abbandono di Stefano Pilia, è attiva da due lustri sotto il nome di Dagger Moth, con cui esplora le pieghe tra melodia e noise, tra caos e struttura, tra suoni elettronici e la sua sei corde. Già sei anni fa il suo secondo lavoro solista Silk Around The Marrow, con le collaborazioni di Marc Ribot e Antonio Gramentieri (Sacri Cuori, Don Antonio), aveva colpito per intensità e raffinatezza, portando Dagger Moth a suonare un po’ ovunque: club, festival, piccoli bar, teatri, musei, giardini e anche come opening act per artisti come Marc Ribot, Shannon Wright, Fennesz, Mike Watt, Peter Hook, Pumajaw, Keziah Jones, Sam Amidon, Marlene Kuntz, Hugo Race, Perturbazione, East Rodeo.
Il nuovo album, appena uscito e autoprodotto, prende il nome di “The Sun Is A Violent Place”, disco che, come dichiara la stessa Ardizzoni “ha iniziato a prendere vita nel 2020, durante quella che per tutti è stata una pausa forzata e surreale. Proprio quel misto di stati d’animo, altalenante fra incredulità, alienazione, angoscia strisciante e sospensione, si è fissato indelebilmente fra suoni e parole. Un coro di sensazioni che trovo ancora ancora tristemente attuale, visto il periodo storico assurdo che stiamo vivendo”. L’album è stato registrato tra le mura domestiche e vede il contributo di Fabrizio Baioni (batterista per Pierpaolo Capovilla e i Cattivi Maestri, Leda, Cirro, Circo El Grito) ai beats su tre degli otto brani. Il mix è stato finalizzato a distanza fra Ferrara e Berlino con Victor Van Vugt (già collaboratore in studio di Nick Cave, PJ Harvey, Beth Orton e molti altri). Il risultato è un disco intenso, scuro, dove veniamo condotti dall’elettronica e dalla chitarra di Dagger Moth ora nell’oscurità, ora alla luce, in un alternanza di sensazioni ed emozioni forti e contrastanti. Ascoltate “Afloat” per credere e magari acquistate il disco sulla sua pagina Bandcamp.
Continuando su traiettorie oblique ed oscure, andiamo a Berlino in Germania, a trovare un terzetto su cui circolano pochissime notizie anche in rete, e su cui è caduto il silenzio da parecchi anni. Denseland è il progetto nato nel 2008 dall’unione tra David Moss (voce), Hannes Strobl (basso, elettronica) e Hanno Leichtmann (batteria, elettronica, synth). Dopo il successo (naturalmente di portata limitata agli addetti ai lavori e a pochi ascoltatori) dell’esordio del 2010 chiamato Chunk, dove i tre si muovevano con apparente naturalezza in un dedalo di suggestioni tra un’elettronica glaciale, spasmi di improvvisazione e la voce di Moss ora recitativa, ora sarcastica a suggellare un album estremamente interessante.
Tre anni dopo, il trio tedesco-americano è tornato con un album che flirta con le stesse sonorità smussando alcuni angoli troppo taglienti. Like Likes Like è composto da 8 tracce che esplorano un universo seducente, attirando l’ascoltatore attraverso un’incessante pulsione di fondo e in loop; un groove che si muove in avanti e una pulsazione che spinge e intrappola allo stesso tempo. Sotto una superficie apparentemente spartana, cristallina e minimalista, la musica dei Denseland rivela correnti sotterranee contraddittorie: rumori inquietanti, pause strane, droni minacciosi, distorsioni stridenti, impulsi elettronici disarticolati, battiti fratturati, suoni sfigurati e la voce di Moss, ora sardonica, ora sussurrante. “Big White Circle” è uno dei vertici di un disco che paradossalmente chiude, o quasi, il loro percorso. Il trio tornerà solo 4 anni più tardi per un’uscita solo su cassetta per poi sparire di nuovo.
Se parliamo di viaggi, contaminazioni ed alchimie sonore, come non citare un personaggio come Damon Locks, che dopo un percorso da artista e musicista a 360 gradi (Trenchmouth, The Eternals), sublima la sua visione musicale con il Black Monument Ensemble ed incidendo per una delle etichette cardine della nuova, sublime, visione del jazz odierna: la International Anthem di Chicago. Now, il secondo album del gruppo, un disco importante per idee e contenuti, dove Locks mette in musica non solo le sue esperienze pregresse ma anche tutto il suo bagaglio di impegno nel sociale che lo ha portato a girare per le aree più degradate di Chicago, per le scuole, nelle prigioni, portando un messaggio di speranza e di uguaglianza.
Il suo essere trasversale sui generi musicali dal gospel all’afrobeat, dal jazz al funk elettrico, il tutto trafitto dalle voci di vari attivisti afroamericani a sublimare una musica che scende in campo per un’uguaglianza sociale. Il tutto circondato da un collettivo aperto, su cui spicca il clarinetto strepitoso di Angel Bat Dawid. Un disco ipnotico e militante, che conferma non solo Damon Locks ma soprattutto la International Anthem come faro musicale e sociale in questi tempi oscuri.
Chiudiamo il podcast con una delle artiste più dotate, talentuose, libere e coraggiose del panorama musicale attuale. Poetessa, attivista, musicista, Camae Ayewa in arte Moor Mother è in grado di celebrare la cultura afroamericana e di esplorarne le radici. Il confinamento dovuto alla pandemia aveva avuto come risultato alcune splendide playlist compilate da Camae per Spotify e la pubblicazione di uno splendido album intitolato Black Encyclopedia Of The Air. Anche questo album, se vogliamo, pone le sue basi nel lockdown, periodo in cui Moor Mother ha scritto numerose poesie dedicate alle sue fonti di ispirazione della storia della musica afroamericana tra cui Albert Ayler, John Coltrane, Julius Eastman, Billie Holiday, Nina Simone, Sun Ra, Mary Lou Williams.
Il tutto è stato poi consegnato nelle mani sapienti del suo (ormai) sodale produttore svedese Olof Melander, con il quale sono stati assemblate le 18 tracce (21 nella versione in CD) che compongono questo straordinario Jazz Codes. Ma non è stato un lavoro a quattro mani, per assemblare i brani i due si sono affidati a straordinari musicisti come Mary Lattimore (arpa), Nicole Mitchell (flauto), Jason Moran (piano), Keir Neuringer (sax), Aquiles Navarro (tromba) e diversi vocalist, che hanno mandato il loro contributi non sapendo dove sarebbero finiti. L’assemblaggio di questi frammenti sonori è stata straordinaria, Ayewa con Jazz Codes compie l’ennesimo prodigio di dipingere un affresco sonoro capace di incantare, di sorprendere, ricordando il passato e proiettandosi nel futuro, superando ogni divisione, e sperando (temo invano) che questa o le prossime generazioni siano in grado di avere più impegno civile e di non avere alcun tipo di preconcetto. “Blame” e “Arms Save” con una straordinaria Nicole Mitchell rappresentano l’album e chiudono il podcast odierno.
Un grazie speciale va, come sempre, a Franz Andreani per la sua passione, la gestione di questa banda di pazzi e per la splendida riorganizzazione del sito già attiva da qualche anno. A cambiare non è stata solo la versione grafica del sito, ma anche la “filosofia” della podradio, con le rubriche che vanno ad integrarsi nella programmazione regolare sotto l’hashtag #everydaypodcast. Sulla nostra pagina Facebook troverete quotidianamente ogni upload del sito e, ormai da tempo, è attivo anche lo splendido canale YouTube della Radio, una nuova formula senza interruzioni ne spot per ascoltare la vostra-nostra musica preferita. Iscrivetevi numerosi, vi aspettiamo!
Nel prossimo episodio di Sounds & Grooves, andremo a trovare le traiettorie schizofreniche di Polvo, Three Mile Pilot e quelle fuori scala del nuovo Gilla Band, il cantautorato ispirato di Ryley Walker e quello profumato di West Coast di Jonathan Wilson, l’ispirato entusiasmo di Stephen Tunney, in arte Dogbowl, la new wave di Echo & The Bunnymen e Virgin Prunes ed il talento di Matt Johnson aka The The. Un piccolo viaggio nella scena trip-hop dei ’90 con Nearly God e Portishead e la riscoperta di un album bellissimo a firma Bill Laswell, Charles Hayward, Fred Frith e Percy Howard. Il finale sarà appannaggio delle traiettorie a tinte scurissime di Keeley Forsyth e The Haxan Cloak. Il tutto, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
Intanto se volete potete sfruttare la parte riservata ai commenti qui sotto per darmi suggerimenti, criticare (perché no), o proporre nuove storie musicali. Mi farebbe estremamente piacere riuscire a coinvolgervi nella programmazione e nello sviluppo del mio sito web.
Se volete ascoltare o scaricare il podcast, potete farlo anche dal sito della PodRadio cliccando sulla barra qui sotto. Buon Ascolto
TRACKLIST
01. THE FALL: New Face In Hell da ‘Grotesque (After The Gramme)’ (1980 – Rough Trade)
02. FONTAINES D.C.: Too Real da ‘Dogrel’ (2019 – Partisan Records)
03. DEAD RIDER TRIO: Not A Point On A Scale da ‘Dead Rider Trio Featuring Mr. Paul Williams’ (2018 – Drag City)
04. T. REX: Cosmic Dancer da ‘Electric Warrior’ (1971 – Fly Records)
05. DROPKICK MURPHYS: Two 6’s Upside Down da ‘This Machine Still Kills Fascists’ (2022 – Dummy Luck Music)
06. MOVING HEARTS: Hiroshima Nagasaki Russian Roulette da ‘Moving Hearts’ (1981 – WEA)
07. JOHN MARTYN: Make No Mistake da ‘Live At Leeds’ (1975 – Island Records)
08. BILL CALLAHAN: Drainface da ‘YTI⅃AƎЯ’ (2022 – Drag City)
09. FOR THOSE I LOVE: I Have A Love da ‘For Those I Love’ (2021 – September Recordings Limited)
10.THE SOFT PINK TRUTH: Trocadero da ‘Is It Going To Get Any Deeper Than This?’ (2022 – Thrill Jockey)
11. DAGGER MOTH: Afloat da ‘The Sun is a Violent Place’ (2022 – Autoproduzione)
12. DENSELAND: Big White Circle da ‘Like Likes Like’ (2013 – M=minimal)
13. DAMON LOCKS BLACK MONUMENT ENSEMBLE: Now (Forever Momentary Space) da ‘Now’ (2021 – International Anthem Recording Company)
14. MOOR MOTHER: Blame / Arms Save da ‘Jazz Codes’ (2022 – Anti-)